Nel suo delirio di onnipotenza Donald Trump ha sempre attribuito il mancato raggiungimento degli obiettivi della sua prima presidenza non al velleitarismo delle sue promesse elettorali (per esempio deportare in massa circa undici milioni di immigrati irregolari e sigillare il confine meridionale per mezzo di una barriera divisoria lunga 2.000 miglia, addebitandone il costo al Messico), ma a un presunto boicottaggio attuato dai quadri dell’amministrazione federale, il cosiddetto deep state espressione, a suo dire, di interessi costituiti e poteri forti corrotti e comunque contrari alle esigenze dei cittadini.
Inoltre, dopo la conclusione del suo primo mandato, The Donald ha accusato il dipartimento di Giustizia di essersi prestato a una congiura ordita, da Joe Biden e dal partito democratico, che, attraverso incriminazioni pretestuose e politicamente motivate, avrebbe dovuto impedirgli di tornare alla Casa Bianca per completare il lavoro interrotto il 20 gennaio 2021 con l’entrata in carica del suo successore.
Sally Yates e il primo presunto scontro con il deep state
Trump sostiene di avere sperimentato la resistenza del deep state fino dal suo esordio alla presidenza. Il 27 gennaio 2017, ad appena una settimana dalla sua entrata in carica, emanò l’ordine esecutivo 13769, che sospese per novanta giorni l’ingresso negli Stati Uniti nel caso dei cittadini di sette Stati mediorientali a maggioranza musulmana. Il provvedimento fu impugnato da alcune organizzazioni per i diritti civili che lo accusarono di discriminazione religiosa perché dal blocco erano esentati i cittadini di quegli stessi Paesi se professavano una fede diversa dall’islamismo.
Tuttavia, la facente funzioni di procuratore generale (l’equivalente statunitense del ministro della Giustizia europeo), Sally Yates – rimasta temporaneamente in carica dalla precedente amministrazione di Barack Obama in attesa che il Senato ratificasse la nomina di Jeff Sessions alla guida del dipartimento di Giustizia – si rifiutò di difendere la misura di Trump, costringendo The Donald – almeno nella ricostruzione del tycoon – a destituirla e a sostituirla con un procuratore più ricettivo della stretta sull’immigrazione musulmana decisa dal nuovo governo, come promesso agli elettori in campagna elettorale.
Nomine politiche e meritocrazia
La polemica contro un apparato amministrativo sclerotizzato, che si opporrebbe alla realizzazione del programma di un presidente investito del mandato popolare e interprete della volontà della nazione, è da lungo tempo il leitmotiv dell’approccio populista alla politica statunitense. Il primo ad avvalersi di questa argomentazione fu il democratico Andrew Jackson, l’inquilino della Casa Bianca dal 1829 al 1837 e, non per niente, il predecessore più ammirato da Trump che ne fece appendere un ritratto nello Studio Ovale il giorno del suo insediamento.
In nome della necessità di sbarazzarsi dei possibili ostacoli che i burocrati federali entrati in servizio prima del suo ingresso alla presidenza avrebbero potuto frapporre all’attuazione della sua agenda legislativa, Jackson si arrogò il potere di destituirli e di sostituirli con funzionari a lui fedeli.
Questo modello fiduciario di selezione soprattutto dei dirigenti federali non si limitava a dare al presidente maggiore sicurezza nell’ottenere la collaborazione dei quadri amministrativi, ma si prestava anche al voto di scambio. La lealtà politica, infatti, veniva ricompensata con un impiego federale.
Questa criticità emerse in tutta la sua evidenza nel 1881, quando un sostenitore del presidente repubblicano James A. Garfield, deluso di non essere stato ricompensato con la carica alla quale aspirava, si vendicò ferendolo mortalmente.
Per ridimensionare sempre di più la portata del voto di scambio, a partire dal varo del Pendleton Act nel 1883, approvato dopo un contrastato iter legislativo sull’onda emotiva dell’assassinio di Garfield, l’assegnazione di un numero crescente di uffici amministrativi è stata sottratta all’arbitrarietà delle scelte insindacabili del presidente e all’affiliazione partitica per essere assoggettata all’esito di concorsi pubblici con valutazioni comparative tra i diversi candidati a un impiego federale.
Questa trasformazione si è rafforzata nel corso del Novecento ed è culminata con il Civil Service Reform Act del 1978. Oggi tutte le assunzioni nell’amministrazione federale si fondano su criteri meritocratici, fatta eccezione per pochi incarichi di governo legati direttamente agli aspetti del policy making.
