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Studio Mediobanca – Le azioni di risparmio sono quelle che rendono di più ma i Bot sono imbattibili

Ufficio Studi MEDIOBANCA: INDICI E DATI – Dal gennaio 1996 ad oggi le rnc sono le azioni che hanno reso di più (+8,2% l’anno) ma in 14 anni su 17 un Bot rende di più dell’investimento in Borsa – I titoli bancari perdono il confronto con l’industria – Bene le small e le mid caps e soprattutto i titoli del segmento Star – Cruciale il timing dell’investimento.

Studio Mediobanca – Le azioni di risparmio sono quelle che rendono di più ma  i Bot sono imbattibili

I fatti di casa nostra

Andamento della Borsa Italiana negli ultimi 17 anni : dal gennaio 1996 (base indici Mediobanca free float) al 18 ottobre 2012 (16 anni e 10 mesi circa), l’investimento in Borsa più redditizio è relativo alle azioni di risparmio, il cui rendimento complessivo (inclusi i dividendi) è stato pari all’8,2% medio annuo.

Buona la performance delle small caps (piccole imprese, oltre la centesima posizione nella classifica per capitalizzazione flottante) e delle mid-cap (imprese a media capitalizzazione, dalla 31-esima alla 100-esima per capitalizzazione flottante di borsa), con rendimenti medi annui pari, rispettivamente, al 4,4% e al 6,3%; entrambe hanno battuto le blue chips le cui quotazioni sono cresciute del 4,8% medio annuo.

Quanto ai settori, l’investimento in titoli bancari è regolarmente soccombente rispetto ai titoli industriali, qualunque sia l’anno dell’investimento iniziale: dal 1996, ad esempio, si tratta di un +1,5% medio annuo rispetto al +7,8% del portafoglio industriale (che in termini cumulati su circa 17 anni si traduce nel +28% contro +250%). Ma peggio ancora hanno fatto i titoli assicurativi, solo +17% in 17 anni, ossia +1% medio annuo. Complessivamente, la Borsa ha reso il 5,3% medio annuo circa.

Dalla sua istituzione il segmento Star ha sempre garantito rendimenti migliori del mercato, ma soprattutto della media dei segmenti Mid e SmallCap da cui essi provengono – unica eccezione il rendimento del 2012 inferiore alle 70 medie -.

L’investimento in Borsa ha chiuso in negativo in 12 anni su 17, vale a dire da 14 anni a questa parte fatti salvi il 2002 e il 2011. Tuttavia anche per questo dato i settori fanno la differenza: gli ultimi 15 su 17 sono gli anni perdenti sia per l’investimento assicurativo che per quello bancario, solo 4 su 17 per quello industriale (dal 2005 in avanti, eccettuati 2008, 2009 e 2011). Dopo aver invariabilmente perso dal 2000 al 2009, i titoli dell’ex Nuovo Mercato hanno manifestato qualche segno di recupero, più evidente nel 2011.

Rispetto ad un investimento in BOT, la Borsa avrebbe garantito un rendimento medio annuo superiore all’impiego risk-free in tre casi su 17: nei soli due periodi iniziali (gennaio e dicembre 1996) e in quello finale (dicembre 2011), mentre anche chi avesse avuto il coraggio di investire in Borsa in piena crisi finanziaria (2008) non avrebbe ottenuto rendimenti superiori ai BOT.

Resta da valutare se il maggiore rendimento offerto dalla Borsa sia stato sufficiente a compensare l’investitore per il maggiore rischio assunto, tenuto conto di un premio che è oscillante tra 3,5% ed il 5%: non pare ciò sia accaduto, neppure per l’investimento effettuato in un momento (fine 2008) del tutto eccezionale per via della crisi finanziaria.

Rendimento da dividendi: nel 2008 la caduta dei corsi azionari in presenza di risultati di bilancio (quelli del 2007) ancora non erosi dalla crisi ha portato il dividend yield della Borsa italiana al massimo dal 1996 (6,1%); le banche in particolare hanno potuto “premiare” in modo consistente i propri azionisti (6,8%), ma la palma del migliore rendimento spetta alle azioni di risparmio (7,5%), anch’esse al massimo storico dal 1996.

