Condividi

Antonioni: “L’avventura” (1960) e la critica di allora, da Calvino a Pasolini

Come accolse la critica di quei tempi il film di Michelangelo Antonioni: ecco che cosa scrivevano due grandi come Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini

Antonioni: “L’avventura” (1960) e la critica di allora, da Calvino a Pasolini

Ecco la seconda puntata dello speciale sui film di Antonioni e la critica coeva. Il film è L’avventura che divise la critica del tempo, come sarebbe successo anche in seguito, tra i fan del nuovo linguaggio filmico di Antonioni e i critici ancora legati alla tradizione del neorealismo che non tolleravano l’agilità del regista ferrarese con la storia e la sua caratterizzazione dei personaggi. Soprattutto la critica di sinistra lo snobbò, fino ad arrivare negli anni successivi ad ignorarlo. Che errore! È interessante comunque notare come L’avventura, interamente girato in Sicilia (salvo la scena iniziale) con un cast di tutto rilievo e completamente nella parte (fatta eccezione, forse, per il solo Ferzetti, che comunque interpreta un personaggio difficilissimo) non fu pienamente compresa dai contemporanei nella sua portata innovativa che non afferrarono la singolarità dello stile di Antonioni che si sarebbe pienamente dispiegato nei film successivi. Buon viaggio nella macchina del tempo del cinema.

François Maurin
Intervista a Michelangelo Antonioni

FM: «Al giorno d’oggi anche chi non teme l’incognita scientifica ha paura dell’incognita morale». È una sua dichiarazione a proposito dell’Avventura. Che cosa intende con queste parole?

MA: Sono convinto che oggi l’uomo, che tanto si sforza di allargare il territorio delle proprie conoscenze scientifiche, non fa alcun lavoro per progredire dal punto di vista morale. Rimane legato a vecchie convenzioni, a miti obsoleti, nonostante ne sia pienamente cosciente. Perché continuare a rispettare gli antichi comandamenti dal momento che ci rendiamo perfettamente conto che non sono più adatti?
Forse a trattenerci è il timore di precipitare nel vuoto morale anche se il vuoto del cosmo non ci fa paura. Perché? Perché rifiutiamo di spingerci ai limiti del nostro cosmo morale? Sono domande a cui per il momento è impossibile dare una risposta. Ma credo che sia comunque importante porsele.

FM: Le è stata spesso rimproverata la lentezza del ritmo dell’Avventura. Quale è il motivo essenziale di tale lentezza?

MA: Odio i meccanismi artificiali della narrazione cinematografica convenzionale. La vita ha un ritmo completamente diverso, ora precipitoso, ora estremamente lento. In una storia di sentimenti come nell’Avventura, ho sentito la necessità di legare i sentimenti al tempo. Al loro tempo. Più vedo l’Avventura e più mi convinco di aver trovato il ritmo giusto, credo che non potrebbe averne uno diverso.

FM: Si rileva nell’Avventura la quasi totale assenza di accompagnamento musicale. Perché questa scelta e, invece, tanto rilievo ai rumori?

MA: L’accompagnamento musicale dei film, nella sua funzione tradizionale, non ha più ragione di esistere. Si mette della musica per provocare nello spettatore un certo stato d’animo. Io non voglio che sia la musica a provocare quello stato d’animo, voglio che sia la storia stessa a farlo, attraverso le immagini. È vero che esistono dei momenti — diciamo, per intenderci — “musicali” nell’articolazione di una storia. Sono i momenti in cui si ha più bisogno di staccarsi dalla realtà, di forzarla. In quei momenti la musica ha una sua funzione. In altri momenti, si deve ricorrere ai rumori, anche se non utilizzati con spirito di realismo, ma piuttosto come effetti sonori, naturalmente con poesia. Nell’Avventura ho ritenuto più opportuno insistere sui rumori che sulla musica.

Da Humanité dimanche, 25 settembre 1960

Italo Calvino

La parte più seria del lavoro svolto negli ultimi tempi dalle attività poetiche (particolarmente dalla pittura e dalla letteratura narrativa) è uno studio sul rapporto dell’uomo col mondo esterno, e con le sue possibilità di espressione, di giudizio e di azione. Spesso le conclusioni cui questa ricerca arriva sono negative o allarmanti, conclusioni di scacco o di abdicazione, ma non per questo tale problematica è meno importante: si direbbe che per impostare qualsiasi azione moralmente e storicamente positiva non si possa che partire da queste operazioni fondamentali di verifica. Perciò salutiamo come gli avvenimenti dell’annata italiana La noia, uno dei libri più seri e più belli che Moravia abbia scritto, e il film L’avventura di Antonioni.

L’avventura ha per tema le capacità di scelta e realizzazione d’un comportamento coerente fuor dal mare di gesti e impulsi e parole casuali, sbadati, contraddittori della gente (di certa gente: l’azione si svolge tra i benestanti sfaticati; ma l’importante è che a ognuno, anche fuori da quell’ambiente, il film propone l’interrogativo se le sue azioni hanno una coerenza e un senso). Nulla è dichiarato o dimostrato; allo spettatore non vengono dati né aiuto né soddisfazione alcuna; il linguaggio è nudo, senza alcun appiglio esonerativo; il pubblico è costretto a fare lo sforzo di giudizio che compie di solito (o dovrebbe compiere) di fronte alla realtà. La sceneggiatura è ineguale: alle volte pare ricca di dettagli finissimi, alle volte approssimativa; e questo è male: in un film così si vorrebbe che tutto fosse retto da un’economia ineccepibile. (La noia ha il difetto opposto: è costituito con l’esattezza d’un orologio, ma è troppo perentorio nel definire — “so sbagliando — i suoi significati).

L’intreccio del L’avventura parte da un fatto che dovrebb’essere d’imprescindibilità assoluta: la scomparsa d’una ragazza. E mostra come tutti in realtà riescano a prescinderne. Accenna a svolgere una storia d’amore: e mostra come esso non vada avanti che alla cieca, per caso. I personaggi principali sono due: un uomo dalla volontà spappolata (per rimorso del tradimento della sua professione) e una donna che vorrebbe e potrebbe avere la volontà e coerenza e freschezza ma è continuamente costretta a sprofondare nel pantano generale. È un film pessimista, che non cerca d’indorare la pillola, che non vuole moralizzare, riformare i costumi della borghesia come i cattolici di sinistra e i radicali. Siete nel pantano e restateci: questa è l’unica posizione morale seria.

Perché decadente? È un film di grande severità, con una morale sempre vigile, perché basata sulla realtà umana, perché non gratuita, non letteraria. (Letterario e gratuito è A bout de soufle, e quindi immorale, e quindi — dai che ci siamo — decadente). E come quadro sociale L’avventura non fa una grinza. C’è anche un Sud, un inferno sottosviluppato messo a contrasto con l’inferno del benessere, che è il Sud più “vero” e impressionante che si sia visto finora sullo schermo, senza la minima sbavatura di complicità populistica.

