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Capitalismo opaco, legislazione da cambiare e spa da riformare

I casi Ligresti-Mediobanca, Montepaschi, Zaleski rivelano come la legislazione vigente abbia favorito le partecipazioni incrociate, i patti di sindacato, i gruppi con controllo minoritario e abbia sostanzialmente abolito il divieto per l’amministratore di agire in conflitto di interesse, fondamentale per il buon governo – Diventa urgente riformare la spa.

Capitalismo opaco, legislazione da cambiare e spa da riformare

Le infrastrutture giuridiche non sono meno importanti delle materiali: sono le regole delle istituzioni economiche. Fondamentale è la società per azioni, struttura per l’esercizio dell’impresa con finanziamenti raccolti presso il pubblico dei risparmiatori. La storia, l’esperienza, l’evoluzione degli ordinamenti più avanzati, in passato la dottrina (Ascarelli, G. Rossi, B. Visentini) e la politica (E. Rossi, Assonime, Confindustria), ci indicano il modello di riferimento. Se l’efficienza della gestione vuole il potere in una persona (amministratore delegato), l’efficienza del sistema richiede che il suo potere sia orientato esclusivamente al mercato, a contenere abusi e distorsioni: il gestore va costretto a far soldi, senza la distrazione di altre finalità.

Per questo deve dipendere da chi sopporta il rischio dell’affare, cioè dagli azionisti: sono loro che legittimano la società e il gestore; ogni azione partecipa al voto per la nomina e la revoca dell’amministratore mandatario (teoria contrattuale). Ma per l’efficacia del vincolo di mandato non basta il voto; di qui lo sviluppo dei diritti dei soci, strumentali alla nomina del gestore e alle decisioni che ne sanzionano il comportamento: revoca (merito) e azione di responsabilità (legalità). L’efficacia dei diritti dei soci, che in fatto sono delle minoranze, stabilisce il grado di indipendenza dell’amministratore dalla maggioranza che lo sostiene: se è intenso il rischio di rispondere personalmente alla minoranza, l’amministratore rifiuta l’ordine abusivo della maggioranza.

Nelle società ad azionariato diffuso i soci non sono nella condizione di esercitare i diritti che riconosce il modello della società famigliare. Anche il voto interessa soltanto in quanto apprezza il titolo; e perché in casi estremi ne può essere opportuno l’esercizio. Il loro interesse si appunta sulla negoziazione delle azioni e sull’esercizio delle azioni di responsabilità, quando la gravità della crisi sconsiglia la negoziazione. La disciplina si fa sofisticata. L’azionista per decidere la negoziazione, per votare o promuovere l’azione di responsabilità, deve disporre di informazioni attendibili, ma di immediata comprensione. L’informazione è nel bilancio, le altre ne sono sviluppo od integrazione. Perciò la revisione contabile è affidata a professionisti indipendenti; perciò l’assistenza di un’autorità amministrativa (da noi Consob) garante della qualità dell’informazione e delle negoziazioni.

A sua volta il governo della società fa del consiglio il garante, per conto dei soci, della correttezza del gestore, competenza che può essere effettiva soltanto se il consiglio dispone di organizzazione indipendente che consenta a ciascun consigliere di conoscere i fatti. L’efficacia del sistema poggia tutta sulle azioni di responsabilità nei confronti: del gestore; degli amministratori per l’esercizio della vigilanza sul gestore; del revisore per il controllo contabile. È l’efficacia della tutela giurisdizionale, sia pure come estremo rimedio, che rende operativi gli altri strumenti della sofisticata disciplina. Per questo il modello vuole rafforzata la giurisdizione, ad es. con le azioni di classe e con la distribuzione dell’onere della prova. Altrimenti lo strumentario predisposto dai regolamenti rimane un’ingombrante burocrazia, inutilmente costosa.