Nel 2009, la caduta del monte dividendi per i magri risultati di bilancio nel 2008 di assicurazioni e banche ha invece depresso il dividend yield complessivo, portandolo al 4,3% (ma in linea con i livelli del 2006 e 2007), grazie alla “tenuta” dei titoli industriali (6,4%) che hanno realizzato il secondo miglior risultato dal 1996 ed hanno in parte compensato la caduta degli assicurativi (1,7%) e dei bancari (appena lo 0,8%).

Il 2010 segna una ulteriore caduta dei dividendi (dal 4,3% al 4,1%, un livello che non si vedeva dal 2003), ma sono ora le industrie ad avere chiuso bilanci 2009 magri riducendo di conseguenza la remunerazione agli azionisti (al 4,8% dal 6,4%) mentre sono in lieve ripresa assicurazioni (da 1,7% a 2,8%) e banche (da 0,8% a 2,6%); sempre sostenuta la remunerazione delle azioni di risparmio (6,5%), in linea con il 2009.

Nel 2011 iI dividend yield manifesta un ripresa – particolarmente per la ripresa dei valori delle banche dal 2,6% al 2,9% – . Nel 2012, pur rimanendo superiore al 4% (come si verifica senza soluzione di continuità dal 2004), manifesta un nuovo calo riconducibile alla contrazione di assicurative e bancarie – entrambi i comparti dal 2,9% al 2,1% -, riportandosi sul 4,1% raggiunto nel 2010.

Le Mid-cap, ad eccezione del biennio 1996/1997, hanno segnato dividend yield regolarmente inferiori alle maggiori società (tendenza accentuatasi negli ultimi anni), sicché i loro migliori rendimenti complessivi sono integralmente da ascrivere alla dinamica dei prezzi. La considerazione vale ancor più per le società del segmento Star che hanno una politica di dividendi particolarmente cauta – la media storica dal 2002 del loro rapporto dividendo-prezzo, 2,3%, supera di poco la metà di quello delle Top 30, 4,3% -.

Lungo periodo = lungo digiuno? : l’indice della Borsa Italiana dal 2 gennaio 1928 a fine settembre 2012 esprime, nella versione a corsi secchi, ossia senza il reinvestimento dei dividendi, un rendimento nominale pari al 6,3% annuo. In termini reali esso diviene negativo per il 2,6% annuo (l’inflazione media è stata dell’8,9%).

Ciò significa che un ipotetico investitore che avesse deciso di consumare i dividendi si sarebbe ritrovato dopo 84 anni e 9 mesi con un capitale dal potere di acquisto decurtato dell’89%. Calcolando l’indice nell’ipotesi di totale reinvestimento dei dividendi, il rendimento medio annuo reale si attesta allo 0,8%, per effetto di un dividend yield medio nel periodo del 3,4%.

Il reinvestimento del dividendo è quindi necessario per mantenere il potere d’acquisto iniziale del capitale che, posto 100 il gennaio 1928, risulta pari a 198,7 a fine settembre 2012.

Nella valutazione dell’investimento in azioni è fondamentale la considerazione dell’orizzonte in cui esso avviene: assumendo un periodo di investimento di un solo anno, l’investitore avrebbe “rischiato” nel periodo in esame di guadagnare un massimo del 116% (nel 1946) o perdere nella peggiore ipotesi il 72% (1945). Man mano che il periodo d’investimento si allunga, si riduce la dispersione dei risultati medi annui.

Sorprende che, anche detenendo le azioni per 30 o 40 anni, permanga il rischio di subire una perdita media annua tra il 3% ed il 4% (che significa, in 40 anni, depauperare di circa l’80% in termini reali il proprio capitale pur avendo reinvestito tutti i dividendi, come accaduto tra il 1944 e il 1983).

D’altra parte, è cruciale il momento dell’investimento. Se si decide, malauguratamente, di investire in un picco di mercato, posto pari a 100 l’anno in cui esso si verifica, in media dopo 10 anni vi è subito un dimezzamento del capitale, recuperando poi fino ad oltre i tre quarti dopo venti, mentre al maturare del trentesimo anno si è ancora in perdita, seppure di poco.

Capitale medio dopo: 10 anni 51,8 euro -6,4% medio annuo

20 anni 81,8 euro -1,0% medio annuo

30 anni 97,6 euro -0,1% medio annuo

Se invece si fosse investito in uno degli anni in cui l’indice di Borsa era ai minimi (nella nostra rilevazione: il 1933, 1938, 1945, 1964, 1977 e il 1992), in media dopo 10 anni si sarebbe ottenuto un valore dell’investimento più che raddoppiato e quasi quadruplicato dopo 30 anni.

