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Trump e i Liberal, l’opposizione rischia l’autogol

I liberal americani rischiano di ripetere con Trump gli stessi errori compiuti dalla sinistra italiana con Berlusconi: l’isteria e l’ossessione antitrumpiane non portano da nessuna parte e anzichè indebolire il nuovo presidente americano lo rafforzano – Per contrastare Trump e il suo protezionismo bisogna prima di tutto studiarlo e capire dove porta realmente

Panico Trump

Dimenticate tutto quello che avete visto e sentito da Trump e su Trump. Quella era la versione 1.0 di Trump, studiata per conquistare le primarie repubblicane e vincere la presidenza, partendo da un consenso iniziale a una cifra percentuale. Adesso sarà caricato l’aggiornamento al Trump 2.0, che avrà tutta un’altra interfaccia e un differente contenuto.

Appare quindi veramente fuori luogo – e controproducente per le istituzioni stesse – l’isteria antitrumpiana dei liberal di New York, del New York Times e dei suoi maggiori opinionisti come Paul Krugman, Tom Friedman e Maureen Dowd. Ha ragione Luigi Zingales nell’ammonire, sulle stesse colonne del NYTimes, i democratici e la sinistra americana a non cadere nella stessa sterile e masochistica ossessione che la sinistra italiana ha sviluppato per 20 anni nei confronti di Berlusconi, di cui Trump sembra l’evoluzione naturale.

Il rifiuto aprioristico di Trump, come è stato quello quello di Berlusconi, è la più micidiale macchina elettorale per allungare di 4 anni il mandato di Trump. Tale rifiuto aprioristico è il collante istantaneo che in Italia ha saldato l’elettorato di Berlusconi per venti anni e che, negli USA, salderà quello he ha portato Trump alla Casa Bianca. L’elettorato di Trump è diversificato, eterogeneo e trasversale, come solo una contingenza storica speciale può determinare; un elettorato che sta insieme più emotivamente che politicamente e che se rifiutato, disprezzato e dileggiato, insieme al suo candidato occasionale, può raggrumarsi come il glutine nell’intestino. È chiaro che il blocco che ha eletto Trump va fronteggiato in ben altro modo. In questo caso una rilettura di Gramsci non guasterebbe, visto che è stato tradotto anche in inglese.

Team Trump

Anche l’eclettica ed eterogena squadra scelta da Trump risponde a una logica e rivela un’intenzione. Gli otto anni di Obama sono stati, a parte qualche rimarchevole risultato, otto anni difficili e piuttosto inconcludenti per gli americani. Il presidente era gradevole, la sua oratoria stregava, la rettitudine, l’atletismo, la prestanza e il culto del politicamente corretto di Obama e della First Lady hanno coperto i magri risultati del team Obama. C’è stato molto fumo e meno arrosto. Adesso Trump vuol dare agli americani e alle altre nazioni un chiaro segno di cambiamento e sovvertire la sensazione che Washington sia la Vienna del 1910: un luogo amabile e aperto dove farsi un paio di giri di valzer tra gente molto elegante ed educata mentre il mondo va a rotoli. La squadra di Trump deve portare un messaggio abrasivo all’opinione pubblica mondiale: in questo film non c’è Cary Grant in mocassini, ma Jack Nicholson con la scure… e la pazzia non manca di certo.

Le persone scelte da Trump non sono una manica di guerrafondai, petrolieri e squali di Wall Street (come li dipinge il NYTimes). Sono persone immerse nel mondo business che aborrono il politicamente corretto fine a se stesso. Sono manager abituati a condurre trattative molto dure in

situazioni piuttosto complesso. Il loro “ideale” è molto minimalista: portare a casa qualcosa di concretamente positivo per la vita gli Americani, misurabile prima di tutto sul piano materiale.