Se la disciplina del codice era insufficiente, con la riforma, e la legislazione che ne è seguita, il risultato è perverso. Vediamo il modello che ne esce. L’amministratore delegato, che con la presidenza può accentuare il potere, si confronta con un consiglio di amministrazione remissivo, per le difficoltà che incontra l’esercizio dell’azione di responsabilità a sanzionare l’inerzia dei consiglieri. Invero l’azione è preclusa al socio, soluzione già aspramente criticata da Ascarelli; con la riforma può essere esercitata da una minoranza, ma secondo una procedura così macchinosa da vanificarla. Aggrava le difficoltà dell’azione la soppressione del dovere di vigilanza del consiglio sul delegato: non è più sufficiente, a presumere la negligenza dei consiglieri, dimostrare l’insufficienza dell’organizzazione che il consiglio si è data per monitorare il gestore, bensì è necessario provare la specifica negligenza di ciascun consigliere.

Sul versante dei conti e del bilancio, l’altra componente per il monitoraggio della gestione, ne vediamo affidata la competenza al revisore, praticamente scantonando i sindaci, controllori pur deboli ma più indipendenti (il revisore è soggetto a revoca). Ad ogni buon conto la solerzia del revisore è assai debole per la difficoltà di chiamarlo a rispondere. La sua prestazione non è più, come in passato, l’affidamento sulla validità del bilancio, che attestava con il certificarlo, bensì il tenere un comportamento diligente secondo prassi, elaborate dagli stessi revisori, le quali consentono anche gli accertamenti per campione. 

Perciò nel caso di bilancio irregolare o falso non è il revisore che deve dimostrare che con tutta la buona volontà non avrebbe potuto rilevare il falso, bensì spetta all’attore dimostrare che le inesattezze avrebbero dovuto essere rilevate secondo diligenza, onere che vanifica l’azione. La revisione è divenuta un ufficio inutile ed un costo parassitario. La recente disposizione del t.u.f. sulla responsabilità da prospetto e da informazioni al mercato sembrano scritte da chi intende paradossalmente creare condizioni favorevoli rispetto al diritto comune della responsabilità, che è più severo. Anche sul piano penale ha vinto la deregolamentazione: le false dichiarazioni configurano reati di assai difficile accertamento.

La franchigia da responsabilità, rafforzata dalla disfunzione della giurisdizione, fa del gestore un potere che agevolmente si sottrae al controllo di chi fornisce i capitali. Nella esperienza italiana la società non è una monade. La legislazione ha favorito le partecipazioni incrociate, i patti di sindacato, i gruppi con controllo minoritario, e per questo ha sostanzialmente abolito il divieto per l’amministratore di agire in condizioni di conflitto d’interesse, così fondamentale per il buon governo. 

Di conseguenza la legittimazione dell’amministratore poggia sulle intese tra esponenti in reciproca collusione, ancor più svalutando la responsabilità verso il risparmiatore, già diluita nella catena di partecipazioni che consente un controllo di minoranza impersonato da uomini che sentono l’affare come proprio appannaggio. Le decisioni finiscono con l’essere di un’autorità informale. Quando si allenta il vincolo del rischio di mercato, il potere che comunque ha chi gestisce l’impresa finisce con l’orientarsi diversamente dal profitto, per interessi personali, politici ecc.; la società diviene un’istituzione incontrollata. Soltanto il tempo rivela la corruzione del sistema.

È quello che ora vediamo con l’obsolescenza delle maggiori imprese; con gli scandali ai quali assistiamo; con “gli scheletri nell’armadio del credito” che Massimo Giannini ci ha ricordato nell’ultimo Affari&Finanza (n° 31) con l’ironica elencazione introdotta da “alzi la mano chi non sa” di: Montepaschi, Ligresti-Mediobanca, Zaleski ecc. Proseguendo potrei aggiungere “chi non sa quanto ha concorso la legge sulle società ad aggravare i mali che lamentiamo”. La deregolamentazione del diritto societario riduce l’efficacia del diritto privato e delle giurisdizioni civili nella prevenzione delle illegalità, lasciando la sanzione alle sole giurisdizioni penali, che quando intervengono hanno effetti dirompenti. Dobbiamo pensare alla riforma della società per azioni con pazienza, con cultura.

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