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Amazon Mechanical Turk, siamo uomini o robot?

Attraverso la piattaforma di crowdsourcing di Amazon, Mechanical Turk, si crea una nuovo mercato del lavoro nel quale i lavoratori devono valutare se è conveniente o no quanto offrono gli appaltatori ma le retribuzioni sono basse e non sempre sicure – E soprattutto nascono nuove alienazioni da vecchia catena di montaggio – Come andrà a finire?

Amazon Mechanical Turk, siamo uomini o robot?

Un meteorite di nome Amazon

Non c’è area della nuova economia in cui Amazon non abbia una qualche presenza più o meno significativa. Sono partiti con i libri 20 anni fa per poi diventare l’Everything Store mondiale. Oggi Amazon ha una capitalizzazione di borsa superiore a Walmart. Non contenti di essere il più grande e-commerce del mondo, posizione oggi insidiata dai cinesi di Alibaba, si sono allargarti ad altre e impensabili aree. Lo hanno fatto direttamente o attraverso iniziative personali del suo poliedrico capo, Jeff Bezos. Per esempio, Amazon Web Service è il più grande fornitore mondiale di servizi cloud; Amazon Studios produce film e serie televisive innovative. Se avete Sky o Premium vi consigliamo Transparent, Mozart in the Jungle o Black is the New Orange. Deliziose, fresche e soprattutto coraggiose. Se c’è bisogno di un idraulico basta affidarsi ad Amazon Home Services. In Italia però bisogna cercarselo da soli. Una testata leggendaria come il “Washington Post” sta beneficiando enormemente dell’apporto di Bezos, che l’ha acquistata a prezzi di saldo dalla famiglia fondatrice. Nella redazione di Washington è tornata la fibrillazione come ai vecchi tempi andati. I movimenti per i diritti LGBT stanno ricevendo delle laute donazioni dal capo di Amazon e dalla consorte Mackenzie. Due premiatissime serie prodotte da Amazon studios trattano con grazia storie LGBT. Insomma quando si dice che Amazon è tentacolare, senza dare alcuna connotazione a quest’aggettivo, non si è lontani dal vero. Una cosa è certa, dove arriva Amazon è come se piovesse un meteorite nello stagno. Sta succedendo anche nel mercato del lavoro delle professioni intellettuali e manuali.

Componente umana e software

La ricerca portata avanti dalla Stanford University, sfociata nella “mappatura emozionale” della Londra vittoriana, è davvero singolare. Ce ne siamo occupati nel precedente post. Lo è perché, utilizzando la recente critica computazionale, associa letteratura e software in un’indagine che, fondandosi su basi statistiche, mira a ricostruire una mappa emotiva delle locazioni della Londra del XIX secolo. Riesce così a coniugare elementi che immagineremmo tra loro agli antipodi, pressoché antitetici e inconciliabili: il pathos della creazione letteraria e il computo freddo e analitico di un software. È ancor più singolare, in quanto il risultato che ne consegue è poi una mappa che si articola non esclusivamente in funzione e sulla base di precisi riferimenti fisici, piuttosto su quanto di più immateriale si possa immaginare: i sentimenti che ad essi si accompagnano. Una mappa insolitamente peculiare, pertanto, fondata sulla geografia dei luoghi e delle emozioni che si rinvengono connesse a tali luoghi, analizzando minutamente il patrimonio letterario coevo.

Come è stato possibile, dunque, esaminare delle emozioni? Forse i ricercatori dello Stanford Literary Lab sono riusciti a dotare le proprie macchine della capacità di provare e discernere dei sentimenti? La risposta ovviamente è no. Qualora ci fossero riusciti la ricerca non sarebbe solo da considerarsi singolare, bensì assolutamente sensazionale. Si è trattato in realtà di una collaborazione tra uomo e macchina. Ci sono tuttora delle operazioni, dei compiti, che le macchine, nonostante la loro enorme capacità di calcolo, non sono in grado di eseguire, mentre essi risultano persino banali per l’uomo. Pertanto la componente umana ha provveduto a individuare e catalogare le emozioni e la componente software ad elaborare e analizzare il materiale.

