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Bocconi e Ernst&Young: la crescita delle imprese passa dall’espansione per linee esterne

Da uno studio del Centro di ricerche su sostenibilità e valore dell’Università Bocconi, in collaborazione con Ernst&Young, emerge che per sopravvivere alla crisi le aziende italiane devono allargare le proprie dimensioni attraverso fusioni e acquisizioni, investendo anche all’estero – Ma lo fanno sempre meno: nei Bric solo 4 operazioni negli ultimi 3 mesi.

Bocconi e Ernst&Young: la crescita delle imprese passa dall’espansione per linee esterne

La parola d’ordine è sempre quella: crescita. Senza la quale, nel panorama internazionale contrassegnato dalla crisi e dalla tendenza delle aziende a diventare sempre più grandi attraverso fusioni ed acquisizioni, è impossibile sopravvivere.

L’Italia e il suo tessuto industriale ed economico, da questo punto di vista, sono il fanalino di coda dell’Europa. A rivelarlo è lo studio “L’imperativo della crescita per le aziende italiane: come si crea valore in tempo di crisi?” presentato oggi dal CReSV, il Centro di ricerche su sostenibilità e valore dell’Università Bocconi, in collaborazione con Ernst & Young. “Il fatto che gli esiti delle operazioni di fusione e acquisizione (M&A) siano incerti – spiega Maurizio Dallocchio, cattedra Nomura di corporate finance alla Bocconi – non deve spingere le imprese italiane a rinunciare a questa fondamentale opportunità di crescita per linee esterne, ma deve convincerle a concludere operazioni di M&A con più respiro internazionale, per favorire la competitività e la sostenibilità”.

Ed uscire così dal circolo vizioso delle piccole dimensioni che frenano l’accesso al credito, che a sua volta frena la competitività e di conseguenza la crescita, che va dunque perseguita, secondo la ricerca, non più solo in via organica ma anche e soprattutto per linee esterne. Ossia comprando e investendo, anche all’estero.

La situazione delle imprese italiane è invece ad oggi esattamente opposta: il 95% di loro ha meno di 9 addetti, la media dei dipendenti è di appena 3,9 per azienda, e nella classifica della competitività sostenibile (Global Sustainable Competitiveness Index) l’Italia è solo 28esima, ovvero ben dietro alla maggiore parte dei suoi competitor europei.

Questo principalmente a causa della scarsissima attenzione dedicata all’innovazione, che insieme con lo sviluppo demografico e la semplificazione burocratica e normativa è considerata dai relatori dell’Università milanese come il più importante fattore di crescita. L’Italia, come è noto, destina solo l’1,26% del proprio Pil alla R&S (Ricerca e sviluppo), rispetto a una media Ue intorno al 2% e ai Paesi scandinavi che viaggiano fra il 3 e il 4%. Dato ancora più negativo se si pensa che il primo attore in innovazione risulta essere lo Stato, mentre sono le stesse imprese a crederci e investirci poco (nella speciale classifica siamo dietro a Irlanda, Estonia e Spagna).

Da lì poi si registrano una serie di altre problematiche, dall’atteggiamento timoroso e “provinciale” di molti imprenditori, alle successioni spesso disgreganti, alla scarsa propensione a utilizzare equity, alla storica diffusione del credito bancario e commerciale a breve termine fino alla specializzazione della nostra manifattura in settori già maturi, con basso tasso di crescita. Per non parlare di tutti gli ostacoli “pubblici”: lentezza burocratica, incertezza del diritto, assenza dello Stato, caos normativo. E di quelli contingenti, come la decrescita demografica causata da inesistenti politiche per le famiglie e da un’immigrazione mal regolamentata.

Le operazioni di M&A dovrebbero essere favorite e non osteggiate – ha insitito Dallocchio -, perché la crescita organica è difficile da perseguire in un contesto in cui l’economia è fondata su settori a non forte crescita. L’obiettivo dell’incremento dimensionale rimane irrinunciabile per affrontare le sfide dei nuovi grandi mercati, delle nuove tecnologie e delle nuove idee”.

Le ricette? Lo studio del CReSV suggerisce piuttosto degli stimoli, che sono appunto una maggiore attenzione all’innovazione (l’obiettivo entro il 2020 è di dedicarvi l’1,5% del Pil), meno pressione fiscale, lotta agli sprechi, semplificazione burocratica e normativa, e soprattutto, appunto, crescita per vie esterne. Ossia ingrandimento, espansione, anche e soprattutto grazie a una maggiore internazionalizzazione

Anche qui, però, c’è un dato che più di altri dà l’idea di quanto le imprese italiane si stiano in realtà chiudendo sempre di più nelle loro piccole dimensioni, con poco coraggio e poca voglia di investire all’estero. Persino negli appetitosi Bric. Negli ultimi tre mesi, secondo i dati Ocse, le aziende italiane sono state oggetto di operazioni di acquisizione (attiva o passiva) solo 3 volte in Brasile e una in Russia. Nessuna in Cina e India, dove invece hanno imperversato decine di attività di altri Paesi europei, mentre nel gigante sudamericano, ad esempio, si sono registrate ben 17 operazioni di aziende Usa e addirittura 5 di ditte spagnole.

Tuttavia, unico spunto positivo dello studio, anche se aggiornato solo al 2010, è quello relativo alla variazione della ricchezza delle famiglie. Mentre le aziende arrancano e non si rinnovano, rimane però più solido che mai in Italia l’istituto della famiglia. Dal 2008, anno di inizio della crisi, al 2010, infatti, gli italiani hanno perso solo il 4% della loro ricchezza: risultato encomiabile se paragonato al -30% degli spagnoli, al -20% dei greci, e persino al -19% degli olandesi e al -6,6% delle famiglie francesi.

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