Capitale medio dopo: 10 anni 215,0 euro +12,2% medio annuo

20 anni 265,3 euro +6,7% medio annuo

30 anni 388,1 euro +5,4% medio annuo

Si noti, per inciso, il prolungato periodo che va dal gennaio 1928 alla fine del 1985 che segna un totale ristagno (quasi sessantennale) della borsa italiana, con rendimento reale nullo ed una sostanziale invarianza del numero di emittenti quotati (da 176 del gennaio 1928 a 165 a fine 1985).

I singoli titoli: dalle stelle alle stalle: Una scelta oculata dei titoli avrebbe portato a battere la Borsa: ad esempio, investendo nel gennaio 1938 in Generali si sarebbe realizzato al giugno 2012 un rendimento medio annuo reale (ossia netto dell’inflazione, ma senza i dividendi) del 4,2% contro una flessione del 2,2% medio annuo della Borsa; oppure in Italcementi (+1,5% medio annuo in termini reali) o Aedes (+0,8%), entrambi positivi, oltre che migliori rispetto alla media del mercato.

Ma sarebbe potuta andare davvero male scommettendo su Edison (-7% oppure -6,2%, a seconda dell’azione di partenza), sulle vecchie azioni del Gruppo Orlando (oggi Intek) rivenienti dalla vecchia SMI (-6,1%) o dalla vecchia GIM (-5,8%) o ancora sulle Bastogi (-6,9%) che è il titolo più longevo del listino, essendosi quotata nel 1863.

La lista dei rendimenti negativi (e inferiori alla media della Borsa) è lunga, coinvolgendo anche blue chip come Italmobiliare (ex Franco Tosi) con -3,9%, Pirelli & C. (ex Pirelli Spa o “Pirellona”) con -2,7%, Telecom Italia ex SIP con -2,8% o ex Stet (-2,6%). Sempre negativi (anche se oltre la media di mercato) Pirelli & C. (ex “Pirellina”) con -1,4% e Finmeccanica (-2,9%).

Listino, solo 1 su 4 in positivo: da inizio gennaio 2011 alla metà di ottobre 2012, periodo in cui la Borsa ha perso il 22,7%, appena un quinto dei titoli ha segnato variazioni di prezzo positive (56 su 271, il 21%) e ben un quarto (68) ha perso oltre il 50%.

Tra i migliori: Txt e-Solutions (+182%), Vincenzo Zucchi di risparmio (+164%), De’ Longhi (+88%), Lottomatica Group (+85%) e Fullsix (+80%). Tra gli andamenti più negativi, quelli di: Eukedos già Arkimedica (-99%), Seat PG (-91%), Sopaf (-91%), Fondiaria-Sai (-90%) e Arena (-89%).

Le blue chip e il “premio al rischio”: I rendimenti medi annui complessivi più elevati tra le azioni continuamente “in vita” dal 1984 sono di: Generali per le assicurazioni (+6,9% contro il 7,9% dei BTP); Intesa Sanpaolo ex Nuovo Banco Ambrosiano, unica tra le banche a battere i Btp, che con l’8,6% merita la palma di best performer secondo questa particolare classifica (meglio di Mediobanca con il +5,8% e UniCredit al +3,8%, entrambe sotto i BTP); nell’industria la sola Gemina ha tenuto il passo dei BTP, avendo reso il +8% in media annua (a seguire gli altri titoli longevi: Fiat 5%, Pirelli & C. 5,5% e Finmeccanica 0,7%). Fanalino di coda, insieme con Fondiaria-SAI (-0,8%) Telecom (la vecchia Olivetti), in negativo negli ultimi 28 anni e mezzo per un -2,1% medio annuo.

Borsa, la ritirata delle banche: dopo le turbolenze dei mercati che avevano ridotto il valore della Borsa Italiana a fine 2008 a circa 370 miliardi di euro (24% del Pil italiano), si è registrata una ripresa a 458 miliardi a fine 2009 (30% del Pil) e poi nuovamente una flessione ai 425 miliardi di fine 2010, ai 332 di fine 2011 ed ai 326 dello scorso giugno (21% del Pil).

A metà ottobre il valore si è portato a circa 358 miliardi di euro (23% circa del Pil).

