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Borsa, grande è bello: Apple vale quanto il Regno Unito

Gli indici internazionali premiano Wall Street e il mercato Usa avanza, grazie anche alla flessione della Cina. In compenso, sono pochi grandi colossi a muovere gli indici che fanno meglio dei gestori. E così l’S&P chiude in rialzo del 27%, ma 90 titoli perdono il 20% rispetto ai massimi. Ecco perché

Borsa, grande è bello: Apple vale quanto il Regno Unito

INDICI MEGLIO DEI GESTORI, 90 TITOLI USA GIU’ DEL 20%

Riuscirà la Mela a superare il Regno di Sua Maestà britannica? Anche così si può descrivere la sfida dei mercati finanziari alla fine del 2021. Apple, infatti, arriva a ridotto di San Silvestro ad un soffio dall’ennesimo traguardo storico: 2.999,600 miliardi di dollari di valore, tanto quanto gli operatori stimano possa valere la casa degli iPhone che, da sola, ormai vale in Borsa quasi quanto il prodotto interno lordo del Regno Unito, pari a 3.212,000 miliardi di dollari. Certo, non è ortodosso mettere a confronto il destino di quasi 70 milioni di fedeli sudditi della Regina con una macchina da profitti che non ha da preoccuparsi di pensioni, sanità, difesa o altre voci di spesa di uno Stato. Ma altri paragoni non sono meno impressionanti. Il gigante californiano vale, ai prezzi attuali, cinque volte tanto l’intera Piazza Affari. E non è esagerato dire che Luca Maestri, il direttore finanziario di Apple che è senz’altro lo studente della Luiss che ha fatto più carriera, gode di un prestigio superiore al ministro del Tesoro del Bel Paese.

Ma basta con i paradossi, comunque utili a sottolineare che Leonardo Del Vecchio, patron di Luxottica, non è poi lontano dal vero quando, per giustificare la sua scalata alle Generali, sottolinea che di questi tempi piccolo non è bello. Senza voler entrare nel merito della sua analisi, si può dire che nel 2021, anno secondo della pandemia, le Borse hanno premiato i giganti. In vari modi:

  • Le Borse indossano sempre di più vestiti a stelle e strisce. E’ quanto emerge dalla fotografia dell’indice MSCI ACWI che raggruppa un totale di circa 3.000 azioni di società quotate su 23 mercati sviluppati e 26 mercati emergenti appartenenti a 11 settori diversi. In esso è rappresentato circa l’85% del totale di ogni mercato per un totale di 70,30 trilioni di dollari di asset. Cinque anni fa i listini Usa hanno effettuato il sorpasso, al punto da rappresentare il 52% della capitalizzazione complessiva. Oggi la percentuale è salita al 60% abbondante. Al secondo posto, stacccato anni luce, figura il Giappone con il 5,72% del valore.
  • L’avanzata Usa è stata favorita dalla discesa dei colossi della tecnologia cinese, da Alibaba a Tencent, colpiti per la loro voglia di autonomia, dalla scure di Xi Jingping. Il risultato è che nella top ten per valore oggi figura un solo titolo non statunitense: di tratta di TSMC, il colosso dei chips di Taiwan. Per il resto la classifica è composta da:  Apple, Microsoft, Amazon, Meta (ex Facebook), Alphaber (ex Google), Tesla, Nvidia.
  • Al decimo posto è spuntato, quasi a sorpresa, il primo titolo non tecnologico: JP Morgan con un valore di borsa di 474 miliardi di dollari. Circa un quarto della capitalizzazione (il 23%) fa infatti capo al mondo tech, davanti ai finanziari (15%). Fa un grande balzo in avanti il comparto pharma, circa il 13% della capitalizzazione.
  • Il titolo leader della vecchia Europa è il gigante del lusso LVMH con un valore di mercato pari a 369,33 miliardi per un rapporto prezzo utili che sfiora le 40 volte, un multiplo degno della new economy.
  • Ma fino a che punto gli indici sono rappresentativi della realtà dei listini? Una ricerca pubblicata stamane dal Wall Street Journal dimostra che l’85% dei gestori chiuderà l’anno con un risultato inferiore all’andamento degli indici. Non è un fenomeno inusuale (nel 2020 il dato era pari al 64%) ma quest’anno è stato particolarmente vistoso. Le tensioni geopolitiche e la pandemia hanno fortemente condizionato l’andamento dei listini. In particolare, nel corso dell’anno si è sbriciolato l’ottimismo indotto dalle iniezioni di denaro da parte degli Stati per limitare l’impatto delle chiusure. L’euforia dei vari Robinhooders ha lasciato posto alla delusione e ad una sorte di paura: oggi, secondo il Financial Times, una fetta rilevante delle opzioni put (protezione contro il ribasso) è sottoscritta da risparmiatori individuali.
  • Nonostante l’indice S&P si avvii a chiudere l’anno con un rialzo del 27%, più di 200 società sono sotto del 10% rispetto ai massimi, 90 perdono il 20% circa.  Per dirla con Alessandro Fugnoli, “questo svuotamento ha lasciato quasi intatta la scintillante facciata degli indici sui massimi storici, ma ha eroso il valore della grande maggioranza dei titoli e in particolare di quelli più speculativi”.
  • Difficile non condividere la morale del gestore (laureato in filosofia, del resto):  “In questo contesto agli investitori occorre anche più del solito mantenere equilibrio di giudizio. Così come era esagerato l’entusiasmo all’inizio dell’anno così ora pare eccessivo il pessimismo provocato più da un senso di stordimento, di delusione e di frustrazione che da un deterioramento strutturale del quadro sottostante”.

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