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Varaldo su startup e innovazione: “Sì alla centralità del manifatturiero, purchè si rinnovi”

Un saggio di RICCARDO VARALDO, della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa – “Tutti i grandi Paesi avanzati, a partire dagli Usa, hanno in atto politiche di reindustrializzazione e di rientro nel paese di realtà produttive delocalizzate nei PVS. Ma nel contempo sta crescendo la consapevolezza che il manifatturiero deve profondamente rinnovarsi”

Varaldo su startup e innovazione: “Sì alla centralità del manifatturiero, purchè si rinnovi”

Premessa

Con la crisi è in atto un profondo depauperamento dell’industria, del tessuto imprenditoriale e dei territori del nostro paese. Il depauperamento è un qualcosa che va oltre la chiusura di imprese marginali per effetto di una naturale selezione del mercato. È un fenomeno molto più grave come rilevanza e impatto.

Se non si corre ai ripari il destino dell’Italia come grande paese manifatturiero è messo a rischio.

In una seconda parte del mio intervento cercherò quindi di guardare al futuro, ad un futuro sfidante, più impegnativo ma più denso di prospettive e potenzialità di incidere.

Ci siamo illusi negli ultimi anni che la vocazione manifatturiera costituisse una sorta di difesa naturale per l’economia italiana contro la crisi economica mondiale.

Oggi questo atteggiamento troppo fideistico, troppo legato al vissuto manifatturiero accu-mulato nel tempo, è messo in discussione.

Ma è giusto che si confermi e si rafforzi la convinzione che l’Italia debba affidare anche per il futuro la sua economia all’industria manifatturiera. Tutti i grandi paesi avanzati, a partire dagli U.S., hanno in atto politiche di reindustrializzazione e di rientro nel paese di realtà produttive delocalizzate nei PVS. Ma nel contempo sta crescendo la consapevolezza che: il manifatturiero deve profondamente rinnovarsi; le imprese sono chiamate a grandi sforzi di ristrutturazione; c’è bisogno di una ventata di innovazione imprenditoriale, tramite la nascita di un tessuto di imprese di nuova gene-razione.

Il rinnovamento imprenditoriale può avvenire in essenza secondo un processo bottom-up , quello tipico della fase del miracolo economico del secondo dopo guerra.

Carlo De Benedetti nel suo recente pamphlet “Mettersi in gioco” rileva che nella guerra economica globale gli attori “saranno gli Stati, ma soprattutto le città, i territori, le zone capaci di attrarre investimenti e iniziative imprenditoriali”.

L’Italia, la Toscana hanno bisogno di una nuova era di Rinascimento imprenditoriale, partendo dal basso (bottom-up), secondo dinamiche per cui i territori, i distretti e le banche locali possono essere protagonisti.

Una distruzione non creatrice

La crisi sta operando una selezione spinta (una vera e propria rottamazione) nel tessuto delle imprese, in particolare di quelle piccole che sono più fragili ed hanno meno mezzi per sopravvivere.

Le ragioni sono molte:

– vari settori sono in crisi di sovracapacità produttiva (auto, moto, elettrodomestici, ecc.), dato che l’offerta, con l’entrata in campo dei grandi Paesi emergenti, è aumentata velocemente e la domanda non si è sviluppata in proporzione (squilibrio strutturale dei mercati). Il rientro da questi squilibri sarà lungo e doloroso;

– la domanda è stagnante o in calo in Italia e in Europa;

– è in atto un calo generalizzato dei consumi a causa di una reale contrazione del potere di acquisto delle famiglie. L’ISTAT: la capacità di acquisto delle famiglie è scesa al minimo dal 2000. Ben il 61% degli Italiani hanno tagliato la spesa per beni di consumo nei supermercati.

Non si può semplicemente parlare di riduzione dei consumi. E’ in atto un vero e proprio cambio di paradigma dei consumi che riguarda gli stili di vita e le abitudini di consumo.

Si sta formando una nuova maturità, una nuova cultura e una nuova etica del consumatore con l’affermarsi di uno stile di vita più sobrio, essenziale, attento alla qualità e ad evitare sprechi.

Questo paradigma sembra ormai in grado di auto-alimentarsi: è infatti diffuso anche tra coloro che non hanno subito la crisi.

La ripartenza dei consumi all’uscita dalla crisi sarà molto graduale, ma anche diversa nella tipologia dei consumi e nelle preferenze di prodotto (Effetto discontinuità della crisi).