Da Cinema Nuovo, n. 149, gennaio-febbraio 1961, pp. 33–34

Franco Fortini

L’avventura è un caso di “trionfo del realismo”. Vale a dire che, su false premesse ideologiche-programmatiche (esistenzialismo e pessimismo da adolescenti), la disgregazione narrativa riproduce in ogni istante la casualità morale, la rabbiosa rassegnazione alla sconfitta di una classe ben definita. È questa classe dirigente, non è già mero ceto come nella Dolce vita; né ha riscatti religiosi. Le figure sparse sull’isola sono fortissime immagini, da Hiroshima, di una condizione morale. Aggiungi che la fisionomia intellettuale dei personaggi, ivi compresa la scemerella vittima-parassita-con-sogni-di-riscatto interpretata dalla Vitti, è perfetta. Credendo forse che il mondo sia tutto e solo in quel suo rozzo pessimismo, Antonioni ha detto molto di più di quel che voleva. E in quanto a mera “verità” sociologico-politica, la verità non è nella dignità, già venduta, dell’ultimo fratello di Rocco, l’operaio, fidanzato con la figlia dell’impiegato “progressista” e “democratico”; la verità è purtroppo nel disprezzo del venduto architetto romano-milanese verso i cafoni siciliani. E nell’auto pubblicitaria che vende ai disoccupati canzonette e prodotti del nord.

Da Cinema Nuovo, n. 149, gennaio-febbraio 1961, p. 36

Guido Aristarco

Questa denuncia della fragilità dei sentimenti codificati dalla morale corrente rientra nel paragrafo, come si è visto caro ad Antonioni, dell’incomunicabilità, cioè della noia in senso moraviano, o meglio che Moravia ha rianalizzato nel suo ultimo romanzo: l’impossibilità di stabilire un rapporto concreto con l’individuo e la realtà, fra l’oggetto e il soggetto, il pensiero e la realtà; la mancanza di rapporti concreti con le cose, con se stesso e gli altri. «Per molti la noia è il contrario del divertimento; e divertimento e distrazione, dimenticanza. Per me, invece, la noia non è il contrario del divertimento; potrei dire, anzi, addirittura, che per certi aspetti essa rassomiglia al divertimento in quanto, appunto, provoca distrazione e dimenticanza, sia pure di un genere molto particolare. La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà». La noia, questa noia, è connaturata in Dino — il pittore di Moravia che già dalla prima pagina ha rinunciato a dipingere — così come in Sandro e in Giovanni, l’architetto e lo scrittore de L’avventura e La notte. È nata appunto in loro dall’assurdità di una realtà insufficiente di persuaderli dalla propria effettiva esistenza, dall’incomunicabilità e incapacità di uscirne oltre che dalla consapevolezza teorica che sì, potrebbero anche uscirne, «grazie a non so quale miracolo».

Anche in Sandro la “noia” è la conseguente sterilità dell’arte, la resa al conformismo; anche lui, come Dino e Giovanni, è consapevole del proprio fallimento; di qui la confessione del proprio fallimento; di qui la confessione a Claudia, davanti alla fantasia architettonica, al movimento, alla straordinaria libertà della piazza. di Noto; di qui l’umiliazione e l’irritazione che prova nell’incontro con i due giovani architetti che lo spingono a ricordare quanto avrebbe voluto fare e non ha fatto. La confessione è legata al proposito di “piantarla” con Ettore, di abbandonarlo. Ettore rimanda alla madre di Dino, a quella fonte di denaro cui il pittore, come qui l’architetto, non può fare a meno pur disprezzandola, e a essa continua a ricorrere. In entrambi si stabilisce un nesso indubitabile tra la noia e il denaro, la convinzione che la ricchezza annoia e che la noia dipende dalla ricchezza, e la sterilità dell’arte dalla noia. «Ho già notato che la noia consiste principalmente nell’incomunicabilità. Ora, non potendo comunicare con mia madre dalla quale ero separato come da qualsiasi altro oggetto, in un certo modo ero costretto ad accettare il malinteso e a mentirle». Parimenti Sandro mente anche a Ettore: sa benissimo che quel “divertimento” che egli gli offre non è il contrario della noia né il suo rimedio. Di qui la confessione, ché segna il culmine positivo della sua crisi culturale morale psicologica; Sandro propone a Claudia di sposarlo: anche lui, come Dino, qualche volta pensa che non vuol tanto morire, quanto non continuare a vivere in quel modo.

Sandro e Anna non comunicano. L’amore fisico è il solo possibile tra loro, non si stabilisce altro contatto. «Stare lontani è uno strazio», cerca di spiegare Anna a Claudia. «È difficile tenere in piedi una storia vivendo uno qui e uno là. Però è anche comodo. Sì, perché pensi quello che vuoi. Invece quando sai che è lì, davanti a te, è tutto lì, non c’è più rapporto». Per rendere più reale questo rapporto che sente allentarsi e vanificarsi ogni giorno di più, nel tentativo di superare la noia di Sandro che la divide da lei, Anna ricorre alla bugia del pescecane; ma vista l’inutilità del tentativo di stabilire un contatto al di là dell’amore fisico, si mette da parte, scompare. La noia, l’incomunicabilità di un sentimento ormai spento dopo dieci anni di concubinaggio, divide Corrado e Giulia: «Non ti accorgi», le dice Corrado, «che più si va avanti più diventa difficile parlare con la gente? Capisci?».

Sandro diventa dunque trasparente a se stesso, come Dino e come Giovanni: ha coscienza della sua condizione, della sua resa, della noia che lo ha portato alla sterilità. Ecco un tratto nuovo de L’avventura rispetto al precedente Antonioni. Tuttavia anche le possibilità di Sandro rimangono “impossibili”, astratte e non concrete; egli è incapace di uscire dalla propria impotenza di uomo e d’intellettuale, dal suo presente. Alla presa di coscienza segue il disgusto che lo riporta sui binari dei rapporti con Anna e, una volta scomparsa Anna, al proposito di vivere con Claudia un analogo “idillio” sulla deserta isola rocciosa: anzi, quanto più la crisi si appalesa a se stesso, tanto più esplode in lui, l’irrefrenabile desiderio del contatto fisico; è proprio allora che, con disperata indifferenza, si lascia trascinare di nuovo in tutte le avventure in tale senso possibili. L’incontro con i due giovani architetti, che segue subito alla confessione fatta a Claudia, alla proposta di matrimonio, lo sospinge nuovamente verso la noia nella somiglianza che questa ha col divertimento di un genere tutto particolare, nei suoi diversi aspetti di “distrazione” e di dimenticanza. Il proposito di distaccarsi dalla realtà, di dimenticare quanto avrebbe voluto essere, determina il suo violento e improvviso desiderio fisico per Claudia, nella stanza dello squallido albergo di Noto; per dimenticare la promessa fatta di abbandonare Ettore — e si accorge, durante la festa al San Domenico Palace, che da Ettore vorrebbe liberarsi soltanto a parole — va con la prostituta di lusso. La noia gli serve ancora per velare il mondo intorno a sé, per portare la realtà alla opacità di partenza.

