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Berta: “Fca e Psa, Exor e Gedi: il 2020 sarà l’anno della verità”

INTERVISTA A GIUSEPPE BERTA, docente di Storia dell’economia alla Bocconi – “L’industria europea dell’auto è diventata temeraria ma l’auto elettrica è una scommessa e abbondare il diesel un errore” – “Fca ha evitato il ginepraio Renault” ma il difficile viene adesso

Berta: “Fca e Psa, Exor e Gedi: il 2020 sarà l’anno della verità”

Poche settimane fa 2.000 manager di Audi si sono radunati al quartier generale del gruppo, in quel di Ingolstadt, per condividere la pillola amara del nuovo piano industriale che comporta un taglio di 9.500 posti, solo parzialmente compensati da 2 mila assunzioni nell’ambito dell’elettrico. ”Per la durata della convention – racconta Giuseppe Berta, intervistato da FIRSTonline – la Casa aveva messo a disposizione dei dirigenti 2 mila vetture elettriche”.

Improvvidamente però, “perché la rete elettrica di Ingolstadt non ha retto all’impatto di un utilizzo di quelle dimensioni. E la città è rimasta al buio”. Una vicenda emblematica, spiega il professore, docente di storia dell’Economia in Bocconi, dello stato dell’arte dell’auto europea alla vigilia di quello che rischia di essere un anno drammatico per le quattro ruote: nel 2020, secondo le stime del Financial Times, si venderanno quattro milioni di vetture in meno nel Vecchio Continente, con drammatici effetti a catena su tutta la filiera.

Ma andrà così? E che accadrà all’industria italiana, sia quella che punta sulla carta francese che sui fornitori legati al made in Germany? 

“L’industria europea sta navigando al buio. Per tradizione il sistema industriale ha peccato di prudenza, a vantaggio di americani ed asiatici che hanno colmato il gap esistente. Adesso, complice un sistema di regole molto pesanti, si è scelta la strada opposta, al limite della temerarietà, sottovalutando i costi della scelta: si taglia in Germania, a partire da Mercedes, per non parlare degli investimenti enormi. Temo che lo sforzo, alla prova dei fatti, si rivelerà insostenibile anche perché si prenderà atto che le previsioni sui tempi dell’elettrico, comprese le Infrastrutture, non saranno rispettate”. 

Il risultato? 

“Mi aspetto un anno molto duro per la Germania e, di riflesso, per i Paesi che partecipano alla filiera produttiva tedesca. Tra l’altro, siamo stati così bravi da far fuggire i clienti dal diesel, una tecnologia in cui l’Europa era leader. Una follia che è alla base della maggior parte dei problemi di oggi”. 

Ma ci sarà senz’altro del metodo dietro queste scelte. O no? 

“Francamente io non lo vedo, soprattutto se guardo ai tempi dell’operazione, davvero forzati. Ha senz’altro avuto un forte peso lo shock del dieselgate, così come la paura tedesca di perdere la leadership nel settore. Di fronte all’offensiva di Trump è cresciuta la voglia di creare un sistema europeo d’avanguardia a guida tedesca. Il rischio, però, è che la scommessa, sottoposta a tensioni quasi insopportabili per il sistema sociale, possa provocare un corto circuito politico. Non escludo un ripensamento, anche se la macchina, una volta avviata, avanza per inerzia”. 

Non è un fenomeno solo europeo. 

“Quel che da noi avviene sotto la spinta dei regolatori, altrove si muove su iniziativa dei produttori. In America anche contro le indicazioni della Casa Bianca. Mi preoccupa però l’approssimazione con cui si prendono per buone proiezioni tutto da confermare. Nel 2018, ad aprile, ho visto a Detroit una flotta di auto a guida autonoma. All’epoca mi avevano assicurato che le vetture sarebbero entrate in commercio entro l’autunno. Ma per ora non è successo nulla. C’è un’insicurezza di fondo cui il mondo dell’auto non è abituato. Nell’incontro annuale con i digenti Fiat Chrysler c’è stato un interessante intervento su quel che occorre per avviare un’infrastruttura elettrica in grado di sostenere flussi di traffico significativi. Mi sono convinto che, per l’Italia, si profilano tempi lunghi, anzi lunghissimi prima che qualcuno si azzardi a percorrere la Torino-Milano sull’auto elettrica. Ma vi rendete conto che oggi, in assenza di interventi sulla rete, per ora nemmeno progettati, ci vogliono dodici ore per ricaricare una Tesla?”. 

Come si colloca in questo quadro Fiat Chrysler alla vigilia della fusione con Peugeot? 

“Fiat Chrysler ha rinviato al secondo semestre il varo della 500 elettrica. Voci dall’interno mi dicono che si è deciso di allargare il retro dell’auto rispetto al progetto iniziale per poter utilizzare la linea della Punto. Altri segnali testimoniano la difficoltà ad investire, nell’attuale congiuntura, in una scelta più decisa. Direi che, per ora, la svolta elettrica ha qualche senso nell’ambito delle City Car”. 

Torniamo all’incontro dei dirigenti Fiat, da sempre una bussola per i manager del gruppo. Che impressione ha avuto? 

“La sensazione di una portaerei senza capitano”. 

Addirittura. 

