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Acciaierie d’Italia, ultimo rinvio al 22. L’ex Ilva in bilico tra salvataggio pubblico o amministrazione straordinaria

Nulla di fatto nell’assemblea degli azionisti che si aggiornerà il 22 dicembre. Il governo italiano ha due opzioni per evitare la chiusura dell’impianto siderurgico di Taranto: ecco quali

Acciaierie d’Italia, ultimo rinvio al 22. L’ex Ilva in bilico tra salvataggio pubblico o amministrazione straordinaria

Il futuro delle Acciaierie d’Italia (ex Ilva) è appeso a un filo. Anche l’ultima riunione dell’assemblea dei soci è andata a vuoto: nessun accordo fra l’azionista di maggioranza, la multinazionale franco-indiana ArcelorMittal, e l’azionista pubblico di minoranza Invitalia, società che si occupa degli investimenti dello Stato. L’impianto siderurgico di Taranto, in gravissime condizioni finanziarie, chiede da mesi ai soci i capitali per finanziare l’attività: servirebbero subito 320 milioni per poter garantire la continuità, ma per il rilancio occorrerebbero 1,5 miliardi (da dividere secondo le quote di possesso azionario). Arcelor Mittal ha risposto con un secco “No” a questa ennesima richiesta. E di fronte al muro del socio privato, Invitalia ha chiesto di riconvocare l’assemblea il 22 dicembre, in attesa di sapere che cosa il governo deciderà in merito alla possibilità di prendere la maggioranza della società. Un’opzione finale, peraltro, che dipende dalle condizioni dei conti pubblici italiani, non rosei al momento. E soprattutto non si tratta di una procedura celere: l’erogazione dovrebbe passare da un decreto ministeriale bollinato dalla Corte dei Conti con il successivo passaggio tecnico del versamento dei soldi operato dalla Ragioneria dello Stato. Nel frattempo, a Palazzo Chigi si continua a cercare una soluzione.

Quali sono le soluzioni per salvare Acciaierie d’Italia (ex Ilva)?

ArcelorMittal ha rifiutato di pagare il 62% – corrispondente alla sua quota societaria – del rifinanziamento, spiegando che ha già sborsato parecchi soldi per l’impianto. Inoltre, ha presentato un memorandum di 12 pagine su quanto il governo avrebbe potuto fare e invece non ha fatto. Il governo sa che non può arrivare impreparato alla prossima assemblea. “Siamo pronti a trattare fino all’ultimo minuto”, ha detto il ministro delle Imprese e made in Italy Adolfo Urso.

Il tempo stringe e non ci sono molte alternative. Il governo italiano ha due opzioni per evitare il fallimento di Acciaierie d’Italia. Invitalia, potrebbe passare in maggioranza (dall’attuale 38 al 60%), trasformando i 680 milioni di finanziamento del decreto 2/ 2023 in aumento di capitale con una iniezione aggiuntiva di 300-350 milioni. Questa strada comporterebbe un cambio di governance (come era già previsto in precedenti accordi).  Questa possibilità è stata scartata nei mesi scorsi perché presuppone investimenti di grande entità per il bilancio dello stato, ormai sempre più vuoto.

La seconda opzione, più estrema, contempla l’utilizzo dell’articolo 3 dell’ultimo decreto Ilva, un socio pubblico che ha almeno il 30% di una società strategica possa richiedere l’amministrazione straordinaria dopo segnalazione al cda del ricorrere della legge Marzano, con la possibilità di commissariamento. Uno scenario che potrebbe rimettere in gioco investitori industriali italiani che non ritengono, al momento, ci siano le condizioni per entrare in coinvestimento.

Acciaierie d’Italia: lo sciopero di 48 ore

Il rinvio è stato giudicato particolarmente grave dai sindacati, perché l’azienda ha di fatto finito i fondi e rischia la chiusura che sarebbe un danno enorme non solo per i territori (Taranto, Genova, Novi ligure) ma per il Paese intero. L’ex Ilva è l’acciaieria più grande d’Europa e dà lavoro a 10.500 dipendenti, senza considerare l’indotto. Lunedì 4 dicembre, il gruppo franco-indiano nei giorni scorsi ha proceduto allo spegnimento, definito temporaneo, di uno dei due altiforni attivi nell’impianto di Taranto (il 2). Al momento è rimasto attivo un solo altoforno (il 4), essendo già fermi il 5 e l’1 (il 3 fu spento nel 1994 e demolito nel 2020).

Acciaierie d’Italia ha giustificato lo spegnimento con la necessità di interventi di manutenzione: l’altoforno dovrebbe tornare attivo il 12 dicembre, ma i sindacati hanno evidenziato che lo spegnimento è un’operazione complessa, pericolosa e non sempre è possibile riaccenderlo. Ad agosto l’1 era stato spento per l’installazione di alcuni filtri: gli interventi sarebbero dovuti durare un mese, ma ancora oggi è spento.

I sindacati ritengono che lo spegnimento dell’altoforno sia una sorta di “ricatto” da parte dell’azionista privato e hanno iniziato ieri, mercoledì 6 dicembre, uno sciopero di 48 ore. Attualmente circa 5.000 dipendenti dell’ex Ilva sono in cassa integrazione, con riduzioni anche consistenti dello stipendio.

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