Tale forma di collaborazione uomo-macchina ha un nome: crowdworking. E reca un presupposto ineludibile, necessario, anche se non sufficiente: lo sviluppo e le potenzialità del web. Il crowdsourcing, parola composta da crowd (folla) e outsourcing (esternalizzazione di una parte delle proprie attività), come ci ricorda Wikipedia, è fenomeno alquanto discusso e controverso, che presenta implicazioni notevoli, a motivo delle proprie ricadute economiche, ma anche sociali ed etiche.

Nelle sue forme migliori rappresenta il ricorso al contributo e la collaborazione delle più efficaci energie e visioni presenti sulla rete, finalizzate all’attuazione di un progetto. Una condivisione e distribuzione del lavoro che dovrebbe favorire lo sprigionarsi d’idee e modalità creative ed innovative di realizzazione. Nelle sue forme deteriori si configura, invero, come un’esternalizzazione incontrollata e indistinta di costi, obblighi e vincoli, da parte del committente, alfine di farli ricadere sulle spalle della folla (crowd) della comunità. Esso si concretizza pertanto in uno sfruttamento indiscriminato di una moltitudine di manodopera a bassissimo costo, che può essere reclutata istantaneamente per svolgere mansioni iper-parcellizate (microtasking), spesso ripetitive e di breve durata, il cui scopo finale e significato complessivo, sovente è noto solo al richiedente. Una modalità di lavoro che evade e vanifica accordi sociali di cui beneficia soprattutto l’appaltatore.

La diffusione di queste forme di lavoro o collaborazione liquida è in forte ascesa grazie alle opportunità offerte dalla crescita della Rete. È attraverso la Rete che esse si organizzano, è mediante la Rete che avvengono perlopiù reclutamento ed espletamento del lavoro, è grazie alla Rete che vengono abbattuti vincoli e limitazioni, non ultimi quelle dettati sinora dalla geografia dei luoghi e dalle distanze. La Rete, tuttavia, così come avvicina, accomuna e livella, al contempo allontana, divide ed acuisce le disuguaglianze.

La ricerca sposa il crowdsourcing grazie al Web

L’indagine dello Stanford Literary Lab ha preso forma nel web. È con l’aiuto del web che si è stati in grado di espletarla, ed è sul web che essa trova una sua collocazione. I ricercatori hanno fatto ricorso ad uno strumento ben preciso, la piattaforma di crowdsourcing di Amazon: Mechanical Turk. In questo hanno assecondato una tendenza sempre più diffusa nel campo della ricerca. Sino a poco tempo fa le cavie e i soggetti grazie ai quali venivano condotti molti studi scientifici erano gli studenti, materia abbondante e dai costi contenuti all’interno delle università. Oggi, gli studenti sono spesso soppiantati, per le esigenze dell’analisi, da un nuovo campione altrettanto abbondante e a buon mercato: il crowd della Rete, il popolo del web, arruolabile mediante le varie piattaforme di crowdsourcing. Tali piattaforme, tuttavia, non sono le uniche modalità attraverso le quali si concretano gli approcci crowd anzi, in molti casi la ricerca fa ricorso al coinvolgimento e l’ausilio di singole comunità o specifiche categorie, con ricadute positive, finanche sul versante sociale, che beneficiano sia gli studiosi che gli altri soggetti coinvolti.