Sandro non è soltanto trasparente a se stesso; diventa trasparente, alla fine, anche a Claudia: essi comunicano. Il gesto della donna che accarezza la nuca di Sandro, dopo qualche istante di esitazione, non va confuso con un semplice perdono di fronte al “tradimento”; e a noi pare che non si possa neppure parlare semplicisticamente di “pietà”. «Si poteva vivere senza alcun rapporto con niente di reale e non soffrirne?» si domanda il Dino moraviano. Questo è anche il vero problema di Sandro: il suo pianto — e per la prima volta lo vediamo piangere — va appunto inteso in un uguale significato; e il gesto di Claudia è da connettere con la comprensione del problema stesso. Una siffatta comunicabilità è un altro elemento nuovo che emerge nell’opera complessiva di Antonioni; ed esso, che viene a determinarsi nel finale del film, conclude tuttavia l’“avventura”? Quali dimensioni cioè questo elemento assume nell’itinerario dell’autore, entro quale ambito e con quali ulteriori possibilità si articola? In altre parole le novità accennate lo portano a un effettivo “cambiamento” nella sua visione del mondo? La risposta ci viene appunto da La notte.

Da Cinema Nuovo n. 149, gennaio-febbraio 1961, pp. 44–46

Pier Paolo Pasolini

È vero: tecnicamente il cinema ha maggiori chances obbiettive di fare dei racconti, piuttosto che dei saggi o delle liriche. Ma è un errore credere che il narrare sia un fatto puramente tecnico: narra soltanto chi non solo ha dei fatti da narrare, ma ha, di questi fatti, una sua visione sistematica, una sua “ordinazione dall’alto”, che, magari, gli permetta di scendere tra di essi, trae quei fatti bruti visivi e acustici, ma che poi gli consenta di ricostruirli in una pienezza piena e dura della parola. È un residuo romantico — che sopravvive stranamente nel campo della critica cinematografica — quello di credere nell’istinto, nel talento specifico.

Mentre nel dopoguerra la critica migliore si è resa ben conto che il narrare o il poetare non consiste nella “parola”, la critica cinematografica non si è resa ancora ben conto che il narrare o il poetare non consiste nell’immagine”.

Anche l’esistenzialismo di Antonioni è sostanzialmente incolto, e quindi un po’ provinciale. Ormai è assodato che l’“angoscia” c’è. È assodato da Proust in poi. Tra le due guerre si è dato fondo a tutte le possibili degustazioni di tale fenomeno accettato e necessario. Ora bisogna giudicarlo. E giudicarlo non è nel suo ambito stesso, cioè dall’interno del mondo borghese che lo produce e lo conserva, facendone nei casi squisiti, quasi un blasone di aristocraticità sentimentale ed espressiva: ma giudicarlo dal di fuori, con gli strumenti di una ideologia non borghese. Solo una analisi dell’angoscia marxista è attuale. Non basta fare come fa Antonioni: testimoniare soltanto. (Aggiungo, fuori dall’arida discussione ideologica, che considero Antonioni uno degli autori più ostinatamente delicati e sinceri che operino in questi anni).

Da Cinema Nuovo, n. 151, maggio-giugno 1961, pp. 228–229

Giuseppe Marotta

Ma che uomo sono io? Avevo detto: «Non ho visto e non vedrò L’avventura». Che ci voleva, a mantenere la parola? Il film si proiettava da quindici giorni, o venti, e il meglio o il peggio che gli potevano accadere, in ogni sede, perfino quella giudiziaria, gli erano accaduti. Non gli mancavano, insomma, che le mazzate o le carezze mie. Per un autentico uomo ligio agli impegni assunti con gli altri e con sé, ciò non avrebbe contato. Ma io sono la copia vivente della mia povera madre, la quale non aveva ancora finito di gridarmi, alla maniera napoletana: «Che tu possa morire ucciso!» e già mi sussurrava «Uh figlio mio bello!», stringendomi e baciandomi come se mi avesse tratto a riva da un furibondo oceano. Che tipo. Quante vite mi occorrerebbero per tentare un’approssimativa rieducazione di me stesso?

Il fatto è che mi sorpresi anzitutto ad annotare i consensi del granitico Times L’avventura («Uno dei pochissimi film che abbiano la sottigliezza e la complessità di un romanzo», eccetera) e successivamente ad aggirarmi intorno al Cinema Ariston, a Roma, dove lo spigoloso, ambiguo lavoro di Antonioni si proiettava. Infine, sfuggendomi, e cioè non badando all’immagine che lasciavo, passando, nei vetri, sgusciai dentro. In quegli atri fulgidi, la nostra figura si stacca da noi come una bolla di sapone dalla cannuccia… ma questo è un altro discorso, turiamoci con la cera di Ulisse gli orecchi, non divaghiamo. Sedetti, ecco, e vidi furtivamente, quasi continuando a negare la mia presenza nella sala (poca gente, pochissima), ciò che segue.

1) Un quartiere elegante di Roma. Dinanzi al cancelletto di una villa, un attempato signor Tal dei Tali si accomiata dalla giovane figlia Anna. Costei riepiloga in qualche vaga smorfia gli ardui capitoli di un buio dramma interiore, e quelli di un accentuato spirito di indipendenza. Sta per andarsene in crociera nel mare di Sicilia, col fidanzato Sandro e certi comuni amici. Il signor Tal dei Tali, scontento, dice: «Quell’uomo non ti sposerà mai, Anna. Ma io sono a riposo come diplomatico e come padre». Che ingegnosa e densa battuta: contiene la professione, il ceto, i presentimenti, l’amarezza e l’impotenza tutoria del Tal dei Tali, per tacere della ragazza.

Voi gongolate, pensando che Michelangelo Antonioni punti sull’essenziale. Ma vi sbagliate e come: in realtà egli lesina le parole ai vari personaggi unicamente se ci debbono qualche leale informazione; altrimenti si abbandonino pure a un’orgia di luoghi comuni e di grandhotellismi.

2) Arriva, in automobile, Claudia. È bionda perché Anna è bruna. Che cielo abbia sul capo e che terreno abbia sotto i piedi, lo ignoriamo e lo ignoreremo fino all’ultimo. Niente, è un’amica. Ricca? Povera? Delibata? Vergine? Sola al mondo? Carica di parenti? Colta? Ignorante? Mah. Ella si limita a dire all’autista: «Alvaro, sbrigati, è tardi». Vanno da Sandro in una piazzetta della città vecchia. Due o tre sibilline frasi ci rivelano che Anna da qualche mese non vede il fidanzato. I motivi della frattura? Diamine, eccoli: «Ma Claudia, quando uno è lì, davanti a te, è tutto li!».
Rimuginate la sera, affinché il difficile sonno venga, queste parole. Sottintendono che la distanza crea suggestivi frazionamenti, arcane propaggini del maschio? È probabile. Amen.

