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Viesti: “Lo smart working può cambiare il lavoro al Sud”

INTERVISTA A GIANFRANCO VIESTI, Ordinario di Economia applicata all’Università di Bari – Lo smart working sta diventando South working e ha già riportato al Sud 45 mila lavoratori : “E’ un fenomeno interessante che rimescola le carte: per due motivi” – “Se i numeri diventeranno significativi, l’impatto sul Mezzogiorno potrà essere rilevante” – Il caso di Otranto

Viesti: “Lo smart working può cambiare il lavoro al Sud”

Sono numeri piccoli, ma di quelli molto significativi e che spingono gli analisti del settore ad approfondirli. Stiamo parlando dei 45 mila lavoratori, in massima parte giovani, che dall’inizio della pandemia sono tornati al Sud dal Centro-Nord e che continuano a lavorare da casa. Smart working che diventa South working. Di loro si è occupata in un rapporto la Svimez, specialista in studi sul Sud, che lo presenterà martedì 24 novembre. Il lavoro è stato realizzato in collaborazione con l’organizzazione appena fondata da una di questi lavoratori a distanza, Elena Militello, giovane studiosa che è tornata in Sicilia, da dove continua a lavorare per la sua università, la Bocconi. Il movimento si chiama appunto “South working- Lavorare dal Sud”. Sarà questo il nuovo modo di lavorare nel nostro Paese una volta che la pandemia sarà finita? Ne parliamo con Gianfranco Viesti, economista, professore ordinario di Economia applicata all’Università di Bari, che dello studio sul Mezzogiorno ha fatto una delle ragioni della sua vita accademica e professionale.

Professor Viesti, cosa pensa di questo fenomeno di smart working che diventa South working?

“Che rimescola le carte ed è molto interessante. Per due motivi. Primo: perché i movimenti dei giovani ad alta qualificazione sono decisivi per lo sviluppo del Paese. Secondo: perché il Covid cambierà profondamente la nostra società. Sebbene sia difficile dire cosa cambierà, se tuttavia dovessimo scommettere, di sicuro la diffusione del lavoro a distanza sarà una cosa delle cose più probabili che potrà succedere”.

Possiamo parlare di un nuovo Sud?

“Può essere un pezzettino di un nuovo Sud. I numeri sono significativi, ma non enormi. Quindi sicuramente sovrastimare il fenomeno sarebbe sbagliato. Però allo stesso tempo, se si dovesse diffondere permanentemente il lavoro a distanza, i numeri potrebbero crescere. E poiché il fenomeno riguarda soprattutto il terziario avanzato, questo è particolarmente interessante per lo sviluppo del Paese.”

Si potrebbe riassumere dicendo quindi che i cosiddetti cervelli in fuga tornano a casa?

“Avere persone che vivono al Sud, ma che lavorano per aziende esterne è una condizione ibrida perché nel vecchio mondo uno stava dove lavorava. Diciamo che avere persone che fanno il loro progetto di vita qui al Sud, mettendo su famiglia e tutto il resto, è di grande interesse. Certamente essi lavorano per altri, ma vivono nei nostri luoghi e possono dare un contri buto non solo di reddito, ma anche di partecipazione alla vita collettiva.”

Le imprese sembra ci credano…

“Su questo tema c’è una tempesta di analisi in tutto il mondo. Quello che possiamo dire è che il tema è rilevante e che ci si sta pensando seriamente. Ci sono pro e contro naturalmente. Immaginare che si possa lavorare solo a distanza è molto difficile, però è altrettanto difficile che tutto possa tornare come prima, cioè tutti insieme nei grandi uffici. E’ possibile che avremo delle soluzioni ibride. Bisogna capire se queste soluzioni ibride siano compatibili con il fatto che un lavoratore stia a molti chilometri di distanza dal suo luogo di lavoro. Tutto può essere però, il tema merita senz’altro attenzione”.

E’ destinato a durare quindi secondo lei…

“Quel che leggo di analisi sulle imprese e sui lavoratori in tutti i Paesi, durante la prima ondata della pandemia e dopo, ci porta a dire che non è un fenomeno passeggero. Potrebbe magari rimanere non con la stessa quota sviluppatosi durante la pandemia, ma una quota significativa resterà, perché se gli effetti sulla produttività sono incerti, non è detto che la produttività si riduca, anzi potrebbe perfino aumentare. Quanto agli effetti sui costi per le imprese essi sono chiaramente minori e quindi significativi, così come quelli sul benessere per i lavoratori. Ci può essere dunque una convergenza di interessi che può consolidarsi.”

Può interrompere quella è stata definita la deaccumulazione del capitale umano che ha desertificato il Mezzogiorno in questi lunghi anni privandolo dei suoi giovani migliori?

“Dipende da quanto il fenomeno può diventare grande. Molto difficile immaginare che si possa rimanere a casa sempre. Le analisi di studiosi americani e europei ci dicono che ci si orienta verso forme miste. Per esempio si può lavorare 1 giorno o 2 a settimane fuori dalla propria città e poi tornare. Bisogna capire però quanto questo sia compatibile con le grandi distanze. E’ anche questo che influenzerà i numeri dell’operazione.”

