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Caso Google – L’Italia fu il primo Paese a sfidare il padrone di Internet. Ecco come è andata

Cinque anni di trattative e siamo solo all’inizio: la Commissione europea ha contestato al colosso Usa soltanto l’abuso di posizione dominante. Per le altre infrazioni l’indagine va avanti. In Italia, primo Paese a sfidare nel 2009 il padrone di internet, la procedura si chiuse in poco più di un anno accettando gli impegni presentati dalla società

Caso Google – L’Italia fu il primo Paese a sfidare il padrone di Internet. Ecco come è andata

‘Game over’. Fine della trattativa, fine dei giochi. La comunicazione degli addebiti inviata a Google nei giorni scorsi dalla Commissione Europea per un possibile abuso di posizione dominante segna una nuova fase: gli impegni presentati durante questo quinquennio da Google non sono stati considerati sufficienti dalla Commissione “a dissipare le preoccupazioni concorrenziali” e se l’infrazione sarà accertata scatteranno le sanzioni.

In realtà siamo solo all’antipasto: Bruxelles ha ricordato che prosegue l’indagine relativa ad altri aspetti del comportamento di Google nello Spazio economico europeo, quali “il fatto che l’impresa, nei suoi risultati generali di ricerca, favorisca altri servizi di ricerca specializzati e le preoccupazioni derivanti dalla pratica di copiare i contenuti web dei concorrenti (pratica nota come ‘scraping’), l’esclusività pubblicitaria e restrizioni indebite imposte agli inserzionisti”.

Dunque l’indagine, avviata nel 2010, va avanti ma cinque anni (e altro tempo trascorrerà), in un mercato tecnologico in rapida evoluzione come quello sul quale Google è dominante, sono un’eternità. Sufficiente a creare danni irreparabili, a spazzare via irrimediabilmente realtà aziendali che si affannano a trovare il loro spazio. Volendo citare Voltaire viene in mente che realmente “il meglio è nemico del bene”. E per una volta l’Italia potrebbe essere presa ad esempio. Nel 2006 l’allora ministro delle Attività Produttive Pierluigi Bersani inserì nelle famose ‘lenzuolate’ la procedura relativa agli impegni che le aziende inquisite dall’Antitrust possono presentare per chiudere la partita senza rischiare la multa. Il modello fu mutuato proprio dalla normativa europea ma termini stringenti, procedure chiare, ‘trattative’ alla luce del sole, grazie anche alla regolamentazione trasparente che si è data l’Antitrust, fanno la differenza.

Per chiudere il ‘suo’ caso su Google, aperto nell’estate del 2009, l’Antitrust ci mise poco più di un anno. Fu la prima Autorità per la concorrenza a sfidare il gigante. Non ci furono maxi multe ma vennero accettati gli impegni presentati dall’azienda di Mountain View. L’abuso contestato a Google non era da poco: si comportava come un pistolero in un Far West popolato da gente disarmata. Il procedimento fu avviato sulla base di una segnalazione della Fieg, Federazione Italiana Editori Giornali, relativa al servizio Google News Italia, con il quale Google aggrega, indicizza e visualizza parzialmente notizie pubblicate da molti editori italiani attivi online. Secondo gli editori Google News Italia, utilizzando parzialmente il prodotto dei singoli editori on line, avrebbe avuto un impatto negativo sulla capacità degli editori online di attrarre utenti e investimenti pubblicitari sulle proprie home page. Gli editori italiani, che non ottenevano alcuna forma di remunerazione diretta per l’utilizzo dei propri contenuti su Google News, non avrebbero avuto inoltre la possibilità di scegliere se includere o meno le notizie pubblicate sui propri siti internet sul portale stesso: Google rendeva infatti possibile a un editore di non apparire su Google News, ma ciò comportava l’esclusione dei contenuti dell’editore dal motore di ricerca della stessa Google. La condizione era estremamente penalizzante perché la presenza sul motore di ricerca di Google è determinante per la capacità di un sito internet di attrarre visitatori e dunque ottenere ricavi dalla raccolta pubblicitaria, vista l’elevatissima diffusione di tale motore tra gli utenti.

Strada facendo l’Antitrust si imbatté in un altro comportamento potenzialmente abusivo: le condizioni imposte in Italia agli editori dei siti web nei contratti di intermediazione per la raccolta pubblicitaria on-line che dimostravano la prepotenza di Google sul mercato di internet.

Sotto inchiesta, in particolare, finì la rete AdSense, un programma di affiliazione attraverso il quale i proprietari di siti internet potevano vendere spazi pubblicitari utilizzando Google come intermediario. Gli utenti del programma AdSense ricevevano sì un corrispettivo ma le somme venivano determinate da Google di volta in volta a sua assoluta discrezione; Google non assumeva alcun obbligo di comunicare come tale quota fosse calcolata; i pagamenti erano calcolati esclusivamente sulla base dei registri tenuti da Google; Google poteva inoltre modificare in qualsiasi momento la struttura di determinazione dei prezzi e/o dei pagamenti a sua esclusiva discrezione. Insomma un padre-padrone dispotico che rendeva impossibile, agli editori che aderivano al programma AdSense, la pianificazione dello sviluppo e del miglioramento dei propri siti web nonché l’apprezzamento della convenienza di eventuali altre offerte provenienti da intermediari concorrenti.

La vicenda, come ricordato, si chiuse con l’accettazione degli impegni presentati da Google che ebbe, come contropartita, la possibilità di uscire indenne dalla procedura senza accertamento dell’infrazione. E in ballo non c’era solo il rischio della maxi-multa ma quella di dovere affrontare, a cascata, cause miliardiarie di risarcimento da danno antitrust, oltre all’obbligo di adeguarsi al diktat antitrust.

L’Autorità guidata all’epoca da Antonio Catricalà, ottenne in compenso un maggiore controllo da parte degli editori on line sui propri contenuti nell’ambito del servizio Google News, più trasparenza e verificabilità delle condizioni economiche applicate dalle imprese di siti web che si avvalevano dei servizi di intermediazione pubblicitaria di Google, rimozione del divieto il divieto assoluto di rilevazioni da parte di terzi del numero di click effettuati dagli utenti sui singoli annunci pubblicitari, sia pure a condizione che le tecnologie utilizzate fossero compatibili con le condizioni tecniche e procedurali rese note da Google.

Allora, come oggi, dopo l’accettazione da parte dell’Antitrust italiana degli impegni presentati da Booking.com, ci fu qualche mugugno. Si poteva fare di più? Forse. Esclusa però la possibilità di strappare a Google impegni più incisivi, le incognite sul tappeto, come sempre accade quando l’Antitrust sanziona, non sarebbero state da poco. Passi una sforbiciata a una eventuale maxi sanzione da parte della giustizia amministrativa, il vero rischio sarebbe stato un annullamento del provvedimento sanzionatorio: qualsiasi comportamento imposto a Google per effetto della condanna sarebbe stato azzerato e il gigante avrebbe ricominciato a fare il bello e il cattivo tempo. E anche nel caso di una conferma dell’impianto accusatorio da parte di Tar e Consiglio di Stato, l’Antitrust avrebbe dovuto aspettare almeno il giudizio di primo grado per imporre a Google comportamenti virtuosi. Nel frattempo i più piccoli sarebbero stati probabilmente mangiati e digeriti dal Gigante.

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