3) Anna pianta la compagna da basso e vola da Sandro, il quale sta in fretta vestendosi. Ma la ragazza, dopo un breve e generico preambolo, gli fa un cenno imperioso e comincia a spogliarsi. Invano Sandro le rammenta che giù c’è Claudia. Pare che ciò esalti maggiormente Anna: tirare le tendine, mormorare: «Che attenda» e rovesciare l’uomo sul più vicino letto, è per lei questione di un attimo. Di Sandro, il meno che si possa dire è che, ora come ora, c’è tutto: completo, omogeneo, solerte come Dio lo ha fatto. Prosit. Claudia, nella piazzetta, indovina: e, con una impercettibile ruggine in grembo e nella mente, aspetta. C’è il Fellini della Dolce vita, qui; ma come l’acqua nel vino e l’aglio nelle fragole, voi mi capite.

4) La crociera, adesso. Un motoscafo di media stazza nel quale, secondo gli autori del film, si annidano, mangiandovi, bevendovi e dormendovi, sette o otto persone. È vero che talune di esse hanno la mania di sovrapporsi, ma nauticamente c’è molto da eccepire. Abbiamo dunque, a bordo, Anna, Sandro, Claudia, Patrizia, Raimondo, Corrado e un marinaio. Se Anna, Sandro e Claudia non hanno il minimo connotato apprezzabile, figuratevi Patrizia (forse una matura ninfomane), Raimondo (un velloso fauno imbecille) e Corrado (il trionfo dell’anonimo e dell’inutile).

5) In vista del roccione di Lisca Bianca, nelle Eolie, Anna e gli altri si tuffano. Anna urla che c’è uno squalo. Che paura. La salvano, domandandole: «Come te ne sei accorta, Anna? Ti ha toccata?». Nemmeno all’asilo d’infanzia, risuonano dialoghi così puerili. Anna, d’altronde, svela a Claudia: «Sai, la storia del pescecane era una balla». Antonioni ha l’aria, qui, di gettare un bengala nelle tenebre psicologiche di Anna; io non ci vedo che numeri del lotto.

6) Ecco Sandro e Anna sul roccione. Anna torna a battere sul tasto della magica lontananza che trasfigura. Dice, come una medium: «Non ti sento». E lui: «Ma ieri, a casa mia, mi sentivi». E lei, con ira: «Tu devi sempre sporcare tutto». Anime del Purgatorio! Ma non è stata Anna, il giorno prima, ad esigere uno dei più veloci, inopportuni e cinici accoppiamenti? La verità è che Antonioni brancola nei personaggi e nelle vicende: li inganna e ne è ingannato (non c’è legge del taglione severa, ineluttabile come quella artistica), li fuorvia e ne è fuorviato.

7) La nauseata Anna che fa? Si dilegua, svanisce, ricade in quel torbido nulla dal quale, in sostanza, mai non era emersa. Un attimo: e Anna, ecco, non c’è più. Come ha lasciato l’isolotto? Mediante qualche barca di contrabbandieri? O levitando? O annegandosi? Invano i carabinieri dragano e sommozzano: viva o morta, Anna si è dissolta. Vogliate riflettere un momento su ciò. Scompare una ragazza: non a Sciangai, ma a Lisca Bianca: e l’inquirente polizia non fa che riverire i compagni di lei, sui quali dovrebbe indagare e come! Io quasi quasi corro ad affogare la mia cara Olga alle Eolie; e voi?

8) Sandro continua per suo conto le ricerche sulla terraferma; ciò non gli vieta di mettere gli occhi, anzi le mani, addosso a Claudia. La bionda non gli resiste a lungo; dice: «Non sono preparata ad amori che si possono dimenticare in un minuto», e fugge; ma poi, non ricordo se a Milazzo o a Castrovillari, c’è un prato. Là i due s’avvinghiano e s’annodano e s’avviluppano come un fascio di serpi; riuscirebbe, un indù col flauto, a districarli?

9) Ho saltato un episodio che dà la piena misura del cattivo gusto di Antonioni. Claudia, prima che Sandro la raggiunga, è ospite, col resto della brigata, di una principessa. Qui alligna Goffredo, un pittore diciassettenne iperghiandolare che s’è invaghito di Patrizia e vuole mostrarle i suoi quadri. Patrizia si fa accompagnare da Claudia. Goffredo sentenzia che nessun paesaggio è bello come le donne: poi, simile a un giaguaro, si getta su Patrizia, ben deciso a provare che nessun panorama eguaglia la figura; e Patrizia, come dalla cresta di un’onda, squittisce: «Claudia, vattene! E diglielo, a Corrado, che il mio cuoricino batte forte forte forte!». (Corrado è il marito, o l’amante). Che azione goffa e plateale, che miseria di battute! Dove sei, Fellini? Pensavo al miracolo del tuo lieve tocco sterilizzante, che velò e pulì ogni fotogramma del tuo capolavoro. Sono i film come L’avventura, a darci la misura della Dolce vita.

10) Grande albergo a Taormina. Udiamo frasi quali: «Concierge, chi è quella bambolina?»; «Il sonno bisogna vincerlo, io ho imparato da fanciullo»; «Non c’è mai da augurarsi di essere melodrammatici», e così via. Ne deduco, per me, che Antonioni è prima di tutto uno scrittore equamente fallito. Ed eccoci all’unica sequenza valida e persuasiva del film. Esausta, Claudia s’addormenta; Sandro invece, scende nel salone. Irretito da una piacente sgualdrina, l’abborda; all’alba, Claudia, tormentata dalla gelosia, perlustra l’albergo e trova infine i due su un divano, allacciatissimi. Arretra, scappa. Il ganzo la insegue, ma non senza aver buttato sul canapè due bigliettoni, ventimila lire, che la donnaccia rastrella indecentemente col piede (lo ha calamitato e prensile, come le scimmie). Fuori, su una panca, Sandro naufraga in un desolato pianto; e allora Claudia gli si appressa, muta, e gli elargisce una lenta carezza.

Ma sì, donne, medicateci, versate farmaci e lenitivi sulla quotidiana lebbra dei sensi che ci tarla; senonché questa emotiva paginetta, l’unica, ripeto, non giustifica le ore di spettacolo del film L’avventura. Spettacolo? Sciocchezze. C’è una magnifica Sicilia, frugata palmo a palmo da un ottimo, geniale operatore. Datemi l’una e l’altro e sono regista anche io. L’avventura, cioè, non offre la menoma soluzione del problema Antonioni. Gli dicono romanziere e non mette insieme che aneddoti; gli dicono psicologo e rimane alla superficie di ogni creatura; gli dicono letterato e, in fatto di linguaggio, è sulla paglia.

Michelangelo, ti do un suggerimento fraterno: agguanta un copione di Zavattini, o di Suso Cecchi D’Amico, o di Ennio Flaiano, e attualo senza metterci, di tuo, che la indubbia conoscenza del mezzo cinematografico. Vedrai l’esito. Prego, non c’è di che.

Anna è Lea Massari, per la quale ho un debole: molto brava nel suo personaggio d’aria. Monica Vitti (Claudia) la preferisco sul video. Un Gabriele Ferzetti (Sandro) men che mediocre (avrà talento, ma alla banca).

Da Facce dispari, Milano, Bompiani, 1963

Vittorio Spinazzola

Presentato sugli schermi nell’agosto 1960, L’avventura ottenne nelle prime visioni delle città capozona un incasso di lire 92.217.000. Non è una cifra straordinaria: ma rappresenta quasi il quadruplo di quella raggiunta, tre stagioni prima, da Il grido, e poco meno del totale che quel film realizzò attraverso lo sfruttamento dell’intero mercato.