Il settore industriale, confinato negli anni del boom bancario ad una quota che aveva toccato a fine 2005 la sua minima rappresentatività (56% della capitalizzazione totale), ha da lì iniziato una ripresa che lo ha portato a salire progressivamente (58% nel 2006, 61% nel 2007, 64% nel 2008, 65% nel 2009, 72% nel 2010, fino al 76% del 2011 ed al 77% del giugno 2012). Il peso delle banche si è dimezzato in appena cinque anni e mezzo, cadendo dal 32% del 2006 al 16% del giugno 2012, il minimo degli ultimi 15 anni.

Il monte dividendi di tutte le quotate ha toccato il valore più basso dal 2000: 13,8 miliardi di euro (-15,4%), con una ripartizione tra settori che ha sensibilmente avvantaggiato l’industria (87% contro 79%) a scapito tanto delle banche (dal 15% al 10%) quanto delle assicurazioni (dal 5% al 3%).

Sia il settore bancario, sia l’assicurativo rimangono assai distanti dai massimi toccati nel biennio 2007-2008, quando gli importi distribuiti erano all’incirca otto volte superiori. Tiene meglio l’industria, che ha staccato dividendi inferiori solo del 7%) attestandosi a 12 miliardi, comunque inferiori di un circa il 30% rispetto a quelli del 2008.

Le banche hanno rappresentato il 10,2% dei dividendi corrisposti nel 2012 rappresentando circa un sesto del valore della Borsa, ma nel 2008 gli istituti di credito erano arrivati a garantire quasi il 36% di tutti i dividendi pur avendo in Borsa un peso del 25%; e ancora nel 2007 avevano rappresentato quasi il 40% di tutti di dividendi pur valendo il 30% di tutta la Borsa.

I multipli, tra vecchi e nuovi equilibri: il rapporto tra prezzo ed utile per azione ha iniziato a cadere già nel 2007 (da 21,5x a 19,2x), essenzialmente per effetto del settore bancario che ha sperimentato per primo in quell’anno una discreta riduzione dei corsi (un -11% anticipatore delle prime avvisaglie di turbolenza), pur in presenza di utili non ancora intaccati dalla crisi.

Nel 2008 il multiplo è crollato a 14,4x, non per effetto delle banche, le cui quotazioni (-56%) si sono mosse di conserva con il crollo degli utili (-56%), ma per la flessione delle quotazione delle imprese industriali; esse hanno lasciato sul terreno oltre il 40% nell’attesa di scenari molto pessimistici anche per la manifattura, pur in presenza di utili 2008 solo parzialmente intaccati (-7% per i maggiori Gruppi), facendo cadere il multiplo del settore da 19,9x a 13,1x (-33,5%).

Con il 2009 l’andamento dei conti e la dinamica della borsa hanno cercato di riallinearsi dopo lo “scrollone” del 2008, ma ancora con “strappi” ed oscillazioni: le quotazioni delle banche sono cresciute del 27% circa, gli utili si sono ridotti in ugual misura (-25%) ed il p/e è salito a 21,3x (+27%), il livello più alto dal 2003; l’industria, da parte sua, ha visto il valore di borsa riprendersi del 25% circa, ma in presenza di utili 2009 ora in effettiva flessione (-37% circa per i Gruppi maggiori), con conseguente rialzo del P/E a 19,2x (+47%).

Alla sostanziale stabilità del 2010 è seguito una forte caduta nel 2011 (P/E da 21,1x a 16,4x), accentuatasi nel 2012 per le assicurazioni e le banche, con le industriali in controtendenza.

Bisognerà invece forse abituarsi a ratios strutturalmente più bassi (almeno per alcuni comparti) per quanto riguarda i P/BV (prezzo su patrimonio netto per azione): la caduta dei corsi a fronte di utili più contenuti deprime questo indicatore il cui denominatore (i mezzi propri) non può oscillare come gli utili: ecco quindi che dal 2008 l’indicatore si è ridotto ed ora pare assestarsi attorno a 1,5x/1,6x, al disotto del proprio livello di lungo periodo (1,8x) e lontano dai livelli del 2005-2007 stabilmente sopra 2x. Ciò pare coinvolgere molto pesantemente assicurative (0,6x a giugno 2012 contro una media di lungo periodo di 1,4x) e banche (0,6x contro 1,3x), quanto, meno intensamente, l’industria (1,4x contro 1,8x).

