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Cambiare l’Italia ma senza lo Stato come demiurgo

Un recente intervento di Mariana Mazzucato sul ruolo dello Stato in economia per affrontare le sfide post-virus contiene molte suggestioni ma solleva non poche perplessità per le funzioni troppo estese e troppo invasive che vengono prospettate allo Stato stesso – Non dimentichiamoci la lezione di Valletta, Sinigaglia ed Enrico Mattei e la saggezza di De Gasperi

Cambiare l’Italia ma senza lo Stato come demiurgo

L’articolo di Mariana Mazzucato – Trasformare lo stato e il suo ruolo per affrontare le sfide post virus, Il Sole 24 Ore, 30 aprile 2020 – contiene elementi di notevole suggestione, soprattutto laddove l’autrice individua concretamente – invero, non per prima – i terreni di intervento nel green deal e nell’aggiornamento tecnologico delle Pmi, come grandi occasioni da non perdere. Solleva però non poche perplessità quando affida allo Stato un gigantesco ruolo demiurgico.

“Lo Stato – afferma – non può limitarsi ad aggiustare i danni economici provocati dalla crisi finanziaria e dall’epidemia. Esso deve dare una forma nuova ai mercati, alle organizzazioni produttive e ai rapporti sociali e di lavoro, che premi la creazione di valore e la resilienza sociale e ambientale”.

Ora, che lo Stato si faccia carico del compito indicato da una persona competente come Mario Draghi, di immettere liquidità nel sistema economico e far pervenire soldi veri ai cittadini e alle imprese, appare realistico, ma conosciamo troppo bene lo Stato italiano per credere che possa fare molto di più.

Un ruolo di indirizzo, strategico, che Mazzucato correttamente evoca, è una cosa (altrove la chiamano “politica economica”), ma il titanico impegno di ridisegnare l’economia del Paese a tutti i livelli – mercati, rapporti di lavoro e sociali, proprietà e governance delle imprese – appare come un colpo di teatro in cui i protagonisti investiti del ruolo sono supereroi che si muovono in un universo parallelo, dimentichi della realtà del paese.

Si può invocare un “cambiamento strutturale” ma, quando si hanno responsabilità di governo dell’economia, non si può dimenticare la struttura esistente, in particolare la parte più dinamica dell’economia italiana – distretti e quarto capitalismo – così come la parte più arretrata – finalmente avremo una politica industriale capace di risolvere il divario Nord-Sud? – per sovrapporre una scommessa statalista sull’ultima occasione di rilancio dell’economia nazionale.

Il mio contributo è quello di ricordare la complessità delle vicende storiche richiamate da Mazzucato come esempi di “eccellenza” degli interventi statali nell’economia dei rispettivi paesi, in attesa che alle dichiarazioni generali, largamente condivisibili, facciano seguito progetti concreti sui quali impostare un dibattito fondato e proficuo.

Nel dopoguerra, protagoniste della ricostruzione in Italia sono state le imprese, non lo Stato. È stato Vittorio Valletta – che è andato a Washington e ha dimostrato ai finanziatori americani del piano Marshall di conoscere perfettamente la sua impresa, il suo settore e quindi le sue necessità-, ad ottenere la cospicua somma di cui aveva bisogno per ricostruire la Fiat.

È stato Oscar Sinigaglia, con incredibile intelligenza e tenacia, a dare al paese il grande impianto per la produzione di acciaio di Cornigliano. È stato Enrico Mattei, che ha messo persino soldi suoi, a far sì che l’Agip non venisse smantellata per “ragioni di stato”, ma anzi fosse potenziata e inserita all’interno di una grande holding, l’Eni. Lo Stato, ovvero la politica, soprattutto nella persona di De Gasperi, ebbe il merito di non ostacolare queste iniziative e il successo conseguente.

Le tecnocrazie giapponesi, che ho studiato proprio negli anni d’oro del prodigioso sviluppo nipponico, agendo per moral suasion e guidelines hanno ottenuto grandi successi in un settore come quello dell’acciaio, ma hanno anche offerto esempi di pessima progettualità, come quando il leggendario MITI voleva riunire in un’unica impresa tutte le aziende automobilistiche, le quali fortunatamente sono riuscite a evitare questa deriva. E non si può neanche sottacere il fatto che negli ultimi trent’anni queste stesse tecnocrazie siano corresponsabili del ristagno del paese.

Credo che il vero contributo che possa dare lo Stato italiano, attraverso la CDP e il MEF, sia valorizzare le risorse imprenditoriali e manageriali delle imprese che controlla ed assicurare che le imprese competitive sui mercati globali siano affidate alle “mani adatte”, secondo le competenze, e indipendentemente dalle cordate politiche e dagli schieramenti momentanei. È questa la grande lezione dell’Iri, negli anni in cui ha dato il decisivo contributo alla rinascita e alla modernizzazione di un paese economicamente in rovina.

°°°°°°L’autore è Senior Professor di Storia economica all’Università Bocconi di Milano

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