L’interesse sollevato nel pubblico da L’avventura coincide infatti con uno sforzo da parte del regista per rendere più godibile il suo discorso, senza comprometterne la serietà d’impianto. La suggestione del film riposa anzitutto su una trovata non meno immaginosa che spettacolarmente efficace: l’inspiegabile sparizione della protagonista, Anna. Anche il film precedente, Il grido, prendeva l’avvio dalla brusca rottura di una relazione amorosa; ma lì a mancare erano gli antefatti esterni della decisione di Irma, che trovava motivazione soltanto dentro di lei, nella logica insindacabile degli affetti. Qui invece le ragioni dell’insoddisfazione di Anna nei confronti di Sandro vengono perspicuamente illustrate, durante il preludio romano e poi il viaggio verso le Eolie (e troveranno conferma nel corso della narrazione, man mano che il carattere del protagonista maschile acquisterà evidenza). Il mistero riguarda proprio e soltanto il dato materiale della scomparsa fisica.

Ciò induce nel racconto una forte tensione che, non potendo risolversi effettualmente, si addensa in un’atmosfera inquieta e sospesa che man mano costringe i sentimenti a venire allo scoperto. Sulla vicenda di Anna si innesta quella di Claudia; poi, con felice parallelismo e studiata contrapposizione, entra in scena la ragazza squillo di Messina, il cui amplesso con Sandro ha valore di rivelazione, è il colpo di scena finale del “giallo alla rovescia”: il significato e la responsabilità della scomparsa di Anna sono ormai chiari. L’aereo ardito equilibrio della costruzione narrativa è sorretto dalla stretta funzionalità dei vari elementi al fine di una definizione interna dei personaggi. Il carico è ben ripartito fra le diverse figure femminili e l’unica maschile: Sandro, ovvero la coscienza addormentata, un eroe del conformismo, che vede le donne come il simbolo della vita che chiede di essere immediatamente vissuta, sì che gli piacciono e, molto italianamente, le vorrebbe tutte sposare, poiché il matrimonio soddisferebbe la sua borghesissima aspirazione alla stabilità e offrirebbe giustificazione alla sua rinunzia a ogni ambizione professionale. Di fronte a lui Anna, che soffre invece la crisi dei sentimenti con inquietudine rabbiosa, poiché sa rendersi conto che al tormento dell’autoanalisi non si sfugge con la concretezza dei gesti, degli amplessi; e infine sceglie la solitudine degli scogli, l’imperturbabilità del mare; fa tacere l’inquietudine umana ritornando natura. Infine Claudia, che introduce nel racconto la nota dell’ingenuità e assieme un elemento di differenziazione classista (il ricordo della sua adolescenza giudiziosa, cioè povera): in sostanza, il film è la storia della sua educazione sentimentale, compiuta sotto il segno di un desiderio d’amore sentito come bisogno di protezione, abbandono egoistico e diciamo pure candida viltà: o piuttosto disposizione ad assaporare come un dono e difendere come una conquista quel tanto di felicità che la vita offre, dolce sogno da cui non ci si vorrebbe mai destare.

Il pathos delle immagini finali l’esitante carezza di Claudia sulle spalle di Sandro, sconvolti l’uno e l’altra per l’umiliazione del recente tradimento di lui riverbera il suo calore su tutto l’arco narrativo precedente. Ma l’interesse portato dal regista ai personaggi, nessuno escluso, è fortemente critico. Perciò il film non indugia mai sulla contemplazione statica di psicologie isolate: la caratterizzazione delle figure è affidata alla vicenda dei loro rapporti. Ciò garantisce l’intensità di movimento del racconto; e la sua dimensione sociale. Collabora allo scopo la varietà e vivacità dell’ambientazione; documentariamente concretissimo, l’elemento paesistico ha nondimeno un valore tutto allusivo e simbolico; così come l’elemento umano, individuo o folla, sempre sociologicamente ben tipizzato, è tuttavia ridotto a semplice figura di una ossessione mentale.

La vicenda principale è contrappuntata da una serie di piccoli drammi e commedie in miniatura: le due coppie di amanti aristocratici, Patrizia e Raimondo, Giulia e Corrado; gli approcci amorosi fra i due sicilianuzzi, in treno; lo stratagemma della sgualdrinella a Messina; il giovane pittore di nudi; la gelosia della moglie del farmacista; gli uomini di Noto silenziosamente accorrenti attorno a Claudia. Ognuno di questi incontri, di queste occhiate sul mondo riconduce al motivo essenziale dell’opera: l’autodegradazione dell’amore in vanità, umiliazione reciproca, odio; l’incapacità di amare che si sfrena nell’erotismo. Così l’avventura si risolve in un itinerario mentale alla ricerca non dell’amica scomparsa ma di se stessi. E la trama degli episodi si limita a fornire le occasioni attraverso cui i personaggi si rivelino l’uno all’altro.

Antonioni non ritroverà più la felicità di movimento narrativo dell’Avventura.

Da: Giorgio Spinazzola, Cinema e pubblico, goWare, 2018, pp. 295–297

Michelangelo Antonioni

Ci sono dei film gradevoli e dei film amari, dei film leggeri e dei film dolorosi. L’avventura è un film amaro, spesso doloroso. Il dolore dei sentimenti che finiscono o dei quali si intravede la fine nel momento stesso in cui nascono. Tutto questo raccontato con un linguaggio che ho cercato di mantenere spoglio di effetti. Dicono che il film sia «articolato su un ritmo disteso, in rapporti di spazio e di tempo aderenti alla realtà». Non sono parole mie. Parole per dire queste cose, ne ho pochissime a disposizione. Faccio un esempio. Tutti si chiedono vedendo il film: dov’è finita Anna? C’era una scena in sceneggiatura, poi tagliata non ricordo perché, in cui Claudia, l’amica di Anna, è con altri amici sull’isola. Stanno facendo tutte le congetture possibili sulla scomparsa della ragazza. Ma non ci sono risposte. Dopo un silenzio uno dice: «Forse è soltanto annegata». Claudia si volta di scatto: «Soltanto?». Tutti si guardano sgomenti.

Lo sgomento è la connotazione del film.

Da Il Corriere della Sera», 31 maggio 1976

Georges Sadoul

Una ricca e giovane romana (Lea Massari) parte per una crociera con un architetto (Gabriele Ferzetti), suo amante. Su un isolotto deserto scompare. Con una delle sue amiche (Monica Vitti) l’uomo percorre la Sicilia alla ricerca della donna scomparsa; ma finiscono col dimenticarla e diventano incerti amanti. Ecco come l’autore ha spiegato il suo film:

«Sono stato colpito dalla fragilità dei rapporti umani, dall’instabilità morale, politica e persino fisica del mondo contemporaneo in cui la fisica diventa metafisica, in cui quasi non esiste frontiera tra scienza e fantascienza. Viviamo, ogni giorno, un’avventura ideologica o sentimentale. Il nostro dramma è quello dell’incomunicabilità e questo sentimento domina i personaggi del mio film, che ho preferito collocare in ambienti ricchi in cui i sentimenti non sono determinati dalle contingenze materiali. Sono uomini e donne che cercano di condurre una vita normale, ma incontrano tante difficoltà che non possono evitare la catastrofe finale. Il mio film è tanto ottimista quanto pessimista. Nell’ultima inquadratura vediamo l’uomo di fronte a un muro, la donna che guarda lo spazio. Restano legati dalla pietà, dalla rassegnazione, dalla tolleranza, da quel che rimane della loro carica vitale. Ho voluto rappresentare la Sicilia senza leziosità folcloristiche, il più possibile al naturale, il paese com’è, ma in funzione dei personaggi e della loro angoscia».