Le imprese dovranno capire e rendersi conto che:

– la domanda è più selettiva nella spesa: i consumatori sono più oculati;

– la domanda è mutevole: cambiano i consumatori, i clienti e cambiano le loro esigenze;

– la domanda è più elastica al prezzo (più concorrenza di prezzo);

– la domanda è più saggia (ponderata): si cambia un bene di investimento solo se è disponibile un prodotto veramente nuovo (per le moto: meno consumo di carburante; meno inquinamento; minori costi di acquisto e di esercizio);

– la domanda è più informata (effetto web).

La crisi è severa ma cresce la fiducia nel futuro

La crisi sembra non finire mai (una crisi che dura; è una crisi strutturale e non solo congiunturale).

L’uscita dalla crisi continua ad apparire lontana; più di tre italiani su quattro si attendono che duri almeno altri tre anni; ciò vuol dire che gli italiani si aspettano di tornare ai livelli pre-crisi soltanto nel 2015-2016.

Ma ritornare ai livelli pre-crisi per l’Italia è troppo poco; non serve per recuperare il deficit di crescita, di cui soffriamo.

Occorre qualcosa di più e di diverso del recupero della situazione ex-ante la crisi.

Sembra che gli italiani dimostrino una grande capacità di capire questo impegno.

Dalla recente indagine ACRI-IPSOS sugli Italiani e il Risparmio, realizzato in occasione della Giornata Mondiale del Risparmio (31 ottobre) emerge una indicazione di per sè sorprendente, che fa ben sperare.

Gli Italiani stanno capendo che “lo sforzo di superare la crisi e le difficoltà che ne derivano ha un senso e potrebbe essere il prezzo da pagare per un futuro migliore. È sul futuro che conviene investire piuttosto che sulla qualità della propria vita attuale: la pensano così il 57% degli italiani; erano il 55% nel 2011 e il 54% nel 2010”.

Quest’atteggiamento è molto accentuato nel nord-est, la zona più dinamica come imprese: qui il 68% dei cittadini ritiene prioritario investire nel futuro; lo scorso anno erano il 59%.

Sta crescendo la fiducia sulle prospettive future dell’economia europea, dell’economia mondiale ed in parte anche nell’economia italiana.

Differenze tra le varie aree del paese; la fiducia decresce andando verso il sud; in Toscana temo che la fiducia nel futuro non sia particolarmente elevata.

Per la crescita occorre ricostruire una fiducia nel futuro e quindi operare per dare sostanza alla fiducia e al futuro. Un modo è quello di trasferire e ridare fiducia agli imprenditori che hanno voglia di investire sul futuro e promuovere, con i mezzi opportuni, la nascita di nuove imprese innovative, a base tecnologica. E’ questa la missione della Fondazione Ricerca & Imprenditorialità, a cui oggi sto dedicando le mie energie.

Dalla rottamazione al rinascimento imprenditoriale

La rottamazione di imprese comporta sempre un depauperamento del sistema economico se non è compensata da processi di innovazione.

L’Italia è poco preparata e attrezzata per meccanismi di distruzione creatrice alla Schumpeter perché soffre di un deficit di innovazione.

Si rimedia alla rottamazione solo con:

1) Innovazione tecnologica;

2) Innovazione imprenditoriale;

3) Innovazione tecnologica + innovazione imprenditoriale = start-up tecnologiche.

Le speranze sono riposte:

– nelle poche grandi imprese operanti in settori chiave (Enel, Eni, Finmeccanica, Fiat. Pirelli);

– nelle medie imprese rappresentative della parte più dinamica e internazionalizzata del made in Italy;

– nelle piccole imprese eccellenti, specializzate in campi della manifattura;

– nelle nuove imprese innovative a base tecnologica (Decreto sviluppo del Governo).

Il rinnovamento imprenditoriale è un fenomeno non solo di anagrafe degli imprenditori (anche se c’ è questo problema) ma di rinnovamento generazionale, con la nascita di una nuova classe di imprenditori, figli dell’era della digitalizzazione e della globalizzazione:

– con una maggiore cultura (aperta, dinamica, internazionale) e un più elevato livello di formazione (apertura mentale oltre che più conoscenza);

– più disponibili e capaci di fare squadra (team), di imparare ad acquisire nuove conoscenze, fare nuove esperienze ecc.

Deficit di innovazione

L’Italia possiede una buona capacità di ricerca e di produrre risultati scientifici, documentata dagli indicatori internazionali sulle pubblicazioni scientifiche.

Ma soffre di una ridotta e troppo limitata capacità di trasferire e trasformare gli output di ricerca in innovazioni di prodotto, processo, servizio.