Tali esenzioni riguardano i titolari dei dicasteri e i sottosegretari, i responsabili delle agenzie federali e i loro collaboratori più stretti nonché parte del personale diplomatico, principalmente gli ambasciatori. Nondimeno, tutte queste nomine, salvo quelle dei consiglieri del presidente, devono essere ratificate dalla maggioranza del Senato.
Ritorno al passato
Trump è sempre stato contrario al sistema meritocratico nell’attribuzione degli incarichi all’interno dell’amministrazione federale. A suo giudizio, questo principio non offrirebbe adeguate garanzie di fedeltà nei confronti del titolare del potere esecutivo e interferirebbe addirittura con la lealtà della burocrazia verso il presidente in quanto permetterebbe di mantenere in servizio funzionari con un differente orientamento politico e, quindi, poco propensi a dare corso alle decisioni della Casa Bianca.
Così, alla fine della sua presidenza, nell’ottobre del 2020, promulgò un decreto per creare una nuova categoria di dipendenti federali di livello elevato, chiamata schedule F, i cui appartenenti avrebbero potuto essere destituiti anche in mancanza di una giusta causa, cioè avrebbero potuto venire rimossi per motivazioni esclusivamente politiche.
L’intento era quello di un ritorno in grande stile al passato jacksoniano dell’assoggettamento della burocrazia federale ai voleri del presidente. Sebbene qualcuno avesse stimato il loro numero in almeno 50.000, non è dato conoscere con esattezza quanti alti funzionari sarebbero stati effettivamente trasferiti in questa ripartizione perché, prima che il ricollocamento prendesse corpo, Trump perse le elezioni e Biden revocò il provvedimento, ripristinando la precedente certezza di continuità nell’impiego per tutto il personale federale.
Il piano, però, non è stato lasciato cadere. È stato fatto proprio dal Project 2025, un programma avanzato nel 2022 dalla Heritage Foundation, un influente think tank conservatore, nel più vasto ambito di una proposta di ridefinizione dei rapporti tra le istituzioni in funzione di un rafforzamento delle prerogative del presidente, a cui dovrebbe essere conferito il controllo pieno e assoluto di tutto il ramo esecutivo dello Stato federale.
Questo accentramento del potere nelle mani dell’inquilino della Casa Bianca comporterebbe anche il diritto di effettuare un ricambio di tutti i dirigenti. Tuttavia, secondo alcuni anonimi membri dell’entourage di Trump, non sarebbe indispensabile un turnover così drastico in quanto basterebbe un numero relativamente contenuto di destituzioni come segnale più che persuasivo per indurre il resto dei funzionari ad adeguarsi alla volontà politica del tycoon in maniera da non rischiare di essere licenziati pure loro. Nonostante The Donald abbia preso le distanze dal Project 2025 durante la campagna elettorale per non allarmare alcuni votanti, era a queste rimozioni esemplari a cui Trump faceva riferimento implicitamente quando affermava che, una volta insediatosi nello Studio Ovale per la seconda volta, si sarebbe comportato da dittatore, ma per un solo giorno.
Una squadra di yes-men e yes-women
In attesa di realizzare questa significativa modifica nella gestione della burocrazia federale, Trump ha allestito una squadra di governo che non interferisca con la sua agenda politica, così da prevenire quanto era accaduto nel corso del suo primo mandato. La sua presidenza precedente, infatti, fu caratterizzata da frequenti e ripetuti avvicendamenti nel cabinet, provocati da divergenze tra The Donald e i componenti del suo governo, contrasti accentuati dall’insofferenza del tycoon per chiunque lo contraddica o esprima un parere diverso dal suo.
Per esempio, in soli quattro anni, Trump ebbe due segretari di Stato, due responsabili della Difesa e ben quattro consiglieri per la sicurezza nazionale. Alcuni funzionari rimasero in carica per pochissimo tempo. Il record in questo campo spettò ad Anthony Scaramucci, che ricoprì il ruolo di direttore della comunicazione alla Casa Bianca per appena 10 giorni, dal 21 al 31 luglio 2017, prima di venire rimosso.
Quello che si insedierà il prossimo gennaio sarà, invece, un governo prevalentemente di yes-men e yes-women, cioè composto in larga misura da meri esecutori anziché da collaboratori. Nella loro scelta, infatti, l’adesione incondizionata al trumpismo è stata privilegiata rispetto alla competenza e all’esperienza.