Ed ecco le sequenze più importanti: la scomparsa d’una giovane donna nel corso d’una crociera; l’arrivo in Sicilia, l’interrogatorio fatto dai carabinieri in un antico palazzo; la traversata d’un villaggio dell’Ente Riforma, nuovo e completamente vuoto; la giornata trascorsa in una ricca villa aristocratica; la serata folle in un palazzo barocco (reale, ma che preannuncia Marienbad). Antonioni si trovava allora in un momento molto difficile. Il suo film era stato realizzato tra mille difficoltà, accolto poco favorevolmente dagli italiani e sonoramente fischiato alla sua presentazione a Cannes: ottenne però un premio della Giuria ed ebbe più tardi a Parigi un trionfo che consacrò il suo autore come uno dei massimi registi internazionali. L’avventura è considerato da molti come il suo miglior film, e una tappa fondamentale del cinema contemporaneo.

Da Dizionario dei film, Firenze, Sansoni, 1968

Claude Beylie

Un gruppo di ricchi in crociera alle Eolie. Tra loro, la coppia Sandro-Anna, che sta attraversando un periodo di crisi e stanchezza. Durante uno scalo Anna scompare e le ricerche per ritrovarla sono inutili. Ci si sposta in Sicilia, dove pare che la ragazza sia stata vista. La vita segue il suo corso, e Sandro è attratto da un’altra ragazza del gruppo, Claudia, ma il nuovo amore non gli impedisce di andare, una sera, con una prostituta. Claudia lo sorprende e fugge, Sandro crolla. Ma allo spuntar dell’alba, su una terrazza di Taormina che domina il mare, la giovane accenna un gesto di perdono.

Michelangelo Antonioni (nato nel 1912) era un seguace del «neorealismo interiore». Al contrario di un De Sica o di un Visconti, egli pratica un’arte della distanza, un’arte che rifugge dagli eccessi della drammatizzazione. Più che Verdi o Verga egli ammirò Sartre e Pavese (da un racconto del quale trasse il film Le amiche nel 1955): il tempo lentissimo della regia, la predilezione per i personaggi in crisi, il gusto dell’introspezione e della confusione dei sentimenti, lo collocano dentro una corrente letteraria e cinematografica per la quale si può parlare di «estetica del disincanto».

Gli eroi di Antonioni sono dai nevrotici ossessionati dallo spettro del fallimento sentimentale o social; e per molti di loro la soluzione è il suicidio. Antonioni non si impietosisce per questi esseri deprimenti o viziati, li guarda con severità e distacco, con l’occhio di un entomologo. Teoricamente questo si traduce in un muoversi senza scopo dei personaggi, dentro grigi personaggi nei quali la cinepresa si muove con grande lentezza. Tanto in L’avventura che in tutti gli altri suoi film, in particolare nei due che, con L’avventura, formano una «trilogia della disillusione»: La notte (1961) e L’eclisse (1962). Ha scritto Alberto Moravia: «Antonioni fa pensare a quegli uccelli solitari che ripetono giorno e notte le sole note che sanno cantare».

L’«avventura» di Antonioni, tende a dissolversi col passar degli anni, in una sorta di nulla angoscioso. Ma per la sua intransigenza, per il suo rifiuto dei compromessi, è stata una tappa importante nella storia del cinema moderno.

Da I capolavori del cinema, Vallardi, Milano, 1990

Maurizio Porro

A un anno dalla morte di Antonioni, rivediamo questo film girato tra mille pericoli che l’ha lanciato nel ’60. Parte così la trilogia dell’incomunicabilità, scoperta prima in Francia che in Italia, con una storia sull’instabilità dei sentimenti, un finto giallo sempre più appassionante perché parla di come siamo imperfetti nel cuore. Cinema quasi senza parole ma resta attaccato alla coscienza, squarci di violenza degli elementi, furia degli affetti, la Vitti mai così Vitti.

Da Corriere della Sera magazine, 24 Luglio 2008

Stefano Lo Verme

Un gruppo di amici parte per una gita in barca nell’arcipelago delle Eolie; durante una sosta su un isolotto, la giovane Anna scompare improvvisamente senza lasciare traccia. Il fidanzato della ragazza, l’architetto Sandro, si dà da fare per cercarla insieme a Claudia, una delle amiche di Anna, ma senza alcun risultato; nel frattempo, fra lui e Claudia ha inizio una relazione sentimentale…

Girato con notevoli difficoltà produttive fra la Sicilia e le isole Eolie, L’avventura è il primo capitolo della cosiddetta “trilogia esistenziale” realizzata da Michelangelo Antonioni, a cui seguiranno La notte(1961) e L’eclisse (1962), e segna anche la prima collaborazione fra il grande regista e la sua attrice-musa Monica Vitti. Accolto con reazioni contrastanti al Festival di Cannes del 1960, dove ottenne il Premio della Giuria, L’avventura costituisce uno dei titoli più significativi ed apprezzati nell’intera produzione di Antonioni, che ne ha firmato la sceneggiatura insieme a Tonino Guerra ed Elio Bartolini. Un film considerato oggi fra le migliori opere del regista ferrarese, ma che all’epoca della sua uscita fu denunciato per oscenità e offesa al pudore e non passò indenne al vaglio della censura.

La trama della pellicola è costruita su un evento misterioso ed inspiegabile: la scomparsa di Anna (Lea Massari), che durante una gita in barca, dopo aver manifestato alcuni segni di insofferenza, sparisce letteralmente nel nulla. Uno spunto “giallo” che lascia spiazzati tanto i protagonisti quanto gli spettatori, ai quali non viene data alcuna spiegazione per il fatto avvenuto. Se dunque la prima parte del film è incentrata sulla vana ricerca di Anna, nella seconda parte Antonioni si sofferma invece sull’inaspettato rapporto che nasce fra Sandro (Gabriele Ferzetti) e Claudia (Monica Vitti), e sui mutevoli stati d’animo di quest’ultima: al suo amore per Sandro si mescola infatti uno strisciante senso di colpa nei confronti dell’amica Anna, un’invisibile donna-fantasma la cui presenza continua a gravare ossessivamente sulle esistenze di Sandro e di Claudia.