Nel 2012 appena due nuove quotazioni: nel 2011 sono uscite (delisting) dalla Borsa sei imprese a fronte di due sole quotazioni (Brunello Cucinelli e DeLclima), in attesa dell’Ipo Sea. Dal 1861, in media, si sono quotate ogni anno 6,5 società e se ne sono cancellate 4,8 con un saldo di poco meno di due società per anno.

Tra il 1951 ed il 1970 si sono mediamente quotati tre titoli all’anno ed altrettanti si sono cancellati, mantenendo la numerosità del listino invariata (circa 130 titoli).

Dal 1971 al 1985 a si sono avute in media cinque quotazioni e tre cancellazioni all’anno con un saldo positivo di due unità, mentre il boom si è avuto dal 1986: fino al 2000 le nuove iscrizioni sono state 18,5 all’anno, le cancellazioni sono pure aumentate a 10,7 unità, con un saldo ampiamente positivo (7,8 unità).

Dal 2001 al 2012, infine, le iscrizioni calano in misura non trascurabile (12,3 unità), a fronte di un ulteriore incremento delle cancellazioni (14,1 unità), con un saldo divenuto negativo (poco meno di -2 unità).

I dati dell’ultimo decennio sarebbero assai meno positivi senza l’effetto del travaso dal Mercato Expandi (ex Ristretto) che ha fatto confluire sul mercato principale 39 titoli nel 2009: senza di loro, ferme le 14,4 cancellazioni medie annue, le iscrizioni sarebbero appena 9,6, con un saldo negativo pari a 4,8 dal 2001.

La privatizzazione della Borsa? Dal 1998 ad oggi (senza l’effetto Expandi) ha prodotto un saldo netto positivo di una società all’anno, ma nei dieci anni precedenti (1986-1997, ma lo stesso varrebbe partendo dal 1980) il saldo era all’incirca quadruplo (+4 unità).

In termini cumulati, dal 1990 ad oggi (Tabella 7b) il listino si è impoverito di 20 unità, salvato dall’apporto (33 titoli, di cui 45 iscrizioni e 12 cancellazioni) dell’ex Nuovo Mercato senza il quale il saldo sarebbe negativo per 53 titoli.

Infine, i tre saldi netti negativi segnati nel 2003 (-13 unità), 2008 (-12) e 2009 (-11, senza l’effetto Expandi), senza considerare i più recenti -8 e -10 di 2010 e 2011, hanno pochi precedenti comparabili o peggiori in tutto il secolo scorso: nel 1934 (-13 unità), nel 1931 (-20), nel 1918 (-38 unità), nel 1910 (-11).

Poco sollievo è venuto da AIM e MAC, che attualmente contano oggi 16 e 13 titoli dalla capitalizzazione assai contenuta.

Raccolta, dopo un 2011 in tono minore forte ripresa nel 2012: nel 2011 sono stati realizzati aumenti di capitale per 12,5 miliardi, importo lontano dai massimi (17,5 mld. di euro nel 1999); assoluta le prevalenza degli istituti di credito (5 miliardi relativi a Intesa Sanpaolo, 2,15 al Monte Paschi, 2 al Banco Popolare, 1 a UBI Banca e 0,8 a Banca Popolare di Milano).

I primi sei mesi del 2012 confermano vivacità, con aumenti per complessivi 7,8 miliardi, da ascrivere quasi integralmente (96%) all’emissione di UniCredit (7,5 miliardi) e per la quota residua all’industria (0,3 mld).

Dal 1990 sono stati raccolti 156 miliardi di euro, il 56% dei quali dall’industria ed il 36% circa dal settore bancario. Quest’ultimo si è presentato sul mercato con insistenza dal 2008, raccogliendo 33,7 miliardi di euro (importo quasi doppio dei 17,1 miliardi dell’industria), pari a circa il 60% de totale raccolto dal 1990.

Nello stesso periodo, l’industria ha richiesto a titolo di sovrapprezzo una quota pari, in media, al 44,5% del capitale raccolto, contro il 71,4% delle assicurazioni ed il 50,4% delle banche.

Uno sguardo sull’estero

Borsa Italiana non guadagna posizioni: a fine 2002 la nostra Borsa era nona al mondo, con 458 miliardi di euro di capitalizzazione, circa il 50% del Pil di allora, un’incidenza non lontana da quella della borsa tedesca.