Amazon Mechanical Turk. Un mercato globale di “componenti” umane

Il caso del Mechanical Turk, invero, è affatto particolare. Nelle parole di Jeff Bezos, CEO di Amazon, il suo intento sarebbe quello di creare una sorta di «intelligenza artificiale artificiale», ovvero un meccanismo ibrido uomo-macchina. Nei suoi gangli infatti, come nel caso dell’automa originario, si annidano degli esseri umani che svolgono quelle mansioni (HIT, Human Intelligent Task) che la macchina non è in grado di espletare. Amazon dipinge la sua piattaforma come un «mercato del lavoro» dove «… aziende e sviluppatori accedono ad una forza lavoro scalabile, a richiesta». Ai lavoratori (Workers) non resta altro da fare che valutare se quanto offerto dagli appaltatori (Requesters) risulti conveniente o meno. In realtà, le retribuzioni sono spesso basse e possono essere anche poco sicure. I Requesters possono rifiutare il lavoro svolto, non pagandolo e neppure l’accettazione dell’appaltatore è garanzia sufficiente di un effettivo pagamento. Amazon, dal canto suo, a fronte di una percentuale del 10% percepita su ogni transazione, declina ogni responsabilità e rifiuta qualsivoglia coinvolgimento. I lavoratori di queste piattaforme di crowdsourcing, così come quelli del lavoro on demand, reclutati tramite l’app di un cellulare del resto, sono considerati dei contractor, dei professionisti indipendenti, condividendone obblighi e regimi fiscali, risultando esclusi da quelle tutele che sono riservate invece al lavoro dipendente. Sovente, tuttavia, essi sono assoggettati, di fatto, a tutta una serie di imposizioni e vincoli propri del lavoro dipendente. Le retribuzioni, poi, nella stragrande maggioranza dei casi, non sono quelle di un professionista, e alle volte neppure quelle di un lavoratore dipendente.

Nuove alienazioni, vecchie disuguaglianze

Il Turco e le analoghe piattaforme crowd sono state definite delle «… catene di montaggio virtuali». In realtà la creatura di Amazon sembra spingersi ben oltre la classica catena di montaggio, seppure incorporea ed evanescente. Esso stravolge alle fondamenta l’organizzazione del lavoro, parcellizzandolo e ribaltando il rapporto tra uomo e macchina. L’essere umano è ancora ridotto a fungere da mero componente della macchina, un’appendice di questa, delegata a sopperire alle carenze dell’automa.

Di contro, l’immaterialità del sistema lascia i lavoratori soli, dispersi e disaggregati e, cosa ancor più paradossale, isolati, in un universo, il web, che della connessione fa una propria bandiera e laddove, in epoca sharing economy, vengono richieste condivisione e collaborazione. Una solitudine che diviene patente abbandono nel caso dei rapporti tra worker e requester, lasciati alla regolazione di un presunto mercato, invero fondati su un’enorme disparità di potere. All’alienazione della catena di montaggio se ne affianca, senza sostituirsi ad essa, una nuova. Un’alienazione che va nella direzione della virtualità, dettata dall’approssimare sempre più l’uomo alla macchina, con l’individuo che, deprivato degli attributi fondanti della propria umanità, perde consapevolezza di , del senso del proprio lavoro e della propria socialità.

Saremo tutti dei robot?

Eppure la materialità del disagio è lancinante ed evidente. È un malessere profondo che porta i lavoratori a chiedere di essere riconosciuti, innanzitutto come esseri umani, in qualità di persone viventi e pensanti, con propri bisogni e aspirazioni. La parola d’ordine di una campagna di mail all’indirizzo di Jeff Bezos, lanciata dai Turker nel dicembre 2014 è, nelle parole di Christy Milland: «Sono un essere umano, non un algoritmo».

Analoga è la richiesta di riconoscimento e dignità dei lavoratori on demand di aziende come Handy: «Non siamo robot, non siamo un telecomando, siamo individui». Sono parole già udite in altre occasioni nel corso della storia, oggi, tuttavia, il rapporto uomo-macchina sembra aver subito un’ulteriore trasformazione e aver valicato una nuova frontiera. A vantaggio dell’essere umano o dno? Ci apprestiamo dunque a divenire tutti dei robot? Due quesiti che attendono ancora una risposta, ma che non sembra così confortante.

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