Con L’avventura, Antonioni ci offre una complessa rappresentazione dell’ambiguità e della fragilità dei sentimenti umani, vissute attraverso un memorabile personaggio femminile — quello di Claudia — magnificamente interpretato da un’eccezionale Monica Vitti. È un film in cui, più che lo sviluppo narrativo, contano la psicologia della protagonista e l’atmosfera rarefatta e a tratti quasi surreale che la circonda; in tal senso, il regista utilizza in maniera magistrale il paesaggio siciliano come specchio della confusione e del disagio interiore dei personaggi. Pur risentendo forse di una durata eccessivamente dilatata, L’avventura resta una pellicola di indubbio fascino, ed un’opera fondamentale all’interno di quella “poetica dell’incomunicabilità” tanto cara al cinema di Antonioni.

I protagonisti de L’avventura sono sostanzialmente tre: Sandro (Ferzetti), architetto, Anna (Massari), ricca e viziata, legata a Sandro, e Claudia (Vitti), romantica e abbastanza per bene, e amica di Anna. Durante una crociera alle Eolie, Anna scompare. Tutto il gruppo di amici la cerca fra gli scogli e in mare, fino a notte. Nulla. La cosa è molto misteriosa, viene avvertita la polizia. Sandro e Anna decidono di cercarla per proprio conto. Arrivano in Sicilia e di paese in paese domandano di Anna. Ma continuano a non venire a capo di niente, la donna è come un fantasma imprendibile. Ritrovano i loro amici, tutti squinternati, senza morale, senza vocazioni, senza niente, solo con un po’ di soldi: una del gruppo seduce un giovane artista nel suo studio, praticamente davanti agli occhi di Claudia.

Nel frattempo qualcosa è nato fra Sandro e Anna: un sentimento indecifrabile e indefinibile, che comunque si consuma in un campo vicino a una ferrovia. Anna ne è abbastanza felice, ma anche impaurita: ha tradito la sua amica. Sandro, su un campanile, improvvisamente chiede a Claudia di sposarlo, poi si lamenta del proprio lavoro: lui, architetto che fa i calcoli per i progetti degli altri. Nella piazza di una chiesa rovescia di proposito un calamaio sul disegno di una giovane. Li ritroviamo in una piazzetta di Taormina, all’alba. Lui è seduto su una panchina, lei gli si avvicina e, faticosamente, lo accarezza.

Questo film consacrò Antonioni a livello internazionale. Il regista aveva trovato un equilibrio esatto e suggestivo, fotografando paesaggi e sentimenti con pulizia e rigore e lasciando trasparire nelle possibilità di comportamento dei personaggi cose che potevano anche essere sconvolgenti. Niente era dipendente da una volontà, non c’erano onestà, coerenza, umanità, logica, speranza, al massimo poteva esserci convenzione. Sandro è tutto questo, capace di fare qualsiasi cosa, di prendere tutte le decisioni in quel momento.

Non ha morale, non ha talento, non ha volontà, parla e non si fa capire, ascolta e non capisce. È solo educato, com’era, come continua ad essere la borghesia che interessa ad Antonioni. Nel precedente Il grido il regista si era assunto responsabilità minori, tutto era determinato dalla necessità e dal piccolo sentimento, quasi dalla biologia. Per questo L’avventura mantiene minore vedibilità rispetto al primo, che è un’opera d’arte totale e perfetta, anche se, appunto, di respiro più corto. Certo, c’è sempre il gesto finale di Claudia, che può essere un richiamo di tenerezza e di speranza. Il film ebbe un clamoroso successo a Cannes (1960) anche se non vinse la Palma: è ormai tradizione consolidata che il film migliore non vinca la Palma ma ottenga premi speciali della critica. I temi de L’avventura, distruttivi e senza speranza, indussero la magistratura a sequestrare il film per oscenità e offesa al pudore. Del resto l’incomprensione fa parte della liturgia del mito. Da secoli.

Da MYmovies

Andrea Camilleri

Non sono un cinefilo e, a dirla tutta, nemmeno un gran frequentatore di sale cinematografiche ma quando nel 1950 vidi il primo film di Michelangelo Antonioni che si intitolava Cronaca di un amore, ne rimasi addirittura affascinato. Non solo quel film non aveva nulla a che fare con il neorealismo che aveva dominato il cinema italiano in quegli anni, ma mi sembrò che, addirittura, segnasse l’inizio di una nuova strada. Tra i film che girò in seguito mi piacquero molto La signora senza camelie e Le amiche, quest’ultimo tratto da un romanzo di Pavese.

Nel 1960 Antonioni cominciò le riprese del film che avrebbe segnato un’autentica svolta nel cinema non solo italiano, cioè a dire L’avventura, in quei giorni ricevetti una telefonata da Monica Vitti, mia amica da lungo tempo, e che era una delle protagoniste del film. Antonioni e Monica si erano conosciuti tre anni prima, quando il regista aveva deciso inopinatamente di accettare la direzione artistica di una compagnia di prosa con giovani attori più che promettenti tra i quali Virna Lisi, Giancarlo Sbragia e la stessa Vitti. Antonioni curò anche due regie, la prima per una commedia americana e la seconda per una commedia scritta a quattro mani da lui stesso e da Elio Bartolini che si intitolava Scandali segreti. La messa in scena di quest’ultima commedia diede occasione ai due di incontrarsi e di frequentarsi, dopo qualche giorno tra loro divampò un grande amore.

In quella sua telefonata Monica mi disse che stavano girando alcune sequenze sull’Isola Tiberina a Roma e che avrebbe avuto molto piacere a farmi conoscere il “suo” regista. Ci andai il giorno appresso e Monica dopo averci reciprocamente presentati aggiunse una frase che avrebbe potuto essere pericolosa:

«Vorrei che voi due diventaste amici».

Frase pericolosa perché detta a due uomini da una bella donna può provocare l’effetto contrario. Fortunatamente quest’effetto non solo non ci fu, ma terminate le riprese di quel giorno andammo a cena in tre e in quella occasione Antonioni mi chiese di collaborare al suo film riscrivendo in dialetto siciliano alcune battute e dialoghi che erano in italiano. Al termine della cena mi consegnò la voluminosa sceneggiatura avvertendomi che aveva segnato con delle crocette le battute da tradurre. Confesso che cominciai a leggere la sceneggiatura appena tornato a casa mia e terminai verso le quattro del mattino: da quelle pagine ne trassi la convinzione che quel film avrebbe rappresentato una sorta di summa delle opere precedenti, come se Antonioni volesse in qualche modo chiudere la sua precedente esperienza e iniziarne una del tutto nuova e innovativa. Intendiamoci, il film dal punto di vista narrativo era in linea con i suoi precedenti dove le storie erano raccontate in modo sostanzialmente tradizionale, certo qui e là si avvertiva qualche sbaglio ma si trattava solo di piccole crepe che avrebbero potuto allargarsi o scomparire. Prima che la troupe partisse per la Sicilia consegnai il mio lavoro ad Antonioni, egli lesse le mie traduzioni ed ebbi l’impressione che non ne fosse soddisfatto; gli chiesi se c’era qualcosa che non andasse, Antonioni era un uomo di poche parole sempre serio, anzi un po’ triste, mi rispose con un mezzo sorriso:

«Quello che non va non riguarda la tua traduzione, riguarda me».