Ci superavano le grandi piazze nordamericane (Nyse, Nasdaq e Toronto) e quelle europee (Londra, borsa tedesca, il neocostituito Euronext che aveva riunito Parigi, Amsterdam e Bruxelles, come pure la borsa svizzera che ci aveva appena sopravanzato), oltre a Tokyo.

A giugno del 2012 troviamo la Borsa Italiana in 20esima posizione, principalmente in conseguenza del forte dinamismo delle piazze emergenti e del miglior andamento di alcune borse europee (Svizzera, Spagna) e del mercato australiano, come anche per il consolidamento di alcuni mercati singolarmente più piccoli del nostro (Stoccolma, Helsinki e Copenhagen riuniti nel 2005 nel Nasdaq OMX Nordic).

Dopo aver perso due posizioni sia nel 2003 che nel 2005 (a vantaggio, rispettivamente, di Hong Kong-Spagna e Australia-Nasdaq OMX Nordic) abbiamo assistito al sorpasso dei mercati del BRIC ed altri emergenti: nel 2007 da parte di Shanghai, Brasile e Bombay, nel 2009 di Corea e Russia (dopo un primo tentativo per entrambe nel 2007, neutralizzato nell’anno successivo) nonché di Johannesburg, nel 2010 di Taiwan.

Difficile recuperare posizioni: tali mercati sono mediamente, in termini di capitalizzazione, 2,9 volte quello italiano ed il loro vantaggio varia dal 63% (Taiwan) al 587% e 578% di Shanghai ed Hong Kong (che avevano peraltro sopravanzato già dal 2007 due piazze tradizionalmente di dimensioni considerevoli come Toronto e la borsa tedesca).

Vi è poi da considerare che, pur in un contesto di mercati finanziari difficili, la borsa italiana è stata da fine 2002 l’unica tra le principali 20 borse mondiali a contrarsi in termini di valore (-29%), laddove le altre piazze occidentali hanno registrato incrementi talora contenuti (Londra +17%, Nyse +20% Euronext europeo +31%) e per altre più marcati (Francoforte +45%, Zurigo +61%, Nasdaq +87%); tutti mercati peraltro surclassati dall’esplosione dei Paesi emergenti (Brasile +675%, Bombay +608%, Russia +596%, Shanghai +556%, Johannesburg +498%, Hong Kong +327%, Corea +292%).

L’effetto più evidente di queste dinamiche differenti è il moderato incremento del valore complessivo delle maggiori piazze mondiali (+69% nel decennio), quale somma dei 7.800 miliardi di euro per le economie mature (+40%) e i 7.700 generati da quelle emergenti (+391%).

Il peso delle borse delle economie mature si è conseguentemente ridotto dal 92% al 76% del totale ed in questo trend l’incidenza della Borsa italiana, già marginale a fine 2002 (2,4%), ha accusato una sensibile flessione a giugno 2012 (1%).

Rispetto al Pil, la Borsa italiana (21%) è la meno rappresentativa tra i principali 20 mercati internazionali: della nostra (20% contro 28%): ci precede Francoforte (44%), mentre tutte le altre sono oltre il 50% dei rispettivi Pil (Shanghai è al 31%, ma supera la metà del Pil grazie a Hong Kong). Il peso della Borsa Italiana sul Pil al giugno 2012 (20,7%) è tornato ai livelli del 1996, dopo il massimo del 2000 quando si sfiorò il 70% (Tabella 11).

E’ invece ai massimi storici l’incidenza dei mezzi propri, oltre il 28% del Pil (era l’8% nel 1986). Ne consegue, a giugno 2012, un rapporto tra mezzi propri e valore di borsa mai raggiunto dal 1986, 1,36x; livelli paragonabili si sono registrati solo nel 1992 (1,21x, ma allora la borsa valeva 85,5 miliardi di euro) e nel biennio 2009-2010 (1,07x e 1,15x).

E’ l’effetto, essenzialmente, della bassa valutazione riconosciuta dalla borsa ai mezzi propri delle imprese maggiori.

Ingressi e delisting: alla moderata crescita del valore delle borse mondiali fa riscontro una lieve espansione nel numero degli emittenti quotati, la cui consistenza (relativamente alle 20 principali Borse internazionali, oltre ai cinque mercati minori UE; è stata esclusa la Corea per indisponibilità dei dati necessari) è cresciuta nel decennio 2002-giugno 2012 del 7% circa, da 25.600 unità a circa 27.400 circa (+1.800 unità).