Un esempio paradigmatico è rappresentato da Brooke Rollins, nominata come segretario del dipartimento dell’Agricoltura. Si tratta di una avvocata, la cui conoscenza di questioni agrarie è tutta da dimostrare, che però ha al suo attivo la presidenza dell’America First Policy Institute, un altro think tank conservatore, fondato nel 2021, subito dopo la conclusione del primo mandato di Trump, come una sorta di governo ombra, pieno di ex funzionari dell’amministrazione uscente, per preparare il grande ritorno di The Donald alla Casa Bianca.
Un’altra esponente dell’America First Policy Institute è Linda McMahon. Si racconta che da ragazza volesse fare l’insegnante. Poi ha evidentemente cambiato idea perché quello che risulta certo è un passato di amministratrice delegata della World Wrestling Entertainment, una società per la promozione del wrestling, di finanziatrice della campagna elettorale di Trump con 7 milioni di dollari nel 2016 e di responsabile dell’agenzia federale per le piccole imprese durante la sua prima presidenza. Ora The Donald l’ha promossa alla guida del dipartimento dell’Istruzione.
Trump ha anche riproposto alla direzione dell’Office of Management and Budget, l’ufficio della Casa Bianca che si occupa del bilancio federale, Russell Vought, che aveva già ricoperto l’incarico tra il 2019 e il 2021, uno degli ideatori del Project 2025.
In campo religioso si dice che i convertiti siano più fanatici di chi è nato nella fede. Il tycoon pare avere applicato questo detto alla politica. Così ha scelto come vicepresidente J.D. Vance, che prima di abbracciare il trumpismo aveva dichiarato di temere che The Donald potesse diventare l’“Hitler d’America”, e come segretario di Stato Marco Rubio, che lo aveva definito una persona “assolutamente impreparata” per la presidenza e un “artista della truffa” nelle primarie repubblicane del 2016, finendo però per appoggiarlo contro Hillary Clinton.
Gli avengers trumpiani
Altri membri della futura amministrazione Trump sembrano tagliati per il ruolo di vendicatori per conto del tycoon nella battaglia ingaggiata contro il deep state. Pam Bondi, designata come procuratore generale, ai tempi delle incriminazioni federali di The Donald per l’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021 e per i documenti top secret portati nella magione di Mar-a-Lago – entrambe appena lasciate cadere grazie alla sua rielezione alla presidenza – aveva ripetutamente dichiarato che i magistrati inquirenti avrebbero dovuto essere a loro volta inquisiti.
Avrà l’opportunità per farlo quando si insedierà al vertice del dipartimento della Giustizia. In una posizione analoga si troverà Tulsi Gabbard, che Trump ha scelto come direttore dell’Intelligence Nazionale, cioè per la funzione di coordinatrice proprio di quei servizi segreti che l’avevano segnalata come possibile propagandista di una potenza straniera, la Russia, per il suo aperto sostegno a Vladimir Putin.
Consiglieri operativi
Oltre a designare i titolari dei dicasteri, Trump sta nominando numerosi consiglieri. Alcuni di loro ricopriranno ruoli esistenti da tempo nell’organigramma dell’amministrazione federale come Michael Waltz per la Sicurezza Nazionale, Alex Wong suo vice, Bill McGinley per l’ufficio legale della Casa Bianca, Sebastian Gorka per l’antiterrorismo.
Altri svolgeranno mansioni di nuova creazione. Il pensiero va in primo luogo alla coppia Elon Musk e Vivek Ramaswamy, destinati a dirigere il dipartimento dell’Efficienza di Governo, non un vero dicastero, ma un organismo consultivo. A loro occorre aggiungere Tom Homan, a cui è stata attribuita la funzione di “zar del confine e dell’immigrazione”.
Il ricorso a consiglieri informali è una prassi consolidata nella storia della Casa Bianca. Il primo a farne uso fu, ancora una volta, Andrew Jackson che, come gli rimproveravano i suoi avversari, aveva messo in piedi un kitchen cabinet, cioè un esecutivo ufficioso che si riuniva in cucina, al di fuori delle sedi istituzionali deputate.
Tuttavia, i componenti di questo consesso non avevano compiti esecutivi. Lo stesso su può dire di Edward M. House, di cui il democratico Woodrow Wilson, presidente dal 1913 al 1921, si avvalse a lungo, sia in politica interna sia negli affari internazionali, senza che costui ricoprisse alcuna carica ufficiale fino alla nomina come uno dei cinque commissari statunitensi alla conferenza di pace di Parigi del 1919 al termine della prima guerra mondiale.
