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AUTO: perchè la Ferrari non vince più? Mancano Schumacher e Todt ma ci vorrebbe gente nuova

Gli insuccessi della rossa non sono tanto di origine tecnica ma umana: mancano leader che abbiano fame di vittoria e che non mollano mai – Per questo occorrebbe una nuova squadra per una nuova Ferrari

Ferrari cercasi. Anche usata, se guardiamo al rendimento di quelle ‘doc’ di qualche anno fa. Ma nuova, sarebbe meglio.

Ma cosa succede alla Ferrari? Se lo sentono chiedere un po’ tutti, coloro che in qualche modo hanno o hanno avuto a che fare con l’ambiente delle corse. E tu vai a spiegare che la Formula 1 è uno dei mondi più complessi nello sport e non soltanto. Vince uno: tutti gli altri perdono. Quindi perdere ci sta, non fosse che per una vicenda di corsi e ricorsi. E perdere male, anche: cioè senza avere una chance che è una per puntare al risultato pieno. È una logica ferrea: ci si rassegnano milanisti e interisti, che tempi di vacche magre (a meno che abbiano tre anni di età).

Ma con la Ferrari il discorso è diverso. Pensiamo a un ragazzo di 25 anni: per lui la Ferrari vince, punto e basta. Aveva dieci anni quando Michael Schumacher iniziò a portarla in alto; undici al primo titolo iridato perso d’un soffio; 14 al primo dei 5 titoli mondiali in successione. E parliamo dell’Iride Piloti, perché quella riservata ai Costruttori l’aveva già festeggiata a 13 anni, nel 1999. E poi, anche dopo l’addio di Schumi: Raikkonen di nuovo campione del mondo nel 2007; corona Costruttori lo stesso anno e anche quello successivo. Rocambolesco, quel 2008: Felipe Massa tagliò il traguardo all’ultimo GP in Brasile da vincitore della gara e da campione del mondo, salvo venire beffato pochi secondi dopo da Lewis Hamilton che nelle ultime due curve, sbarazzandosi di un avversario improvvisamente e sospettabilissimamente lento sul bagnato del rush finale,  si assicurò il 5° posto che gli valse il titolo vinto più in extremis di tutta la storia delle corse.

C’è materia abbondante, quindi, affinché un giovane  possa serenamente chiedersi cosa è capitato a questa Ferrari che improvvisamente, dal 2009 in poi, non ne ha più azzeccata una. E qui ci sarebbe da addentrarsi nelle iper-specialistiche teorie necessarie a capire veramente di corse. Ma non è questa la sede. Inutile almanaccare di aerodinamica e di cavalli motore, anche perché le regolamentazioni tecniche vigenti (e che per inciso: hanno disumanizzato la Formula 1) tendono a livellare, a rendere tutto uguale. A svilire, appunto, la componente uomo.

Argomento da prendere con le molle, quest’ultimo. Troppo facile scivolare sulla buccia di banana della spiegazione Schumacher. Nel senso troppo semplice, troppo garantista del La Ferrari non vince più perché non ha più Schumacher. Motivazione che, secondo noi, ha un suo senso: Schumi era un campione fuori categoria. Via lui, la Ferrari ha perduto molto, moltissimo in peso specifico. E non cadiamo nel tranello di fare paragoni con lo Schumacher che oggi una ne azzecca e dieci ne sbaglia al volante della Mercedes: altra monoposto, altro team. Altro Schumacher, soprattutto: il tempo, nelle corse, invecchia con effetti troppo diversi da quelli che regala, ad esempio, al vino…

Ma sul tema uomini restiamoci, perché è qui che vogliamo andare a parare. Guardiamola, la Ferrari di oggi. Stesso presidente: quel Luca di Montezemolo che proprio fra poche settimane festeggia 20 anni al timone del Cavallino, e che in questo quinto di secolo ha regalato al tifo di colore rosso la più straordinaria striscia di successi che la storia dei Gran Premi ricordi. Ma l’altra gente è cambiata; e qui sono dolori. Quasi in contemporanea a Schumacher hanno lasciato Maranello personaggi del calibro di Ross Brawn, di Rory Byrne. Per i meno impallinati di corse si tratta, rispettivamente, di un inglese che in Ferrari ha guidato per una decina d’anni la gestione tecnica e di un sudafricano che si è diviso fra progettazione, ottimizzazione tecnica, studio delle evoluzioni future. Ma soprattutto: se ne è andato Jean Todt. Se ne è andato per evidente depressione da ciclo finito. Fu lui a inventare il ciclo-Schumacher, innamorandosi del pilota come si fa di un figlio, gestendo i suoi passi falsi con pazienza infinita perché tanto sapeva di avere per la mani un fenomeno. Che infatti l’ha ripagato con i trionfi a raffica di cui sopra, quindi tutti contenti. Ma subito dopo l’addio di Schumi, anno 2007, Todt non si divertiva più. Indimenticabili i suoi occhi tristi, anche se al termine di quella stagione arrivò il titolo mondiale grazie a Kimi Raikkonen che di Schumi aveva preso il posto.

E qui siamo al punto. Via Jean Todt, abbracciata da Montezemolo la strada della crescita interna, con tanti specialisti italiani proiettati in alto nell’organigramma, la Nuova Ferrari aveva il solo compito di continuare su quella strada. Ma non ci è riuscita. È bene dirlo subito: nessuna colpa dei singoli. Stefano Domenicali, da allora direttore del team, ha preparazione, esperienza coltivata dal basso e distillata fino al vertice, conoscenza come nessun altro dell’ambiente delle gare e dei regolamenti e delle trappole tecnico-sportive. Ma a mancare, rispetto agli anni d’oro targati Schumacher, Todt, eccetera, è qualcosa d’altro. Volendo arrischiare una sintesi (e sapendo di fare arricciare il naso di qualcuno a Maranello) forse la fame, non è più la stessa. Schumacher era un cannibale, come l’Eddy Merckx del ciclismo Anni Sessanta e primi Settanta. Non lasciava agli altri neppure le briciole. Non gli bastava vincere: voleva umiliare gli altri. Al punto, a volte, da esagerare e annegare nella sua troppa adrenalina, scivolando in errori a volte plateali e incredibili. Ma era un cannibale anche Jean Todt. Lo era da prima: fin dai tempi vincenti al timone della Peugeot nei rally e nelle gare endurance e nei raid africani. Un bravo capo, diceva, deve essere cattivo. In Ferrari lo diventò ancora di più: imponendo al team un ordine e un’organizzazione di tipo militare dove accontentarsi, tirare il fiato, significava arrendersi. Quindi cospirare con il nemico. Quindi essere messi all’indice.

Esageriamo. Volutamente. Ma non troppo. Alla Ferrari di oggi, meccanismo praticamente perfetto, come l’ha definito il grande capo Fiat Sergio Marchionne, c’è qualcosa di troppo: quel praticamente. Da togliere. Da estirpare. Cambiamento che con una squadra che ha vinto tutto, che ha guadagnato tutto, che ha visto e sentito tutto, non è facile per nessuno. Nessuno, soprattutto, che sia già all’interno del team. Ecco perché, alla prima riga, abbiamo scelto l’ipotesi Ferrari nuova…

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