In qualche modo le caratteristiche di questo team richiamano alla mente lo stile e l’atteggiamento di uno dei presidenti più fattivi della storia americana, Lyndon B. Johnson; anch’egli dileggiato dai liberal della costa orientale. Non dimentichiamoci che fu l’abrasività di Johnson, il gioco duro al limite della decenza e la cultura texana da mercato dei bovini a produrre alcune delle conquiste più avanzate della storia americana. Quello di Johnson fu uno dei periodi più fecondi a livello legislativo e il suo merito principale fu quello di rendere irreversibili i traguardi raggiunti con quelle leggi visionarie. Poi ci fu il Vietman a oscurare il lavoro di questo eccellente presidente venuto dal sud, che consegnò il sud ai repubblicani e si mise contro il suo stesso partito. Si potrebbe dire, semplificando al massimo, che Kennedy sta a Johnson come Obama sta a Trump.

Agenda Trump

Se è vero che nell’amministrazione Trump troveremo la stessa concretezza e determinazione di quella di Johnson, è ancor più vero che l’agenda politica di Trump non sarà certo quella di Johnson. Sarà quella di Ronald Reagan. Reagan è forse l’unico porto a cui può approdare il vagante natante di Trump, anche se il biondo neopresidente non fa mistero anche della sua ammirazione per Richard Nixon e la politica estera metternichiana di quell’amministrazione. Anche se la politica estera sarà qualcosa di assolutamente ancillare alle scelte di politica economica, energetica e migratoria dell’America.

Vediamo i punti di contatto dell’agenda di Reagan e quella che potrebbe essere l’agenda di Trump. Prima di tutto, eleggere alla corta suprema dei giudici di ortodossia conservatrice. Molte fasce dell’elettorato conservatore hanno scelto Trump con la certezza che saranno eletti dei giudici non disposti a compromessi sull’aborto, gli LGBTQ, il multiculturalismo, la tutela dei cittadini di origine europea e infine il clima. Non dimentichiamo che era stato Ronald Reagan a nominare, come giudice supremo, Anthony Scalia, scomparso nel 2016. Scalia, per 30 anni, è stato l’indiscusso punto di riferimento dei conservatori di tutte le tendenze e uno dei più influenti giudici nella storia della corte.

Trump, come fece Reagan con il programma dello scudo spaziale, ha intenzione di rafforzare il sistema difensivo e il complesso delle forze armate; una misura che userà come leva nelle trattative con i competitor mondiali come la Cina. Nella visione reaganiana di law&order rientrerà anche l’azione di Trump nei confronti dei flussi migratori e degli 11 milioni clandestini che vivono negli USA. Ci sarà una sorta di Reagonimics rivisitata e fondata sulla riduzione dell’imposizione fiscale – volta anche a favorire il rimpatrio degli utili delle imprese americane operanti a livello globale (vedi Apple) – sulla riduzione del deficit commerciale, sul dollaro forte, sulla deregolamentazione dell’attività economica – il programma di infrastrutture di Trump non sarà a trazione pubblica – e infine sul patriottismo economico – lavoro americano per le imprese americane.

Apocalisse Trump?

La presidenza di Ronald Reagan, anch’essa vissuta malissimo dall’opinione pubblica progressista dell’epoca, ha lasciato un’orma importante nella storia americana al pari di quella di Lincoln, Ted e Delano Roosevelt, e l’era Kennedy-Johnson. La sfida di Trump è quella di essere all’altezza di

questa agenda, se no addio elezioni di medio-termine e secondo mandato. Il suo elettorato è fragilissimo. Trump non toccherà qualcosa che funziona per il gusto di un’ideologia che non ha. Trump non è Ted Cruz e neppure Paul Ryan. Nonostante tutto il fracasso a Capitilo Hill, gli aspetti dell’Obamacare che funzionano, resteranno. Trump condivide la massima del suo opposto, Deng Xiaoping: “non importa se il gatto è bianco o nero, l’importante è che pigli il topo”.

Non ci sarà nessuna apocalisse per gli Stati Uniti e il mondo, se non quella di Trump stesso.

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