Erano parole enigmatiche e io non insistetti oltre. Dopo che la troupe si era trasferita all’isola di Lisca Bianca, dalla casa di produzione mi cominciarono ad arrivare dei foglietti, erano una nuova versione dei dialoghi in precedenza da me tradotti. Tradussi nuovamente questi dialoghi e li feci pervenire all’isola, da allora non ebbi più notizia della troupe. Venni, qualche mese dopo, invitato da Monica ad assistere ad una prima proiezione privata e rimasi a un tempo sconvolto e soddisfatto. Soddisfatto perché quelle piccole crepe narrative che avevo riscontrato nella sceneggiatura originale erano diventate degli abissi, infatti il film non aveva niente a che fare sia come racconto sia come immagini con quanto avevo letto in precedenza. Era accaduto che durante la lavorazione Antonioni aveva trovato la sua formula autentica e la verità di un suo linguaggio. Come è noto quel film segnò l’inizio di quelli che vennero definiti “i film dell’incomunicabilità”; a L’avventura infatti fecero seguito La notte e L’eclisse che imposero nel mondo il binomio Antonioni-Vitti.

Agli inizi del 1963 Monica mi chiese di andare a pranzo da lei e mi avvertì che Antonioni non ci sarebbe stato, Monica voleva parlarmi proprio in sua assenza. La Vitti era, tra l’altro, una grandissima attrice comica. L’attore comico è una specie rara: è più facile far piangere la gente che farla ridere. Durante quel pranzo mi disse esplicitamente che ne aveva fin sopra gli occhi di recitare in parti drammatiche e che intendeva fare un film divertente, era riuscita a convincere Antonioni a dirigerlo e lei voleva perciò che la sceneggiatura di questo film fosse fatta dal trio Antonioni-Vitti- Camilleri: voleva da me un soggetto originale. Io lo scrissi in una settimana e da quel momento cominciarono quotidiani incontri a tre, poi finalmente passammo a sceneggiarlo. E qui arrivarono le difficoltà: Monica ed io propendevamo per una comicità concreta più di fatti e di situazioni che di battute, una comicità per intenderci alla Feydeau, Antonioni invece avrebbe preferito una comicità più leggera, aerea, a mezza strada tra Chaplin e Tati.

Quando, dopo tre mesi, finimmo la sceneggiatura che provvisoriamente intitolammo A donna che t’ama proibisci il pigiama, Antonioni nel bel mezzo di una cena a tre dichiarò:

«Io un film così non sono in grado di dirigerlo».

«Perché?» gli domandò Monica.

«Perché non mi ci ritrovo assolutamente.»

In quei giorni infatti stava elaborando la prima traccia del suo film seguente che sarebbe stato il famosissimo e ultrapremiato Deserto rosso, sempre con la Vitti. Monica non insistette per fargli cambiare idea anche perché la frase Antonioni l’aveva pronunciata con un tono definitivo, si limitò a domandargli:

«E allora secondo te chi sarebbe il regista ideale?».

E Antonioni con molta semplicità disse:

«Lui» indicando me.

Fino a quel giorno io ero stato un regista teatrale, non mi ero mai trovato dietro una macchina da presa e non avevo ancora cominciato a far televisione quindi, per dirla alla buona, come raccontare per immagini mi era assolutamente sconosciuto.

«Stai scherzando?»

E Antonioni:

«Affatto».

«Ma io non ho nessuna tecnica cinematografica.»

«D’accordo ma sei un ottimo direttore di attori. Per la parte tecnica vuol dire che sarò io a starti

dietro, ti farò da aiuto regista ma senza comparire.»

Monica ne fu subito entusiasta, si mise a battere le mani, io lo ero molto meno. Mi pareva troppo rischioso fare la mia prima opera con un’attrice così importante come Monica e sotto il controllo di Antonioni. Quella sera stessa ne parlai col mio Maestro e amico Orazio Costa, anche lui si dimostrò dubbioso:

«Certo, è un’ottima occasione per te ma temo che la presenza di Antonioni possa diventare troppo invasiva e ingombrante».

Era proprio quello che pensavo io, così telefonai a Monica chiedendole di concedermi qualche giorno per pensarci su. Due giorni dopo fu Monica a chiamarmi, invitandomi stavolta a pranzo. Quando arrivai mi venne presentato un signore che non conoscevo, era il produttore Moris Ergas, un nome ben noto negli ambienti cinematografici. Durante il pranzo Antonioni gli parlò del film e gli disse che molto probabilmente l’avrei dovuto dirigere io con la sua assistenza tecnica che però non doveva essere palesata. Il produttore non batté ciglio, volle anzi che Monica ed io gli raccontassimo il soggetto. Durante il racconto si fece delle grasse risate:

«Mi piace molto, spero che riusciamo a portarlo in porto».

Senonché i miei dubbi e le mie perplessità aumentarono, così durante una nuova cena a tre io dissi che quel film non l’avrei diretto e li pregai di non cercare di convincermi a cambiare idea. Monica, da donna pratica, si comportò con me come aveva fatto con Antonioni.

«Chi potrebbe farlo al posto tuo?» mi domandò.

«Ascoltatemi bene» dissi, «so che Giorgio Strehler spasima per fare un film, è un grandissimo nome, Monica, e potrà dirigerti benissimo.»

Antonioni rimase muto ma Monica fremeva, non voleva perdere tempo, si alzò e andò al telefono, parlò con Strehler in nostra presenza. La telefonata fu brevissima:

«Giorgio, ci sarebbe la possibilità per me di fare un film comico, ti farebbe piacere esserne tu il regista?».

Siccome aveva messo il vivavoce sentimmo la risposta entusiastica di Strehler.

«Ma certo! Quando? Dove? Come? Quando cominciamo? Di che si tratta?»

«Per ora non posso dirti molto, ti richiamo tra qualche giorno, ciao.»

E chiuse la comunicazione.

Michelangelo Antonioni assunse un’espressione impenetrabile.

«Che hai?»

«A me l’idea di Strehler non mi persuade, comunque sia, domani sera parliamone con Ergas.»

Nella cena seguente, appena sentì il nome di Strehler, Ergas reagì immediatamente:

«Non se ne parla nemmeno. Io questo film non lo produco».

«Perché?» domandò Monica esterrefatta.

«Ve lo dico subito, Camilleri è alle prime armi e quindi sarebbe stato ben felice di fare questo film con l’aiuto di Michelangelo. Avrebbe avuto, come tutti i registi esordienti, poche pretese mentre invece uno come Strehler avrà centomila pretese alcune che io non potrò soddisfare e dopo avermi condotto sull’orlo dell’esaurimento nervoso finirà col consegnarmi un prodotto mediocre.»

A queste parole non osammo replicare. E così del nostro soggetto comico non se ne parlò più.

Poco tempo dopo Monica, forse a malincuore, cominciò a girare Deserto rosso.

La sceneggiatura di A donna che t’ama proibisci il pigiama la conservai gelosamente, la misi in un posto sicuro, così sicuro che quando qualche anno dopo mi venne voglia di rileggerla, per quante ricerche facessi non la ritrovai più.

Commenta