Anche in questo caso si evidenziano due andamenti differenti: +14% per le economie mature (acquisiti oltre 1.700 emittenti) e una sostanziale stabilità delle emergenti (+0,7%, per un centinaio di emittenti in più). Non tiene, in base a questo parametro, la Borsa Italiana (-12%) che fa peggio della media delle economie avanzate.

Esaminando l’incidenza delle nuove quotazioni e dei delisting nel decennio rispetto agli stock di titoli quotati ad inizio periodo, emerge che le nuove quotazioni hanno in media rappresentato circa il 53% delle consistenze iniziali, le cancellazioni il 52% e quindi in dieci anni i listini cambiano pelle all’incirca per metà dei loro componenti (Tabella 12).

Nel caso della Borsa Italiana, essa sembra avere mostrato una certa capacità di attrarre nuove quotazioni che hanno rappresentato il 40% dello stock iniziale, contro valori pari al 38% di Tokyo, al 33% della Germania, al 29% per il circuito NYSE Euronext europeo o al 17% della borsa svizzera, ma anche una minore capacità di trattenere le società che hanno poi abbandonato la nostra piazza nella stessa percentuale (52%), più di quanto non sia accaduto a Tokyo (30%), in Germania (37%), sul circuito Euronext (42%) o in Svizzera (23%).

Emergenti ad alta performance: nel periodo dal gennaio 2002 a metà ottobre 2012 (quasi 11 anni) gli indici di borsa dei mercati emergenti l’hanno fatta da padrone in termini di performance media annua (espressa in euro e senza i dividendi): Russia (+13,5% medio annuo che significa avere ottenuto 3,8 volte l’investimento iniziale), Russia (+13,1%) con valore finale 3,6 volte l’investimento, e a seguire Johannesburg (+12,1%), Brasile (+11,8%) e borsa coreana (+7,7%), che hanno tutte recuperato oltre 2 volte l’investimento di inizio 2002.

Le uniche piazze di economie mature ad avere garantito un rendimento medio annuo positivo dal 2002 sono state quella australiana (+5,4%), la borsa danese (5,3%), Toronto (+4,9%), la borsa svedese (+3,3%) e Zurigo (+1,5%); anche il Nasdaq (+0,5%) e, seppur marginalmente, Francoforte (+0,1%) sono entrate in territorio positivo, battute però da Singapore (+5,8%).

La Borsa italiana, in negativo per una media annua pari al 5,9%, è maglia nera; ha fatto paggio di Helsinki (parte del Nasdaq OMX Nordic, -5,1%), delle due principali piazze dell’ex Euronext (Amsterdam -4,7%, Parigi -2,1%), come di Londra (-1,4%), Madrid (-1,3%) e New York (-1,2%).

Non tutto il quotato viene scambiato: nella media del decennio 2002-2011 il Nasdaq si conferma il mercato di gran lunga più attivo in termini di scambi misurati dall’indice di rotazione (rapporto controvalore scambi/capitalizzazione complessiva): 5,6 volte contro 1,94x della Corea e 1,70x della Germania.

Il Nasdaq è invariabilmente dal 2002 il mercato più liquido, anche se l’eccezionale performance media si è manifestata particolarmente dal 2007 in avanti, con valori medi di 8,5 e una punta nel 2008 (14,7x).

Sotto questo profilo, la Borsa italiana si colloca immediatamente dopo la Germania, con un multiplo medio nel periodo pari a 1,68x che la pone, seppur di poco, davanti alla Spagna (1,55x), a New York (1,43x), come anche a Tokyo (1,19x), ex OMX (1,16x), ex Euronext (1,14x) e Londra (1,12x). I grintosi e rampanti mercati emergenti sono assai illiquidi: 0,06x il multiplo della Borsa russa, 0,28 quello di Bombay, 0,39 per Johannesburg, 0,5 quello brasiliano.

Un po’ meglio Hong Kong (0,62x), mentre le sole Taiwan (1,58x) e Shanghai (1,22x) paiono in linea con la media generale dei principali mercati (1,55x).

I multipli: il rapporto P/E del settore assicurativo europeo segna un livello di lungo periodo (media decennale) pari a 14,3x, inferiore a quella del mercato italiano pari a 18,6x.

