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Bruno Trentin, il lato umano di un sindacalista indimenticabile

Il 23 agosto 2007 moriva Bruno Trentin, leader della Cgil, di cui un Paese smemorato s’è dimenticato troppo presto – Dall’autunno caldo alla scala mobile – Fa discutere la pubblicazione postuma dei suoi “Diari” in cui prima del sindacalista emerge l’uomo Trentin, non privo – come tutti – di debolezze personali

Bruno Trentin, il lato umano di un sindacalista indimenticabile

Il 23 agosto del 2007 moriva a Roma Bruno Trentin. Mentre mi accingevo a scrivere queste righe mi sono nuovamente sorpreso a pensare che vicende, storie, esperienze appartenute ad una vita ormai lunga come la mia, siano in fondo un patrimonio comune a cui è sufficiente fare riferimento per intendersi nella comunità di cui si è parte. Per me Trentin è una persona che appartiene alla storia di questo Paese smemorato: una persona di cui non possono essere ignorate le qualità, le doti di leader, le azioni svolte nell’interesse dei lavoratori, per la causa del sindacato e della democrazia.

Poi penso che tra otto anni qualcuno – spero la Cgil – ne celebrerà il centenario della nascita. E mi rendo conto di quanto tempo sia passato dagli anni in cui il movimento sindacale, la sinistra, il Paese potevano contare su personalità del valore di Bruno Trentin e di tanti altri di quella caratura (che io ho avuto l’onore di conoscere). Certo, il carattere e le qualità di una persona vengono formati dagli eventi che derivivano dalle sfide che la vita impone. Per Bruno queste sfide cominciarono prima della nascita.

Suo padre, Silvio, un grande giurista fondatore del diritto amministrativo, fu tra i pochi docenti universitari che rifiutarono di giurare fedeltà al regime fascista. Per  questa ragione perse la cattedra e il lavoro e fu costretto ad espatriare in Francia, dove aprì una libreria a Pavie in Guascogna. Lì nacque nel 1926 Bruno, che rientrato in patria dopo la caduta del fascismo partecipò, giovanissimo, alla Resistenza nelle formazioni di Giustizia e Libertà (ha ricordato quei tempi nel libro “’Diari di guerra”).

Laureato in giurisprudenza frequentò un corso di specializzazione negli Usa. Al ritorno entrò a far parte dell’Ufficio studi della Cgil (e si iscrisse al Pci) fornendo un contributo intelligente ed innovatore alla svolta che seguì la sconfitta di quell’organizzazione nelle elezioni di Commissione interna alla Fiat nel 1955. Ma l’incontro decisivo di Bruno fu quello con la Fiom.

Divenutone segretario generale nel 1962 (insieme con Piero Boni)  portò quella federazione dapprima alla conquista della contrattazione articolata nel rinnovo contrattuale dell’anno successivo; poi – anni dopo – in compagnia con Pierre Carniti (Fim-Cisl) e Giorgio Benvenuto (Uilm-Uil, il solo sopravvissuto dei tre) fu protagonista dell’autunno caldo del 1969 e di quello storico contratto che cambiò radicalmente la storia delle relazioni industriali. Le federazioni dei metalmeccanici in quegli anni rilanciarono con forza anche la prospettiva dell’unità sindacale, compiendo atti concludenti in quella direzione (Trentin era solito affermare che la categoria nel procedere verso l’unità “si era bruciati i vascelli alle spalle”.

Rimase alla direzione della Fiom fino al 1977, inanellando successi ed innovazioni; poi entrò a far parte della segreteria confederale.  Nel 1986, all’uscita di Luciano Lama, Bruno sarebbe stato il candidato naturale a succedergli. Ma venne preferito Antonio Pizzinato che nel giro di un paio di anni si rivelò inadeguato a svolgere quel ruolo.

Così, nel 1988, la Cgil in profonda crisi fu costretta a ricorrere a Trentin, il quale rimase al vertice dell’organizzazione fino al 1994, quando fu eletto al Parlamento europeo. Bruno ha ricordato quell’esperienza nel suoi Diari (pubblicati postumi  l’anno scorso per volere della moglie Marcelle Padovani). Furono anni difficili. Per tanti motivi.

Da segretario confederale, Bruno Trentin si trovò ad affrontare antiche pendenze provenienti dall’inizio degli anni ottanta (la sorte della “scala mobile” e l’assetto della struttura della contrattazione) in un contesto assolutamente nuovo: il crollo del Comunismo (la Cgil era impegnata in un’assise a Firenze il 9 novembre 1989, quando si sgretolò il Muro di Berlino), la trasformazione del Pci e il tramonto definitivo di quel monolitismo comunista (invero già parecchio in crisi) che aveva rappresentato, tradizionalmente, la costituzione materiale della Confederazione, nel senso che la disciplina della componente di maggioranza aveva garantito la tenuta dei patti e delle decisioni all’interno della Cgil e con la Cisl e la Uil.

Già da alcuni anni si era aperta una dialettica tra partito e sindacato che aveva creato non pochi problemi, ad ogni livello, ai militanti comunisti. Nei primi anni novanta, però, la diaspora divenne esplicita ed ufficiale. Non solo nacque un altro partito comunista (il Prc), ma Fausto Bertinotti (allora componente della segreteria confederale, ancora iscritto al Pci-Pds) fondò una corrente di sinistra (“Essere sindacato”) che nel Congresso del 1991 raccolse circa un quarto dei consensi, con punte più alte nei sindacati dell’industria e, in generale, nelle grandi fabbriche.

La vicenda della scala mobile restava in attesa di una soluzione, che fu trovata, dopo alterne vicende, nell’accordo del 31 luglio 1992, con il governo Amato. Un’intesa che creò parecchi problemi all’interno della Cgil, fino a dare luogo alle dimissioni di Bruno Trentin (poi ritirate dopo una lunga seduta del Consiglio generale). Di questa vicenda Trentin parla a lungo nei suoi Diari, mettendo allo scoperto un lato umano sconosciuto anche da chi lo conosceva da anni.

Il Bruno Trentin che traspare dai “Diari” è innanzi tutto un uomo, con un carico di grandi responsabilità e di aspettative di milioni di lavoratori, che attraversava una fase di difficoltà personale (ecco “il male oscuro” della depressione); che senso ha avuto, allora, correre il rischio (per i giudizi pesanti che vi sono contenuti) di trasformare una vicenda intima in un caso politico, per di più a tanti anni di distanza e a proposito di eventi dimenticati? Al dunque è risultato essere un fuoco di paglia che ha interessato qualche “ex” e basta.

I morti hanno continuato a seppellire i morti. Ed è questo un segno drammatico dei tempi. Quando un Paese archivia nell’oblio i suoi figli migliori finisce per meritarsi la classe dirigente che ora lo governa. Chi scrisse ‘’Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi’’ sbagliava, perché  non immaginava certo che – avvenuta l’eclissi di una élite –  si potesse scendere tanto in basso.

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