Un altro democratico, Franklin D. Roosevelt, fece affidamento su un Black cabinet, un gruppo di esponenti della comunità afroamericana, pure loro senza alcuna veste formale, con cui si confrontava sulla questione razziale.
Il caso dei consiglieri di Trump, però, va profilandosi come diverso dalle esperienze del passato. Musk, Ramaswamy e Homan, infatti, finiranno per svolgere funzioni operative: i primi due per effettuare tagli al bilancio dell’ordine di 2.000 miliardi di dollari che, rispetto a un budget complessivo di 6.750, significherà anche contrarre il tanto disprezzato apparato burocratico; il terzo per il rafforzamento dei controlli al confine meridionale e soprattutto per la deportazione in massa dei circa undici milioni immigrati irregolari che Trump, in campagna elettorale, ha ribadito di voler espellere.
Musk si è già messo al lavoro per ridurre il personale. Attraverso X (già Twitter) ha messo alla gogna alcuni funzionari, finora spesso ignoti al grande pubblico, impegnati nel contrasto al cambiamento climatico, inducendo alcuni di loro a dimettersi. I consiglieri presidenziali non sono soggetti alla ratifica del Senato.
The Donald lo ha appena ribadito di fronte delle rimostranze della deputata democratica del Texas Jasmine Crockett, che vorrebbe sottoporre Homan alla conferma del Senato. Tra l’altro, al tempo della sua prima amministrazione, nel novembre del 2017, il tycoon aveva designato Homan alla direzione della Immigration and Customs Enforcement, l’agenzia federale responsabile del controllo dei confini e dell’immigrazione.
Tuttavia, Hogan aveva rinunciato all’incarico in febbraio, quando si era accorto che in Senato non c’erano i voti per la sua conferma sebbene il partito repubblicano fosse in maggioranza. Oggi è come se Trump stesse organizzando una sorta di governo parallelo. Per esempio, il ruolo del tutto ufficioso di Homan si sovrapporrà alle responsabilità formali e istituzionalmente definite della titolare del dipartimento della Sicurezza Interna, Kristi Noem, con la sostanziale differenza che l’operato di quest’ultima sarà soggetto al vaglio del Senato, a differenza di quello dello “zar del confine e dell’immigrazione”.
Il futuro di Trusk
A proposito di Musk – l’uomo più ricco del pianeta e il munifico sponsor della campagna elettorale di Trump nonché colui che ha riconfigurato X per farne il megafono della propaganda di The Donald – c’è chi parla di un presidente ombra, se non addirittura dell’instaurazione di una diarchia alla Casa Bianca, il cosiddetto Trusk, attribuendo al CEO di Tesla, SpaceX e xIA un’influenza di gran lunga superiore a quella di mero consulente per l’efficienza di governo.
In realtà, non sembra che Trump sia disposto a cedere ai condizionamenti e alle pressioni di Musk.
The Donald si è speso pochissimo per sostenere il candidato di Musk come leader repubblicano al Senato, Rick Scott della Florida, lasciando che venisse sconfitto da John Thune del South Dakota. Allo stesso modo, ha declassato al dicastero del Commercio Howard Lutnick, il preferito di Musk come segretario del dipartimento del Tesoro, carica alla quale il tycoon ha invece nominato Scott Bessent.
In altre parole, Trump ha già messo in chiaro chi comanda alla Casa Bianca. Musk è stato avvertito e gli scommettitori a Washington hanno iniziato ad accettare puntate sulla durata del presunto Trusk, cioè su quanto tempo passerà prima che The Donald defenestri il suo sicuramente ingombrante finanziatore.
D’altro canto, Musk ha molto più da perdere che da guadagnare nel contendere a Trump il primato della personalità con l’ego più ipertrofico. Stando alle stime della rivista online Mediapart, solo lo scorso anno le sue società hanno sottoscritto contratti per un ammontare di oltre tre miliardi di dollari con agenzie federali e, secondo il settimanale The Economist, il 10% della sua fortuna personale deriverebbe da rapporti di affari con il governo di Washington. Se il tycoon lo mettesse alla porta, anche le commesse miliardarie di Musk sarebbero a rischio.
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Stefano Luconi insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022) e L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023).
Libri:
Stefano Luconi, La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre, goWare, 2023, pp. 162, 14,25€ edizione cartacea, 6,99€ edizione Kindle
Stefano Luconi, Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022, goWare, 2022, pp. 182, 12,35€ edizione cartacea, 6,99€ edizione Kindle