Per cui è agli ultimi posti nel ranking dei paesi per livello di innovazione.

La conseguenza è: una ridotta produttività degli investimenti in ricerca pubblica; uno spreco di patrimonio cognitivo e intellettuale; un basso livello di innovazione industriale.

Abbiamo troppo poca ricerca industriale con troppo poche (grandi) aziende che fanno ricerca (73% concentrato in poche grandi aziende).

La crisi può portare a irrigidire queste differenze con gli altri paesi e a farle diventare irrecuperabili.

Queste differenze hanno pesato sulla ridotta capacità di crescita dell’Italia e sono destinate a pesare sempre di più nel futuro.

Se non si interviene sull’innovazione in Italia non è possibile attivare un motore della crescita.

Anche le riforme adottate dal governo Monti rischiano di avere poca efficacia se non si opera un rinnovamento imprenditoriale , con leva l’innovazione tecnologica.

Questi due obiettivi si possono perseguire: creando spazi e rendendo ospitale l’Italia per la nascita e la crescita di spin-off e start-up anche attirando in Italia giovani talenti imprenditoriali dall’estero, in specie dai nuovi paesi emergenti.

Nel 2011 negli Stati Uniti le richieste di visti di migranti-investitori (devono essere disponibili a investire almeno un milione di dollari in una nuova impresa e a creare almeno dieci posti di lavoro) sono pervenute per il 75% dalla Repubblica Popolare Cinese.

Nel 2012 il Canada ha introdotto una quota simile per l’immigrazione di 700 persone, che è stata esaurita in una settimana e quasi tutta (697 persone su 700) da cinesi.

Limiti e prospettive della politica industriale

L’Italia è ferma ad una visione centralistica e rinunciataria della politica industriale, imperniata sul salvataggio delle grandi aziende in crisi e su interventi spot, al di fuori di un quadro di indirizzo preciso e stabile.

La politica industriale deve essere destatalizzata cioè portata a più diretto contatto con i protagonisti sul territorio. Innanzitutto perché, al di là di ogni altra considerazione di merito, il bilancio pubblico non consente di allocare fondi per interventi a salvataggio delle imprese. In secondo luogo, perché l’industria oggi si fa con il contributo di una pluralità di soggetti. Le parti sociali devono fare la loro parte e attraverso nuove forme contrattuali dimostrare di sapere contribuire alla creazione di valore industriale sul territorio. Le università a loro volta devono essere più aperte verso le applicazioni degli output della ricerca e curare di più la responsabilità per le loro performance, dotandosi di indicatori appropriati.

La politica industriale va anche dematerializzata, dato che le infrastrutture immateriali oggi giocano un ruolo chiave nella costituzione di contesti per la competitività e l’innovazione:

– la crescita non si produce più naturalmente o automaticamente come una volta;

– la rivitalizzazione dell’industria e la creazione di nuovi posti di lavoro sempre più dipendono dalla condivisione e dallo sviluppo di nuovi prodotti e nuovi mercati per soddisfare bisogni non conosciuti (nuovi bisogni) e bisogni pubblici o personali non soddisfatti;

– tale creazione di valore economico avviene tramite: la percezione di nuove opportunità di business (nuovi bisogni) e il loro perseguimento;

– è tutto questo ciò che gli operatori e gli studiosi hanno in mente quando parlano di “bisogno di imprenditorialità”.

Il Governo nazionale deve favorire gli sforzi che vengono dal basso e dai territori, con una logica selettiva e premiante detassando o riducendo il cuneo fiscale.

In questa prospettiva la politica industriale diventa una cornice leggera, mentre il quadro è dato dall’attivismo a livello locale. È questa la linea più moderna, adatta all’economia della conoscenza.

Una sfida per i territori: puntare sulle start-up

Valorizzare attraverso l’innovazione le specificità del territorio e quindi i punti di forza, le vocazioni, le risorse e le strutture esistenti, le unicità locali.

Creare un ecosistema locale dell’innovazione favorevole e ospitale per le start-up con una capacità di aggregare, attorno ad un progetto serio e fondato, una pluralità di attori pubblici e privati (università, associazioni, camere di commercio, imprese esistenti, banche locali, acceleratori e incubatori, finanziatori).

Attrarre e motivare giovani talenti con attitudini e passioni imprenditoriali, e capacità crea-tive, dall’Italia e dall’estero per inserirli come attori nel progetto e coinvolgerli, in modo organico e credibile, nella sfida per un futuro migliore.

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