Nel 2011, a fronte di quotazioni ancora basse, il P/E si è attestato ben al disotto del livello di lungo periodo (11,9x), una situazione, questa, non dissimile da quanto accaduto negli Stati Uniti, con un multiplo appena più elevato (12,4x), seppure meno distante dalla media decennale (14,7x).

Analogamente, il settore bancario europeo ha sperimentato nel 2011 un P/E notevolmente compresso (8,4x), paragonabile a quello dell’annus horribilis 2008 (7,1x) e ben distante dalla media del decennio (12,9x); negli Stati Uniti, per contro, durante lo sviluppo della crisi bancaria i multipli hanno inizialmente mantenuto una notevole stabilità (tra 18,1x e 20x negli anni dal 2007 al 2009), per poi accusare una forte caduta tra 2010 (14,6x) e 2011 (10,1x).

Anche i ratio industriali appaiono generalmente in flessione nel 2011, sia in Europa che negli USA. Il P/E è mediamente più elevato negli Stati Uniti che in Europa (media decennale pari a 18,6x contro 15,1x), soprattutto per la più generosa valutazione di banche (15,9x contro 12,9x) e industrie (20,7x contro 16,2x) e trova corrispondenza in dividend yield mediamente più elevati nel nostro continente (3,5% contro 2,5%).

Il P/BV pare anch’esso cronicamente più elevato negli Stati Uniti. Da segnalare in ogni caso il trattamento particolarmente severo che pare emergere dal P/BV delle banche sia europee che USA, ben di rado superiore all’unità dal 2008 in avanti.

Sia in Europa che negli Stati Uniti (e come già visto anche per l’Italia), il rapporto P/BV bancario segna comunque un break strutturale rispetto ai livelli prevalenti prima del 2008.

Le Borse Spa: le società di gestione delle Borse, proseguendo il recupero iniziato nel 2010, sembrano avere del tutto neutralizzato gli effetti della crisi manifestatasi nel 2009.

L’aggregato di otto tra le maggiori società (NYSE Euronext, Tokyo, Nasdaq OMX, London Group, Deutsche Boerse, Hong Kong, SIX Group-Svizzera e BME-Spagna) segna un’ulteriore espansione del fatturato nel 2010 pari al 4%, da 10 a 10,7 miliardi di euro (livello superiore al 2008); la negoziazione titoli la voce di ricavo con i miglioramenti più marcati. In recupero Borsa italiana (i cui dati economico patrimoniali, riferiti alla sola capogruppo, non includono le controllate Cassa di Compensazione e Garanzia, MTS e Monte Titoli), che vede incrementarsi i ricavi del 4,5% a 164 milioni di euro e ancora ridursi la quota sul consolidato London Group al 17% (dal 21%).

Il contenimento dei costi operativi (-3,7%) dà un ulteriore contributo alla crescita del margine industriale, che sale del 31%. Grazie al notevole miglioramento del saldo delle partite straordinarie (+355 milioni di euro), che ha ammortizzato l’inasprimento del carico fiscale (+345 milioni di euro), il risultato netto è salito del 43%. Il ROE è cresciuto dal 15,2% al 21,8%, livello analogo al 2005 e secondo solo a quelli (superiori al 30%) del biennio 2006-2007.

Il solo Tokyo Stock Exchange ha accusato una flessione del risultato netto (-23%); gli utili delle restanti società di gestione sono tutti in progresso, particolarmente quelli di London Group (più che triplicato, principalmente per effetto di rilevanti proventi straordinari) e Deutsche Boerse (raddoppiato soprattutto a seguito del dimagrimento dei costi operativi) e Nasdaq OMX (+60%). Bene anche Borsa italiana, con utile netto in crescita di circa un terzo come il SIX Group.

Quanto ai dipendenti, dopo un biennio di stabilità il loro numero ha mostrato un incremento apprezzabile (+5%), sostenuto da tutte le società di gestione esaminate anche se solo London Group (+24%) e Hong Kong Exchanges (+13%) hanno presentato tassi di crescita superiori al 4%. In termini di occupati Borsa italiana, numericamente stabile, rappresenta ora appena l’11% (nel 2010 era il 14%) del London Group.

La struttura patrimoniale evidenzia mezzi propri in crescita del 5,5% a fronte di un valore di Borsa, relativamente alle sole quotate (non sono negoziati i gestori delle piazze di Tokyo e della Svizzera), cresciuto del 17%.

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