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Turchia e Brics in crisi: il sultano Erdogan travolto dalla lira

Il solco tra l’Europa e Ankara si allarga sempre di più e il presidente dittatore deve fare i conti con un’economia che precipita mentre la politica dei tassi bassi affonda la lira turca e scatena l’inflazione. A vent’anni dal battesimo, sono pochi i Brics che hanno mantenuto le promesse

Turchia e Brics in crisi: il sultano Erdogan travolto dalla lira

La distanza tra l’Europa e la Turchia di Erdogan si allarga ogni giorno di più. L’ultimo segnale di crisi è arrivato poche ore fa con la decisione del Consiglio d’Europa di aprire un’istruttoria contro Ankara per la prigionia di Osman Kavala, l’industriale da anni in galera senza processo (e senza prove) per aver partecipato al tentativo di golpe contro il “sultano”. Erdogan.

La nuova levata di scudi cade in una situazione economica esasperata, se non disperata. Nel corso degli ultimi due mesi si sono moltiplicati i segnali di collasso della lira turca, trascinata al ribasso da una politica di tagli dei tassi che ha il sapore del suicidio. Dal 21 ottobre, data in cui la Turchia è stata inserita nell’elenco di Paesi in odore di riciclaggio, complicando così la ricerca di nuovi finanziamenti internazionali per il sistema bancario, la banca centrale (investita da una raffica di licenziamenti dal governatore in giù) ha abbassato la leva del tassi dal 18 al 15 per cento, incurante delle conseguenze sulla moneta, precipitata del 40 per cento abbondante dall’inizio di settembre con un impatto immediato sull’import e, di riflesso, sull’inflazione. Ma Erdogan non si pentito. Anzi. Nella notte tra martedì e mercoledì è stato nominato il nuovo banchiere centrale nella figura di Nureddin Nebati, un industriale che figura tra i più convinti estimatori della politica economica di Erdogan che, con singolare perseveranza, sostiene che i tassi bassi (in linea con la sua lettura del Corano che proibisce l’usura) sono un rimedio contro l’inflazione. Una tesi finora smentita dai fatti ma, sostiene il neogovernatore “solo perché la linea non è stata seguita con la giusta perseveranza”.   

Insomma, le sofferenze economiche di un Paese già inserito in una traiettoria di crescita robusta rischiano di non finire qui. Il tracollo della bilancia dei pagamenti non è stato arrestato dalle misure imposte a protezione della valuta, che hanno gravemente intaccato le riserve del Paese. E le cronache riferiscono del malcontento crescente in ampi strati della popolazione: nemmeno l’edilizia, favorita dai tassi bassi, sembra in grado di tirare avanti vista la scomparsa degli investitori esteri ed il calo del potere d’acquisto della classe media. E’ facile prevedere che nei prossimi mesi il sistema di potere del presidente sarà messo a dura prova, con ripercussioni non indifferenti per i rapporti con l’Unione Europea (che finanzia la Turchia in funzione antimmigrazione) ed il sistema delle relazioni internazionali, visto il peso di Ankara in Libia o nel Mediterraneo orientale ricco di gas. 

Ma la crisi turca non avrà, sul piano delle relazioni con la Ue (e dell’Italia in particolare) le conseguenze drammatiche che avrebbe avuto pochi anni fa. I principali gruppi italiani, vedi Unicredit ad esempio, sono usciti dalla Mezzaluna o hanno ampiamente ridimensionato il loro impegno (pensiamo alla vendita del ponte sul Bosforo di Astaldi). Un quadro del tutto diverso da quello di inizio millennio, quando l’allora premier Silvio Berlusconi faceva da testimone alle nozze di Bilal, il terzogenito del presidente. Il tramonto dei legami con la Turchia ci permette di guardare alla crisi dell’economia globale a vent’anni dalla nascita dei Brics, la formula di straordinario impatto coniata da Jim O’Neill di Goldman Sachs un paio di mesi dopo l’attentato alle Torri Gemelle, punto di svolta per allargare lo sviluppo in un mondo post-ideologie, pronto a rimuovere il Male. I Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) erano il corpo d’élite dei paesi emergenti. Dietro di loro la pattuglia dei Next Eleven (tra cui primeggiava la Turchia) si preparava a raggiungerli grazie a tassi di crescita doppi o tripli rispetto a quelli del vecchio Occidente.  

Non è andata così. Vent’anni dopo prendiamo atto che solo una pattuglia di produttori di materie prime sensibili resta agganciata al carro della finanza globale, che ha premiato solo la Cina ed alcuni Paesi eccellenti in fatto di formazione scolastica (Corea del Sud, Taiwan) mentre altri, tra cui la Turchia, stentano a trovare una via di sviluppo e precipitano nei gorghi di un mondo de-globalizzato, dove democrazia e diritti civili stentano ad imporsi. Le difficoltà della Turchia, Paese con una radicata cultura laica e democratica, sono la punta dell’iceberg di un modo sempre più diviso a fronte di sfide che, dall’ambiente ad Omicron, ci riguardano tutti da vicino.  

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