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Allevamenti, a Tortona “l’archeologo delle mucche”

In provincia di Alessandria, il 40enne Stefano Piccardo è diventato l’incarnazione della “decrescita felice”: con un passato da pubblicitario, art director e regista nella “Milano da bere” (dove ha fatto anche il musicista), si è reinventato allevatore di mucche in via d’estinzione, una sorta di archeologo della campagna – E ne ha fatto un marchio.

Allevamenti, a Tortona “l’archeologo delle mucche”

Archeologo delle mucche. Così si è definito, in una curiosa intervista rilasciata a La Stampa, Stefano Piccardo, 40 anni, genovese di origine e piemontese di adozione. Proprio nel Tortonese, in provincia di Alessandria, Piccardo è diventato l’incarnazione della “decrescita felice”: con un passato da pubblicitario, art director e regista nella “Milano da bere” (dove ha fatto anche il musicista), si è reinventato allevatore di mucche in via d’estinzione, una sorta di archeologo della campagna: “Ho restaurato un alimento”, dice nella tenuta La Castagnola, del 1600, salvata dal tempo e da potenziali speculatori, nella campagna di Cassano Spinola. “Era appartenuta ai miei nonni, ma era destinata ad essere venduta”. 

Con il ritorno nella tenuta – 40 ettari di prati, cascina di 2 mila metri quadrati, con mobili dell’Ottocento e fantasmi annessi – per lui è iniziato anche un viaggio a ritroso nel tempo: “Volevo sapere cosa si mangiava lì, in quelle colline, in passato, come curavano e preparavano la carne i nonni dei miei nonni”. Così ha intervistato gli anziani del borgo ed è finito negli anni Trenta quando il bestiame si allevava solo per sussistenza: “Prima della seconda guerra mondiale non esisteva l’industria della carne, e c’erano specie di vacche diverse: poi ci sono stati 70 anni di selezione genetica”. Che Stefano ha provato ad annullare, recuperando proprio le mucche dismesse dall’industria. Dice che oggi non avrebbero più mercato, che alla grande distribuzione non interesserebbero. Ma a lui sì. Sono due le razze, autoctone: “La Tortonese, che è molto selvaggia, difficile, minuta, sembra un cerbiatto, e poi la Pezzata Rossa d’Oropa: ce ne sono pochissime e sono molto piccole”.

Ne ha prese 26, racconta sempre a La Stampa: “E in tre anni sono diventate 60”, grazie alla riproduzione naturale (ci pensa l’unico toro). E con loro, è cresciuto anche lo staff: “Papà Betto, Perez, Cocca, i Martinez, i Nanè, chef Ivan, le Simo e mamma Cia”. Insieme, la svolta: Stefano ha intuito il valore di quel recupero e ha deciso di brandizzare la sua esclusiva. “Così è nato il marchio Carne 1874, antica più di un secolo. La si può mangiare soltanto qui – agnolotti ripieni, stracotto, bollito, costate, filetto, carpaccio, lingua – alla Castagnola, che negli anni è diventata società agricola e b&b. Velleità di trovarla sugli scaffali dei market? Neanche un po’. È una dimensione diversa. I grandi numeri non interessano: quel brand – «carne 1874» – è una specie di opera d’arte”.

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