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ACCADDE OGGI – 30 anni fa cadeva il Muro di Berlino

La sera del 9 novembre del 1989 cadde a sorpresa il Muro che dal 1961 aveva diviso in due Berlino separando intere famiglie – Era l’effetto Gorbaciov e colse di sorpresa anche molti capi di Stato e di governo ma segnò uno spartiacque nella storia del Novecento con il crollo del regime comunista e la successiba riunificazione della Germania

ACCADDE OGGI – 30 anni fa cadeva il Muro di Berlino

Il 9 novembre 1989 il crollo del Muro di Berlino mise fine, con un colpo solo, alla divisione della Germania, alla Guerra Fredda e all’ideologia comunista, oltre che dare un’accelerazione al processo di integrazione europea che ad oggi, tuttavia, è ancora incompiuta. Era una sera di esattamente 30 anni fa quando le prime centinaia, diventate poi velocemente migliaia di persone, iniziarono prima a scavalcare, poi ad abbattere (magari conservandone un pezzo come ricordo) e progressivamente a dimenticare quella barriera che per 29 anni (dal 1961, quando fu eretta) divise in due Berlino e l’Europa, separando quello che oggi chiamiamo mondo occidentale dal blocco comunista, destinato a sgretolarsi dopo la perestrojka avviata dal presidente sovietico Mikhail Gorbaciov e le rivolte che già avevano cambiato il clima in altri Paesi al di là della cortina di ferro, come Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia e di lì a poco in Romania con la caduta di Nicolae Ceausescu (senza dimenticare che il 1989 fu anche l’anno della protesta di piazza Tienamnen)

Ma quel muro lungo 155 chilometri e alto 3,6 metri (accompagnato da un fossato profondo altri 3,5 metri e un altro muro elettrificato, il tutto controllato da cani da guardia, filo spinato, 302 torri di controllo e 14mila guardie) fu l’ultima fortezza a cadere, rimanendo fino all’ultimo simbolo del duro regime della DDR, fatto di limitazioni alla libertà, agli spostamenti, alla libertà di pensiero, grazie a un’attività di spionaggio e di polizia senza precedenti, da parte della temuta Stasi. Un sistema che non si voleva rassegnare a cadere, nonostante tutti gli inequivocabili segnali che arrivavano dall’ormai ex mondo sovietico e dalla stessa indifferenza di Gorbaciov, che isolò il Presidente del Consiglio di Stato della Repubblica Democratica Tedesca Erich Honecker, costringendolo a gestire la crisi (e il collasso economico) da solo e a dimettersi pochi giorni prima della caduta del Muro. Non prima però di aver subito l’ultima umiliazione, e cioè la richiesta di un prestito al “nemico”, alla prospera Germania occidentale guidata Helmut Kohl, che lo concesse in cambio di una facilitazione del transito tra le due Berlino.

Il resto, è storia. Nel pomeriggio del 9 novembre Egon Krenz, segretario generale del partito comunista tedesco orientale, aveva deciso di aprire nuovi punti di passaggio lungo la linea di demarcazione. Poche ore dopo Gunter Schabowski, portavoce del regime, si presentò a rispondere alle domande dei giornalisti esteri, tra i quali c’era anche l’italiano Riccardo Ehrman, oggi 90enne e all’epoca corrispondente dell’Ansa. Fu proprio lui a rivolgere a Schabowki le fatidiche domande: “Perché non ammettete che le misure prese per regolare i viaggi non funzionano e sono un errore?”. Schabowski non aveva afferrato bene le informazioni sussurrategli da Krenz, di fretta in un corridoio: il capo gli aveva accennato del progetto di aumentare i passaggi, ma il portavoce non capì che si trattava di una intenzione e non di cosa fatta, e si sbilanciò, lasciando così che accadesse ciò che prima o poi sarebbe comunque accaduto. Così alle 18,53, l’ora della storia, quando Ehrman incalza con la domanda che porterà alla fine della DDR (“Da quando sarà abbattuto il Muro?”), Schabowski risponde “Ab sofort”, da subito. E aggiunge anche “Unverzueglich”, immediatamente.

Da lì a pochi minuti avvenne ciò che le immagini di tutte le tv del mondo documentarono: Berlino Ovest fu invasa da migliaia di cittadini dell’Est, increduli e festanti. Ai piedi del Muro, del quale molti prendevano come ricordo un frammento, una scheggia, le note di Beethoven abbracciavano le note di Bach, che arrivavano dal Checkpoint Charlie, dove Mstislav Rostropovich suonò una suite col violoncello che si era portato da Parigi. Aveva noleggiato un aereo privato per arrivare al più presto da dove era fuggito vent’ anni prima. Nessuna divisa di poliziotto dell’Est o dell’Ovest spuntava tra la folla che si agitava libera nello spazio in cui fino a poche ore prima nessuno poteva addentrarsi senza rischiare l’arresto e talvolta anche la vita. 

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