Il dibattito relativo alle norme che hanno recepito la Direttiva comunitaria sul bail-in, ovvero il meccanismo a disposizione di ciascuno stato membro di intervento per gestire le situazioni di dissesto o di rischio di dissesto di una banca, si sta progressivamente spostando da un piano meramente tecnico-finanziario a quello più prettamente giuridico-costituzionale. Cosa, questa, che avrebbe dovuto avere, sin dall’inizio, pari dignità nel poter verificare la compatibilità delle misure recepite con i principi fondanti dell’ordinamento giuridico del nostro Paese.
A dire il vero la Banca d’Italia, contestualmente al recepimento, aveva posto il problema se la Direttiva 2014/59/EU, la così detta “Direttiva bail-in”, nella parte in cui colpisce gli investitori che al momento dell’acquisto delle obbligazione subordinate, non potevano, in alcun modo, conoscere i rischi insiti in tali strumenti, fosse o meno contraria all’art. 47 della Costituzione. La stessa Banca d’Italia aveva però concluso che, quanto all’applicabilità del bail-in, anche agli strumenti già in circolazione, le valutazioni di costituzionalità spettano “ovviamente” alla Corte costituzionale. Sono passati parecchi mesi da allora ma, nel frattempo, alcun ricorso è stato presentato e, dunque, la Suprema Corte non ha avuto la possibilità di esprimersi.
Vale la pena fare un passo indietro per capire come tali misure, da un ambito di valutazione e analisi fra addetti ai lavori, facendosi strada fra le istituzioni comunitarie, si siano trasformate in Direttiva europea. L’avvio dei molteplici salvataggi – realizzati a carico dei bilanci pubblici attraverso il ricorso alla leva fiscale – dei sistemi bancari dell’Europa del nord, inquinati dai derivati, risalgono al 2010. Essi hanno generato, soprattutto in ambito politico, la necessità e l’urgenza di individuare soluzioni alternative all’intervento pubblico che ricorressero alle risorse degli azionisti, degli obbligazionisti e dei creditori non garantiti per ricapitalizzare gli intermediari bancari a rischio di dissesto.
A dare sostegno a tale soluzione fu anche l’Economist che, nel gennaio del 2010, ospitò un articolo: “From bail-out to bail-in” del presidente di una primaria banca d’investimento svizzera e del suo risk officier in cui veniva descritto un meccanismo fondato su procedure internazionali time-tested già applicato alle linee aeree, o a particolari imprese industriali, vincolate ad una stringente continuità operativa in situazione di grave dissesto patrimoniale. In tale intervento veniva evidenziata, da un lato, la migliore “efficienza” di intervento in circostanze eccezionali nei confronti di società finanziarie e bancarie che operano in mercati in rapida evoluzione e, dall’altro, il vantaggio di rafforzare la disciplina di mercato sulle banche per ridurre il potenziale rischio sistemico. Come sarebbe cambiato, con il bail-in – si chiedevano gli autori in chiusura dell’articolo – il destino della Lehmann Brothers in quel week-end del settembre 2008?
L’origine di questa soluzione di salvataggio, sorta in ambiti e circostanze distanti dalle realtà bancarie, finanziarie e giuridiche dei singoli stati, costituisce l’ennesimo, classico, esempio di come, in questi anni, numerose fattispecie e configurazioni astratte abbiano assunto una forma regolamentare vincolante creando prevedibili conflitti normativi e molto probabili violazioni dei principi costituzionali. L’effettiva compatibilità costituzionale della normativa sul bail-in non può che sollevare numerosi dubbi anche alla luce di una pressione esercitata dalle istituzioni comunitarie a livello legislativo che tende alla costruzione di un corpus-iuris europeo e che crea, spesso, norme difficilmente compatibili con l’ordinamento italiano e problematiche profonde fra norme comunitarie e principi costituzionali. La ricerca di un equilibrio, seppur dinamico, fra le esigenze legislative comunitarie e l’ordinamento costituzionale del nostro Paese è ancora tutta da ricercare. Il processo di adeguamento del diritto italiano alle norme comunitarie è inevitabile, ma è quanto mai necessaria una efficace valutazione delle norme comunitarie rispetto a principi fondanti su cui si è modellato l’ordinamento giuridico del nostro Paese.
Colpisce, per converso, l’intensissima attività della Corte costituzionale tedesca che ha sede a Karlsruhe nel pronunciarsi, oltre che su questioni meramente giuridiche e normative, anche su aspetti regolamentari che riguardano ad esempio le funzioni della BCE nell’esercizio della gestione della politica monetarie dell’Ue. L’ultimo pronunciamento ha riguardato il programma di acquisto di titoli di Paesi in crisi (Omt) varato dalla Bce nel 2012 respingendo il ricorso presentato da un gruppo di cittadini. Ai giudici di Karlsruhe si era rivolto un gruppo di cittadini e associazioni “euroscettiche”, tra loro anche alcuni politici, che contestavano la legittimità del programma messo a punto dalla Bce.
Il problema dell’iniziativa per arrivare alla Corte costituzionale e consentire così il vaglio della Direttiva, resta, quindi, in Italia, un punto centrale ed aperto per sanare l’errore di aver recepito una normativa comunitaria senza rilevarne il molto probabile contrasto con la Costituzione; a ben vedere, quindi, sul piano dell’attività di verifica della legittimità costituzionale delle leggi esistono già due Europe a due velocità.