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Business a tutto storytelling: saper narrare una storia è davvero più importante che farla?

Saper narrare una storia sembra oggi più importante che farla e la fabbrica di narrazioni, per la quale la Rete agisce da canale di distribuzione, è diventata uno dei fenomeni più diffusi – Ma l’eccesso di storytelling ha indotto Lucy Kellaway a evidenziarne i paradossi sul Financial Times – Il mondo corporate è così impopolare da aver bisogno delle favole?

Business a tutto storytelling: saper narrare una storia è davvero più importante che farla?

La sopraffina arte dello storytelling

Storytelling è, come si dice a Firenze, “sulla bocca di tutti i bischeri”. Se la tua azienda ha perduto un cliente importante, conviene farne subito una storytelling, in modo tale che questa perdita si muti in un successo. Questa fabbrica di narrazioni, per la quale la rete agisce da canale di distribuzione, è una delle manifestazioni più affascinanti del nostro tempo. Si tratta di un’arte che prima era appannaggio di pochi e riveriti talenti, ma oggi è divenuto un’arte di massa, democraticamente esercitata da chiunque ne abbia il tempo e la voglia. Ora abbiamo anche il più grande storyteller dopo Omero, la pluri-cannoniera Donald Trump. Il biondo miliardario ha fatto installare, in un suo impianto da Golf a Sterling in Virginia, una lapide in ricordo di una battaglia della guerra di Secessione americana combattuta lì; un corpo a corpo così cruento che il sangue dei caduti colorò di rosso le acque del fiume Potomac, così dice l’iscrizione. Sta di fatto che questa battaglia non sembra mai essere avvenuta in quel luogo, ma molte, molte miglia distante. Almeno finora… Ma adesso gli atlanti di storia dovranno essere tutti rivisti per accogliere questa storia con la “s” minuscola nella Storia con la “S” maiusciola. Forza dello storytelling.

Story o History?

Sapere narrare una storia è più importante che farla. Tra poco non avremo più il Manuale di Storia, ma il Manuale di storie. Non sarà La Storia dell’amministrazione Obama, ma Le storie dell’amministrazione Obama. La storia dominante diventerà il canone, cioè la Storia/History. Non è che sia una cosa del tutto nuova. Tutti coloro che hanno fatto il liceo classico sanno chi è Senofonte, ma nessuno ricorda il nome di un soldato del manipolo di mercenari greci che, con Senofonte stesso, cercò di rientrate in patria dopo che la loro missione in Asia aveva perduto ogni scopo, dopo averlo raggiunto. Una narrazione bellissima, ma chi sa come sono andate davvero le cose? Ma noi siamo già appagati dall’insuperabile prosa di Senofonte e non vogliamo sentire altro. Poi la versione dal greco ha già esaurito ogni nostra energia.

Pure i cronisti medievali ricamavano, per non parlare del Vasari che, da buon aretino, quanto a invenzioni e simpatie/antipatie era più bravo che nella pittura. Grandissimo narratore, mediocre pittore, ma dopo Michelangelo ai pittori non restava che scegliersi un altro mestiere. Nella lingua inglese, una lingua lessicalmente più evoluta della nostra, si distingue tra la story, un racconto letterario che ha una parentela lontana con la realtà o è prodotto di pura fantasia, e la History, la disciplina e il metodo d’indagine fondato da Erodoto e Tucidite che ha una parentela molto stretta con la realtà e, come ogni scienza, ha il compito di ricercare, analizzare e soprattutto dimostrare. In Italiano, come in altre lingue, questa distinzione terminologica non c’è e quindi tendiamo a fare un po’ di confusione, tant’è che abbiamo un bel sinonimo di storia che è “racconto”, una parola che è però rivestita di una certa dignità e occupa una posizione elevata nel registro linguistico a tal punto che alle volte si sostituisce male al termine storia, che ha una sfumatura dozzinale.

Oggi infatti story ed History tendono a contaminarsi parecchio non solo sul piano linguistico. La narrazione batte la Storia, perché la capacità di persuasione di una narrazione fatta bene è immensa, mentre la Storia, in genere, è incapace di ogni attrazione fatale. Per questo oggi lo storytelling è sulla bocca di tutti, compresi i gestori degli hedge fund e dei private equity, persone che escono sempre dalla porta di servizio e i loro nomi non li ricorda neppure il portiere dello stabile dove lavorano. La nouvelle vague nel mondo corporate e di quello del business, studiato da una disciplina che si chiama la “scienza triste” e che Karl Marx chiamava “Scheisse”, è proprio lo storytelling.