”Si aspetta l’arrivo di Carlos Tavares per delegare a lui tutte le responsabilità. Nel frattempo i motori sono imballati. Manley è scomparso. E’ tornato in America a fare quel che sa fare, cioè gestire bene i marchi nordamericani. Gorlier non è mai comparso, in questi mesi  non ha mai fatto sentire la sua voce e spera di tornare pure lui in Usa. E’ davvero una situazione travagliata, dominata dall’incertezza”. 

Non è un bel quadro, vero? 

“Guardiamo Torino: l’elettrico avrà numeri risibili nel prossimo futuro. Maserati dipende da quel che decideranno i nuovi vertici. Decideranno di puntare sul marchio? E che sorte attende l’Alfa?  Il futuro, non solo per Torino, è legato al recupero dei marchi storici. Nel frattempo la situazione sul territorio, tra sardine, iniziative benedette dai vescovi e tensioni sociali emergenti è sempre meno governabile. Eppure, come ha rilevato Riccardo Gallo, ci sono alcuni punti forti: gli impianti italiani sono tra i più moderni ed efficienti, sia se si guarda all’Europa che agli Usa. A Detroit non ho visto nulla di paragonabile. Ma basterà questo ad orientare le scelte oppure prevarranno valutazioni più politiche? Aspettiamo, forse già la prossima settimana, il memorandum of understanding di Psa”.

Quale ruolo reciterà John Elkann? 

“E’ sfuggito in extremis al ginepraio Renault. Ora, grazie a Tavares, può tornare ad accarezzare l’obiettivo di gestire, grazie ad Exor, una holding di partecipazioni. Ma per ottenere risultati dovrà impegnare risorse, non solo finanziarie, superiori a quelle del passato. Elkann dovrà spacchettare Cnh, vendere Comau e trovare qualche sponda forte perché oggi, a parte il real estate, non ha neanche le dimensioni per svolgere la funzioni che originariamente doveva svolgere. Non è un portafoglio equilibrato”. 

Intanto sono arrivati i siluri di Gm. Quali convenienze può avere la denuncia di Mary Barra? 

“Non credo che si arriverà ad un processo. L’operazione, oltre a confermare che la Ceo detestava Sergio Marchionne, rappresenta una mossa di sistema per ribadire che Jeep e Ram sono marchi Usa, non pensate di venire a comandare in casa nostra, soprattutto con aziende che hanno azionisti cinesi, come Psa. Il primo comunicato, quello più lungo che annunciava il ricorso faceva presente che ogni dollaro eventualmente recuperato sarebbe andato a rafforzare la produzione e gli investimenti nel Nord America.  Un invito alla Casa Bianca a muoversi contro un gruppo, Psa, che ha rilevanti azionisti cinesi. Tavares ha recepito la lezione: la quota in mano a Dongfeng scenderà sotto il 5% in Fca/Psa, di modo da non aver diritto ad un posto nel board. Bisogna fare un compromesso con la corporate America”.  

E magari anche con gli equilibri della finanza italiana. Come dobbiamo leggere l’ingresso di Exor in Gedi? 

“Francamente sono perplesso. Sul piano finanziario si disperdono risorse che servirebbero altrove. Ancor più impegnativo sarà l’impegno sul fronte dell’immagine. Data la debolezza attuale della carta stampata non penso sia un affare, anche se magari ci  può essere un ritorno politico immediato. Ma potrebbe rivelarsi un boomerang”.    

E’ comunque un segnale di attenzione nei confronti del Paese. Un segnale d’attenzione per quel resta dell’industria italiana. Non crede? 

“Oggi, se parliamo di politica industriale, l’Italia può offrire soltanto segmenti del ciclo industriale, per giunta alle condizioni stabilite dagli altri perché l’industria italiana è forte nelle lavorazioni intermedie, ma altri controllano la fase finale del ciclo, come capita nella moda, o quello iniziale, che richiede il controllo dei prodotti base. Questo deve implicare un’estrema flessibilità e capacità organizzativa per fare tutto meglio degli altri, ma alle condizioni che piacciono agli altri. Non possiamo illuderci che indiani, coreani o altri vengano a risanare le nostre acciaierie. Operazioni così complesse e costosi si fanno in casa propria, come insegnano i tedeschi”.

Ci sarebbe l’Unione Europea, non crede? 

“E avrà senz’altro un ruolo importante. Pensiamo alle batterie, l’anima dell’auto elettrica. Noi abbiamo avviato studi, seminari, proposte. Ma non ci sono capitali italiani in grado di sviluppare progetti da almeno miliardo in su. La Ue senz’altro aiuta. Ma non illudiamoci: senza una forte componente, pubblica e privata, le idee sono destinate a restare tali”.    

Le conseguenze? 

“Siamo realisti; dobbiamo ballare alla musica che suonano gli altri. E saremo giudicati per quel che sapremo fare in quel contesto se vorremo mantenere una base industriale consistente. Ce la faremo? Non lo so. Di sicuro, se vogliamo mantenere una posizione di rilievo dobbiamo sbatterci all’impossibile. Essere migliori degli altri pur sapendo che il nostro Paese ci penalizza. Il compito è quello. E’ un compito improbo. Speriamo che ci riusciamo”. 

Insomma, sarà un anno difficile. Anzi, l’anno della verità.  

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