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Banche, processo agli stress test: sopravvalutati i rischi del credito rispetto alla finanza

I cattivi risultati delle banche italiane negli stress test EBA non sono dovuti solamente all’andamento delle nostra economia, ma anche ai metodi di misurazione del rischio che hanno avuto effetti asimmetrici tra attività creditizie e finanziarie penalizzando le banche che fanno prestiti all’economia reale rispetto a chi investe in titoli

Banche, processo agli stress test: sopravvalutati i rischi del credito rispetto alla finanza

Dalla pubblicazione degli stress test EBA aggiustati con l’AQR (Asset Quality Review, valutazione della qualità degli attivi) condotta dalla BCE le banche italiane sono uscite malconce. Infatti, sono state “rimandate” per ammanchi di capitale 25 banche, il 19,2% delle 130 sottoposte a stress test e AQR, ma ben 9 sono italiane (il 60% delle 15 valutate). È legittimo chiedersi se le banche italiane abbiano preso questo votaccio per propria negligenza. Pur senza volerle assolvere in toto (che di errori ne hanno certo commessi), a nostro parere, nel determinare quel risultato hanno prevalso fattori esterni di cui le nostre banche sono vittime e non certo artefici.

Dobbiamo distinguere due fattori: situazione e prospettive dell’economia italiana; effetti di una regolamentazione di fatto “matrigna” nei confronti delle nostre banche. È noto che la performance dell’economia italiana – crescita del PIL, creazione di posti di lavoro – è da anni tra le peggiori in Europa. Né la posizione cambia nelle previsioni di crescita futura. Perciò, siccome nessun sistema bancario può essere robusto se opera in un’economia malata, questo ha di certo contribuito al votaccio.

Il secondo fattore cruciale dipende dall’impostazione della regolamentazione bancaria, definita con la concezione di Basilea 2 a fine anni ’90, imperniata sui Risk Weighted Assets (RWA, Attivi ponderati per il rischio). Per i motivi sintetizzati sotto, questa impostazione è sbagliata ma, dando a Cesare quel che è di Cesare, si deve riconoscere che, nell’eseguire stress test e AQR, EBA e BCE (e Banca d’Italia) hanno dovuto applicare quelle regole, definite a livello internazionale.

Ebbene, l’approccio RWA tende per sua natura ad avere effetti asimmetrici tra attività creditizie (prestiti all’economia reale) e attività finanziarie (investimenti in titoli). Da un lato le attività creditizie determinano quasi sempre, con ponderazione piena, pari valori di RWA perché esse sono sprovviste di rating o, se ce l’hanno, sono comunque rating modesti che non attenuano gran che la ponderazione per il rischio. Dall’altro, le attività finanziarie hanno quasi sempre rating alti, con ponderazione per il rischio bassa: 100 euro di attività possono equivalere a soli 20 di RWA. Insomma, 100 euro di attività creditizie tendono a determinare quasi 100 euro di RWA mentre 100 euro di attività finanziarie si traducono in molti meno euro di RWA. Come non è sfuggito a Fabio Pavesi sul Sole24ore di domenica scorsa, è proprio questo il principale fattore che spiega perché le banche italiane sono andate male e le tedesche bene. Infatti, le italiane sono rimaste per lo più ancorate al modello di business tradizionale mentre le tedesche in larga misura si sono spostate verso la finanza e, così, le italiane generano tante attività creditizie e ampi RWA mentre le tedesche generano tante attività finanziarie e bassi RWA. Alla fine, alle banche italiane si richiedono più capitali che alle tedesche per ogni 100 euro di attività detenute. Ciò spiega la caduta di lunedì 27 ottobre dei corsi azionari bancari italiani, specie per le rimandate con maggiori ammanchi di capitale (MPS e Carige), caduta che non si è invece verificata per le banche tedesche.

Allora dovremmo biasimare le banche italiane per essersi mantenute sul business tradizionale e non aver saputo o voluto muoversi verso la finanza? Il giudizio corretto è diametralmente opposto. Sebbene un qualche sviluppo finanziario che porti sul mercato le passività delle imprese sia auspicabile, la banca esiste per fare le attività tradizionali e anche le sue possibili sinergie con i mercati finanziari (es. cartolarizzazioni) dovrebbero discendere dal condurre bene quelle attività tradizionali (es. saper distinguere i buoni dai cattivi debitori).

Se, invece, una banca fa solo finanza per essa cessa la ragione di esistere: diviene un fondo di investimento, cioè un intermediario che non investe nella conoscenza dei clienti bensì opera esclusivamente sulla base di informazioni pubbliche. E quel poco di credito che una banca del genere offre tenderà a essere quanto mai prociclico: concessioni generose quando le cose vanno bene e braccino “creditizio” corto quando la situazione volge al brutto. Ricalcando così quel che ne pensava Bob Hope: ti offrono tutti gli ombrelli che vuoi quando c’è il sole, ma appena comincia a piovere li rivogliono indietro.

E, inoltre, è giusta la bassa ponderazione di rischio assegnata alle attività finanziarie? Lo sarebbe se disponessimo di misure del rischio precise e inoppugnabili. Purtroppo, così non è. Ce lo ha ricordato nel 1998 la virtuale bancarotta di Long Term Capital Management, lo stellare hedge fund guidato dagli algoritmi di Merton e Scholes (premi Nobel in economia per i loro modelli di misurazione del rischio), che evidentemente il rischio non l’avevano misurato bene. Lo ha di nuovo mostrato, nel 2007-08, la misera sorte di tanti titoli di finanza strutturata, passati nello spazio di un mattino da AAA a “spazzatura”. Ancora oggi, gli strumenti dominanti di misurazione del rischio (es. il Value at Risk) si basano su ipotesi inaccettabili come quella di ortogonalità tra vari tipi di rischio, di normalità nella distribuzione dei rischi e non tengono conto adeguatamente del fenomeno delle “code grasse”, cioè del fatto che il materializzarsi di eventi improbabili ma devastanti (come il fallimento di Lehman e ciò che ne seguì) non deve essere sottostimato.

In un certo senso, sostengono alcuni, gli stress test sono proprio una risposta alla percezione che i rischi sono misurati in maniera imperfetta. Ma questa è una spiegazione del tutto insoddisfacente. Infatti, gli stress considerati possono essere insufficienti a rappresentare gli effetti di eventi devastanti. Insomma, al proposito viene in mente una nota storiella. L’altra notte ho trovato il mio amico Gino chino sotto al lampione per strada. Gli ho chiesto, “Gino, ma che stai facendo?”. Lui mi ha detto, “Ho perso le chiavi di casa e le sto cercando”. E io: “Ah, e le hai perse proprio sotto al lampione?”. E Gino: “No, le ho perse da qualche altra parte ma questo è l’unico posto dove c’è luce”.

Una famosa massima recitava: le azioni si pesano e non si contano. In molti hanno criticato Enrico Cuccia per aver espresso, pare, tale concetto. Ma oggi il dominio regolamentare dell’RWA ci ripropone qualcosa di simile: gli attivi bancari si pesano e non si contano. Non sarà che un giorno qualche grande paese creditore (magari affacciato sul Pacifico) verrà a mettere in dubbio la validità di quei pesi ponderali e ci suggerirà di tornare a contare gli attivi bancari anziché a pesarli? Forse sarebbe meglio pensarci prima e far tornare le banche al servizio dell’economia reale, anziché assecondare le pulsioni di un capitalismo finanziario autoreferenziale che sta impoverendo le società occidentali.

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