Il corporate storytelling

In generale il mondo corporate ha espresso ben pochi casi da poter ispirare un racconto letterario mainstream. Il mondo del crimine, molti di più. Nella consapevolezza comune, forse, i due mondi non erano poi così separati, quindi rappresentandone uno si prendeva anche il pubblico dell’altro. Quello più interessante era senz’altro il mondo del crimine. I grandi magnati dell’industrializzazione americana si chiamavano “robber barons”, poi la filantropia li ha separati dalla “fortuna” di Al Capone. Chi ha visto quel gran film che è Il Petroliere adattato per lo schermo da Paul Thomas Anderson da un libro insuperato di Upton Sinclair, si può rendere conto come crimine e affari si sono toccati molto spesso nella storia. James Stuart in La vita è meravigliosa di Frank Capra (1947) è forse l’unico banchiere simpatico mai rappresentato al cinema; il film però fu un flop al botteghino e il suo enorme successo si deve ai passaggi natalizi in televisione. Si potrebbe salvare Richard Gere in Preety Woman che da cavaliere dell’apocalisse si muta in cavaliere azzurro. Il suo amico avvocato d’affari resta, però, rivoltante. Quando i fratelli Duke vengono ridotti sul lastrico da Dan Aykroyd ed Eddie Murphy in Una Poltrona per due di John Landis, si scatena sempre l’applauso degli spettatori.

Nel secondo Novecento l’espressione esteriore più interessante del mondo del business è stata la pubblicità che ha influenzato enormemente le arti visive, della parola e dello spettacolo. Solo nell’ultimo cinquantennio si è visto qualcosa degno di essere narrato: la vicenda umana e professionale di Steve Jobs ha avuto due film andati piuttosto male, al fenomeno della Silicon Valley è stata dedicata una serie televisiva imperdibile. Al visionario costruttore d’auto Preston Tucker, Francis Ford Coppola ha dedicato un film con uno strepitoso Jeff Bridges; il film del 1988 fu un fiasco epico al box office. La vita di William Randolph Hearst, il tycoon dei mass media, ha ispirato Orson Welles a girare Citizen Kane, il numero uno dei capolavori dell’arte cinematografica. Pure il mondo di Wall Street, dove non c’è bisogno della finzione per creare narrazioni strabilianti con cattivi, buoni, brutti, idioti e lancio del nano ha ricevuto molta attenzione dai creatori di storie. Ultimo in ordine di tempo Martin Scorsese che si è affidato a un Di Caprio strabordante per raccontare a modo suo la vita e i tempi di Jordan Belfort.

Questa è, diciamo, un’arte liberamente pensata e creata che ha come scopo l’arte, è arte per l’arte. Altra cosa è quando lo storytelling nasce con un obiettivo preciso o è parte di un’azione di marketing mix ben programmata da specialisti della comunicazione corporate. È un’arte, diciamo minore, ma sempre arte è, se no è ridicola. Molto spesso è semplicemente patetica, poiché puzza di posticcio come gli scenari di Fellini, che questi sì sono arte strabiliante.

È proprio l’eccesso dello storytelling di dubbio gusto, come un deodorante vinto alla fiera di beneficienza, che ha attirato l’attenzione di Lucy Kellaway, una delle penne più abrasive del giornalismo globale, da 25 anni al “Financial Times” con una seguitissima rubrica al Lunedì “Onwork”. Qui discute gli aspetti più paradossali e spassosi del mondo del lavoro e del suo gergo. Nel numero del 7 dicembre 2015 del quotidiano economico londinese ha pubblicato un articolo dal titolo Stories are best for Bible and in Novels, not in the C-suite che in Italiano potrebbe essere reso così Le storie vanno bene nella Bibbia e nei romanzi, non nelle stanze dei capi. Per i nostri lettori John Akwood ha tradotto questo divertente e brillante pezzo della Lucy che potete trovare anche in podcast (in inglese, ovviamente).

Siamo sicuri che il bene più grande è la nostra storia? Qual è il bene di maggior valore?

Da un punto di vista finanziario, la risposta è probabilmente “la casa”. Si potrebbe anche dire la salute, la famiglia, il tempo… Stando a un nuovo libro di Carmine Gallo, un ex-giornalista, il bene di maggiore valore non è niente di ciò… perché è la nostra storia.

Anche se io nutro il più grande rispetto per la mia storia, che saccheggio puntualmente per i miei pezzi, penso che sia un’idiozia vederla come il bene più grande.

La prima volta che ho scritto su questa mania dello storytelling, era una decina di anni fa. Ricordo che me la sono presa con uno studioso americano autore un libro, Around the Corporate Campfire, che spronava la gente a “sviluppare storie appassionate, intrise di valori che si diffondessero come un incendio così da spingere il pubblico verso una certa visione”.

Sull’incendio c’aveva senz’altro ragione. Dopo dieci anni il fuoco del bivacco si è esteso pericolosamente al punto che bisogna chiamare i pompieri.

