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Universal sbanca ad Amsterdam: +35% al debutto

Al primo giorno di quotazione Universal Music Group mette a segno un clamoroso rialzo rispetto al prezzo dell’Ipo. La capitalizzazione scavalca i 45 miliardi. E secondo gli analisti può salire ancora

Universal sbanca ad Amsterdam: +35% al debutto

I cieli dei mercati promettono tempesta. Ma gli analisti sono comunque fiduciosi: la musica avrà ragione dei mattoni cinesi di Evergrande. 

Stamane, ha debuttato alla Borsa ad Amsterdam la più importante Ipo europea dell’anno: l’offerta dei titoli di UMG, che sta per Universal Music Group, colosso che, tra l’altro, rappresenta più di 2 mila artisti in tutto il mondo. Il gruppo ha registrato un balzo del 35% con una capitalizzazione superiore 45 miliardi a fine mattinata.

L’offerta è avvenuta al prezzo di 18,50 euro per azione che equivalgono ad una valutazione di Borsa di 33 miliardi di euro, la stessa pagata dai nuovi soci entrati negli ultimi mesi. Ma gli analisti scommettono che quando una grossa parte dei titoli, il 60%, verrà ceduta da Vivendi ai suoi azionisti, il titolo, sotto la spinta della prospettiva di un ebitda in forte crescita e di una prepotente crescita degli utili (+20% giù alla fine di quest’anno) prenderà il volo. Secondo   JP Morgan la capitalizzazione della multinazionale che controlla circa il 40% del mercato mondiale è destinata a salire fino a 54 miliardi di euro per la gioia dei soci vecchi e nuovi, ed in particolare di Vincent Bolloré che intascherà subito la bellezza di 5,9 miliardi di euro, un tesoretto che non resterà certo inoperoso. Il finanziere brètone, ancor prima dell’Ipo, si è già lanciato alla conquista dell’impero dei media di Lagardère, assicurandosi il controllo con 700 milioni circa pagati ad Amber, in attesa dell’Opa per conquistare la casa madre di Canal Plus.

Ma la scena oggi è tutta per Universal, una delle tre sorelle che controllano il mercato mondiale della musica, risorto dopo le varie crisi legate alla fine dei dischi in vinile prima, dei cd poi e ad un passo dall’estinzione sotto la spinta della pirateria, limitata, se non sconfitta, dagli accordi sullo streaming e dallo sfruttamento a tutto campo della scena musicale, dai concerti ai diritti degli artisti. Al punto che Bolloré si è trovato, grazie all’abilità di un genio del settore, il pdg Lucian Grainge, scopritore di talenti rock e pop, una sorta di gallina dalle uova d’oro che ha in catalogo Paul McCartney, i Rolling Stones ma anche Eminem o Selena Gomez,  Lady Gaga e Taylor Swift spaziando dall’hard rock fino alla musica latina che monopolizza, pubblicità compresa, le emittenti ispaniche del Sud America ma anche di El Paso, Los Angeles, Miami o dei quartieri portoricani della Grande Mela. È stato lui a guidare la creazione delle alleanze vincenti con le radio Usa e Spotify, Amazon ed Apple Music. 

E così il patron di Vivendi, a suo tempo distratto dall’infruttuosa guerra per la conquista di Mediaset, si è trovato tra le mani una miniera da valorizzare con una variopinta compagnia composta dal colosso Internet cinese Tencent cui ha venduto il 20%, conservando per sé una quota del 18% e cedendo al finanziere d’assalto Usa Bill Ackman un altro 10%. Il resto, dopo la vana protesta di una compagnia di hedge fund americani, finirà nelle tasche dei soci. Salvo il nucleo duro che, forte di una partecipazione del 10% ancora in mano a Vivendi, guiderà i primi passi della neonata public company che fin d’ora può fregiarsi del titolo di affare del secolo: nel 2014, infatti l’intera Universal valeva 7 miliardi di euro, più o meno un quinto della valutazione attuale. E non ci si stupirà, a questo punto, se qualche buontempone saluterà la prima chiusura cantando “Money, money” degli Abba.

Il prospetto di ammissione in Borsa (306 pagine) offre più di una ragione per capire l’apprezzamento dei mercati: nel 2020, anno della pandemia, il giro d’affari è cresciuto del 3,8% ma l’anno prima il balzo era stato del 18,8%. E quest’anno, incurante della variante, la voglia di musica ha riconquistato posizioni, in attesa di ripopolare una volta per tutte le piazze. Con o senza mascherina. Tra le ragioni del successo la capacità di inseguire i gusti di ogni tipo, locali e/o globali. In catalogo ci sono le star cinesi e quelle coreane, indiani e nigeriani o il sound del Sud Africa. Metà degli artisti operano negli Usa, il 30% in Europa, il 14 % in Asia.  I rischi? La tecnologia, si lamentano nel prospetto i vertici, non ci offre ancora strumenti per captare in breve tempo gli orientamenti del pubblico, così come non è facile prevedere la prossima evoluzione tecnologica di un settore in costante evoluzione: lo streaming oggi rappresenta il 62% (pari a3,9 miliardi di fatturato) “ma non è chiaro se la crescita sarà sufficiente a compensare il calo dei cd e di altre tecnologie”.

Il tallone d’Achille è la dipendenza dalle piattaforme, da Spotify a Deezer che, a suon di logaritmi possono decidere la fortuna o la disgrazia di una star. E poi c’è la concorrenza di nuovo tipo: autori che si gestiscono da soli oppure, come il caso di Bob Dylan, vendono il proprio catalogo a prezzi d’autore. E che dire dei private equity che cercano di lanciare nuove voci e nuove tendenze?

Non è un mestiere facile quello di Lucien Grainge o degli altri pochissimi guru del mercato, capaci di scegliere l’ultima rivelazione del K pop o l’erede di Despacito, la hit che, per la prima volta, ha imposto in testa alla hit parade Usa una canzone in una lingua diversa dall’inglese. L’ultima minaccia evocata dal prospetto è l’arrivo dei robot: non è escluso che gli eredi del rock saranno selezionati dall’intelligenza artificiale. E magari si esibiranno a suoi di Bit. Ma nel frattempo Universal, l’unica tra le sorelle delle sette note quotata in Borsa senza far parte (come Sony) di una realtà più grande e meno focalizzata si accinge a far soldi. Alla faccia del mattone cinese.     

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