La domanda delle domande per uno studioso di Mezzogiorno: tutto ciò risolve la questione meridionale?

“Assolutamente no. Ma siccome il ruolo di queste persone è particolarmente importante nell’economia contemporanea, se i numeri diventano significativi può avere un impatto non irrilevante. Si può anche immaginare un passo ulteriore. Come è il mondo oggi? Le società del terziario avanzato hanno i loro quartier generali nei quali lavorano centinaia se non migliaia di persone tutte insieme. Si può immaginare che questo enorme numero di lavoratori si possa dividere e che quindi la grande impresa in questione possa averne 200 a Milano, 500 a Roma, 200 a Napoli ecc.. Perché una volta che i collegamenti fra le persone diventano una modalità di lavoro ordinario, si può anche immaginare che i lavoratori non siano monadi isolate, ma che ci siano gruppi decentrati nella varie città e che quindi si resta insieme pur lavorando a distanza. Ci sono alcuni elementi che possono influenzare questo fenomeno. Il primo è sicuramente normativo. Serve una definizione di norme che siano eque sia per le imprese sia per i lavoratori. Mi riferisco agli aspetti contrattuali tipo buoni pasto, orari di lavoro, reperibilità; cioè tutti questi aspetti normativi che se ben disegnati favorire il fenomeno, se mal disegnati contrastarlo. Il secondo è l’elemento retributivo, molto delicato. Noi sappiamo che nella legge di bilancio è stato previsto lo sgravio contributivo per molti anni, seppure calante ,sui lavoratori del Mezzogiorno. Bisognerà capire se essi rientrano o meno nello smart (o South) working e se prevale la sede dell’impresa o la sede dei lavoratori. Anche questo può favorire il fenomeno, ma può anche dare adito a imbrogli e quindi in definitiva contrastarlo. Il terzo elemento chiama in causa i Comuni, tutti i Comuni, anche quelli di minore dimensione che potrebbero favorire questo fenomeno attraverso la realizzazione di spazi comuni di lavoro. Il coworking, cioè l’utilizzo di uffici in comune con altre aziende, può essere una buona mediazione fra lo stare a casa e lo stare in sede. Faccio l’esempio della Fiera del Levante, dove abbiamo sperimentato il modello parecchi anni fa. I pionieri raccontano che l’esperienza sta andando benissimo e che, essendo cresciuta moltissimo la domanda delle aziende, stanno cercando altri spazi.”

Un esempio di Comune apripista su questo tema è Otranto, che ha messo a disposizione a chiunque voglia fare smart working i propri spazi pubblici affittandoli a 1 euro al giorno.

“Esatto, proprio quello che intendevo. I Comuni potrebbero incrociare l’affido degli spazi pubblici con politiche urbane utili, per esempio, a rivitalizzare alcuni quartieri o i piccolo borghi. E anche con politiche di mobilità, se si mette loro a disposizione autobus, piste ciclabili. Questo tema dei luoghi pubblici può essere interessante anche per aziende che stanno al Sud, perché anche di esse ci dobbiamo occupare. In queste aree di coworking puoi mettere insieme per esempio lavoratori di Andria che lavorano a Andria, altri di Andria che lavorano per Milano ecc. Spazi pubblici ne abbiamo e anche di bellissimi. Ma le amministrazioni comunali e regionali dovrebbero muoversi subito: così si disegna la città futura e il ruolo di chi la vive”.

A proposito della pandemia: in settembre lei si era espresso in maniera positiva sul comportamento dell’Italia a proposito del controllo della pandemia. Ha cambiato idea?

“No. Perché non bisogna dimenticare che la nuova ondata del Covid è stata fortissima, e ha colpito tutta l’Europa allo stesso modo, non solo noi. Si poteva fare di più, ovvio; ma la verità è che è questo virus è una piaga biblica. Noto solo che non bisogna esagerare drammatizzando e spaventando. Bisogna dare speranza, raccontare le storie positive con una comunicazione equilibrata. Io faccio ogni giorno il mio bollettino personale fondato sul numero dei ricoverati, maggiori della primavera scorsa. Ed esso mi dice che abbiamo dato una sterzata. Io uso il tasso di crescita dei ricoveri che è stato a lungo del 6% al giorno, vale a dire che dopo 12/13 giorni esso raddoppia; negli ultimi giorni è ampiamente sotto il 2%. Il che significa che per raddoppiare ci metterà 30/40 giorni, il che ti dà più respiro. Il fatto che nelle Regioni che sono state colpite prima i ricoveri hanno cominciato a scendere è la prova del calcolo. Sta accadendo nel Lazio, Regione faro, la prima a essere colpita, in settembre dove da alcuni giorni ci sono meno ricoveri. Bisogna essere cauti, ma la tendenza c’è. Non voglio fare sconti a nessuno, ma la velocità di contagio è stata spaventosa: vedi quello che è accaduto in Austria, Svizzera, Francia. La questione è che questa seconda pandemia si aggiunge alla prima e questo è duro da sopportare, si capisce. Ma è anche vero che rispetto alla primavera adesso l’economia è meno colpita e il vaccino è vicino. Ecco perché continuo a rimanere fiducioso nelle nostre possibilità.”

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