Lo storytelling oltre ogni decenza

So qualcosa a proposito di storie perché sono una storyteller professionista. Sono un giornalista e il mio lavoro è raccontare. Oggi tutti sono storyteller: i dottori non ci sono più per diagnosticare una malattia, ma per raccontare storie sulla malattia. Negli architetti si ricerca la stessa capacità. Quest’ultima faccenda è piuttosto seccante almeno per me che vivo in una casa progettata da un architetto visionario che infiltra acqua piovana ogni volta che fa cattivo tempo. Alla fine sono diventata più appassionata al design di strutture impermeabili che al lavoro di raccontare storie.

Addirittura dai matematici e dagli scienziati oggi ci aspetta una sorta di narrazione delle loro scoperte e del loro lavoro. La cosa più assurda di tutte è che la mania delle storie ha contagiato anche gli auditor.

Il capo delle risorse umane di KPMG ha scritto un articolo sulla “Business Harvard Review” in cui descrive lo storytelling come il più alto scopo della sua società. Un intento che che si è concretizzato nel personale racconto di come ciascuno dei suoi 42 mila dipendenti sta cambiando il mondo. Si potrebbe dire che tale alto scopo è confortante, ma dato che KPMG è una società di revisione contabile e di consulenza fiscale che svolge audit per HBOS, Countrywide Financial e Quindell, qualcuno potrebbe preoccuparsi che quest’altissimo scopo non sostituisca quello di fare bene il lavoro che KPMG è chiamata a svolgere.

Se uno scrittore diventa CSO (Chief Storyrelling Officer)

In effetti ciò che mi stupisce di  più è il fatto che molti narratori di fama si sono dati a questa moda. Se scrittori di mezza tacca riescono a spennare le imprese per scrivere storie improbabili, va bene. La scorsa settimana ho letto su “Fast Company” che Mohsin Hamid, lo scrittore di origine pakistane e autore di The Reluctant Fundamentalist, è diventato narratore in capo (Chief Storytelling Officer) da Wolff Olins, una società globale di consulenza. Questo è spiacevole e inspiegabile. Come può uno scrittore che ha scritto una storia brillante e divertente come How to Get Filthy Rich in Rising Asia  accettare un incarico e un titolo così pomposo e ridicolo? Uno scrittore non può essere mai a capo di qualcosa senza parlare del termine dirigente (officer). Non c’è posto per uno scrittore nelle stanze dei capi.

Quello che nella realtà vediamo è scoraggiante: la capacità di usare correttamente le parole da parte delle aziende è inversamente proporzionale alla quantità di volte che parlano dello storytelling. Ogni annuncio di lavoro da parte di un’azienda ricerca nel candidato “la capacità di creare narrazioni efficaci”. Su LinkedIn una società che si chiama DialogTech sta cercando un chief storyteller che sappia “ideare materiali innovativi e creativi di marketing che rispecchino le aspettative della nostra audience di riferimento e la convinca a entrare nel nostro brand da punti di contatto plurimi”. Bingo: 14 parole cliché in una sola frase. Le storie creano empatia, ma devono essere costruite bene, altrimenti ottengono l’effetto contrario.

Il posto giusto delle storie che devono essere buone

Se nel posto giusto, le storie son una buona cosa. La Bibbia ne ha lacune veramente carine. Ogni giornalista sa che, se deve scrivere un articolo palloso sulle novità della politica fiscale, ha bisogno alleggerirlo trovando una persona che racconta come quella politica può rendere la sua vita impossibile o fantastica.

Amiamo le storie perché amiamo le emozioni e perché sono zucchero per il nostro intorpidito cervello. Le storie rianimano le cose, ci rifocillano e ci ispirano. È come dire che l’acqua bagna. Non c’è niente di magico in ciò. Non c’è nessuno bisogno di farne un chiodo fisso, o per Gallo, nel suo The Storyteller’s Secret, di spacciare una banalità neurologica come quella che lo storytelling scatena nel nostro cervello reazioni neurochimiche che interessano il cortisolo (un ormone steroideo) e la ossitocina tanto da ottenere nel soggetto empatia e disponibilità.

Il problema con queste storie è che, per avere un qualche minimo effetto, devono essere buone e molta gente non sa proprio raccontarle. Un altro problema è che più le rendi interessanti, meno vere appaiono.

All’inizio di questo articolo ho detto che tutti siamo dei narratori. Non è così! Dopo infinite ricerche su Google ho scoperto che due professioni sono del tutto estranee allo storytelling: gli idraulici e i dentisti. Ciò ha un senso. Se ha bisogno di una devitalizzazione non vuoi una narrazione, vuoi qualcuno che è bravo nel trapanare il dente e rimuovere le radici. Gli idraulici non hanno il tempo di raccontare storie quando sturano il WC.

È veramente un cattivo segno che il mondo corporate sia messo così male da aver bisogno di raccontare storie. Significa che pensiamo che il nostro lavoro non è abbastanza buono da farne a meno.

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