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Tempesta fra gli armatori: un “made in Italy” del mare ?

Il conflitto esploso tra Onorato e Grimaldi, armatori napoletani, ha fatto emergere anche il “caso” relativo al personale extracomunitario imbarcato sulle navi e alle regole differenti previste dai contratti – Siamo di fronte ad un caso, seppur parziale, di dumping contrattuale?

Tempesta fra gli armatori: un “made in Italy” del mare ?

Il mondo degli armatori marittimi è scosso da tempo da violente polemiche, frutto della lotta per la leadership del settore, acuite da vecchie ruggini tra antiche dinastie imprenditoriali. Il conflitto è esploso nei mesi scorsi tra due grandi armatori entrambi di Napoli, Onorato e Grimaldi, ed ha provocato persino una scissione nella Confitarma, la storica associazione della categoria, che ha portato alla nascita di Assoarmatori.

Il gruppo Onorato, che gestisce prevalentemente linee interne di traffico marittimo (Moby, Tirrenia CIN, Toremar) e occupa quasi esclusivamente personale italiano o comunitario, ha di fronte a sé scadenze impegnative come il rinnovo delle concessioni nel 2020.

Il Gruppo Grimaldi, economicamente più solido, serve rotte sia nazionali che internazionali ed ha alle proprie dipendenze, oltre a marittimi italiani e comunitari anche lavoratori extracomunitari. Uno dei motivi dello scontro tra i due armatori, oltre a questioni di concorrenza su alcuni traffici nel Mediterraneo, risiederebbe proprio nella presenza di quella minoranza di personale extracomunitario imbarcato su navi della Grimaldi.

Onorato si è avvolto nel tricolore ergendosi a difesa dei marittimi italiani o comunitari danneggiati dal dumping degli extracomunitari che offrono maggiori vantaggi in termini di costo agli armatori che utilizzano questa opportunità. Anche se giungono recentissimi segnali di disgelo, la durissima polemica tra armatori ha trovato eco in alcuni quotidiani (tra cui Il Tempo e La Verità) i quali hanno sollevato il dubbio che le assunzioni di marittimi stranieri su navi battenti bandiera italiana verrebbe incentivato a danno dei lavoratori italiani e di quelli comunitari.

La vicenda viene da lontano: la legge 30/98 ha permesso di far rientrare la stragrande maggioranza del naviglio italiano, a quel tempo in bandiera estera, in bandiera italiana, grazie alla nascita di un nuovo registro “Internazionale” aderendo al quale gli armatori beneficiano della decontribuzione totale. Inoltre possono imbarcare anche un certo numero di lavoratori extracomunitari a costo inferiore a quello del personale comunitario ( anche se con vincoli stringenti sia nel numero che nelle modalità d’ impiego), a condizione che la loro prestazione sia legata essenzialmente ai traffici internazionali ed escludendoli completamente dai traffici nazionali. La legge ha inteso difendere la bandiera italiana dal rischio che le nostri navi decidessero di approdare (legalmente grazie al “diritto di stabilimento”) in lidi più convenienti.

I contratti di lavoro che vengono applicati nei confronti del personale extracomunitario sono numerosi, in particolare i più utilizzati sono stati predisposti e negoziati da organizzazioni sindacali internazionali come la ITF (a cui anche Cgil Cisl ed Uil aderiscono), l’Amosup, il potente sindacato filippino o quello sottoscritti
direttamente dai sindacati italiani con Confitarma. Il differenziale retributivo(e quindi del costo del lavoro) si sta restringendo.

Se fino a qualche anno fa, le retribuzioni nette mensili, ad esempio di un marinaio erano di 1400 euro per un marinaio italiano e di 800 euro per un marinaio extracomunitario, oggi questo gap salariale si è quasi dimezzato. Più alto è il livello professionale e più si riducono le differenze: per le posizioni relative ai ruoli apicali, sono più costose le retribuzioni del personale extracomunitario. Sulle navi iscritte al Registro Navale italiano sarebbero imbarcati circa 62.000 marittimi di cui solo il 5% gode di un contratto a tempo indeterminato: 42.00 comunitari ( di cui 30.000 italiani) e 20.000 extracomunitari.

Fino al 1998, prima dell’entrata in vigore della legge 30 che consentiva una deroga alle norme in atto, i
marinai italiani erano in gran parte imbarcati su naviglio di bandiera estera. Siamo di fronte ad un caso, seppur parziale, di dumping contrattuale? In parte sì ma è inevitabile. Il sindacato dei marittimi ha gestito “ante litteram” quella che è la globalizzazione “naturale” del traffico marittimo internazionale dove la prestazione lavorativa avviene per definizione in ambito extraterritoriale e consente agli armatori di scegliere liberamente lo Stato del Registro Navale a cui iscriversi.

Imporre sul naviglio in bandiera italiana la sola presenza di italiani e comunitari avrebbe provocato la fuga degli armatori nazionali verso una bandiera di comodo. Detto ciò oggi è opportuno riflettere in termini complessivi sugli strumenti di tutela dei lavoratori italiani. Nel momento in cui il nostro Governo chiede di
disciplinare in termini più rigorosi la materia degli aiuti di Stato in ambito UE, si può affermare che, mentre Il lavoro degli operai torinesi della Embraco viene trasferito a quelli slovacchi, parte di quello dei marittimi italiani va agli extracomunitari?

Le vicende non sono assimilabili. Le condizioni sono oggettivamente differenti e possono essere migliorate a patto che si governino con realismo processi non facili da controllare solo con una nuova normativa , sia che assuma i caratteri del diritto europeo, o (cosa ancor più complessa) del diritto internazionale.

La disoccupazione di marittimi italiani, che in termini reali non dovrebbe superare le 5.000 unità, è l’effetto prodotto dalla mancanza di specializzazioni richieste che si accompagna all’offerta, spesso saltuaria, di lavoratori collocati nelle fasce professionali inferiori che subiscono nei fatti la concorrenza degli extracomunitari. Al di là delle specificità si assiste ad una dinamica del mercato del lavoro simile a
quella dei settori industriali e dei servizi, in cui mancano gli specialisti e abbondano le basse qualifiche.

In realtà è difficile interpretare correttamente le statistiche ufficiali di coloro che cercano lavoro: solo al registro matricole della capitaneria di Torre del Greco sono iscritti in 110.000, ma sarebbe solo un numero notevolmente inferiore a disporre dei requisiti e dei titoli necessari a navigare e in grado di rispondere entro 48 ore alla chiamata.

Il Governo italiano ha approvato nel 2016 un decreto legislativo che prevede il mantenimento della fiscalizzazione totale dei contributi solo per lavoratori italiani o comunitari occupati nel piccolo cabotaggio e nelle linee di collegamento tra le isole e il territorio italiano, che è stato inviato a Bruxelles per il visto di conformità nel maggio dello scorso anno e che non è ancora in vigore.

Coerentemente il decreto, di cui si attende l’entrata in vigore, esclude che a beneficiarne siano le navi italiane
che imbarcano extracomunitari in un porto italiano e poi fanno rotta al di là dei limiti delle acque territoriali nazionali. La realtà di questo settore, lontano dal mondo sindacale tradizionale, ha fatto i conti con largo anticipo sulle tendenze dell’economia mondale. Mentre i sindacati portuali hanno tenacemente difeso in passato posizioni di oggettivo monopolio, quelli marittimi sono stati costretti a confrontarsi da sempre con le sfide dei “mercati aperti”, che stanno investendo oggi in misura crescente anche i lavoratori
dell’ industria e dei servizi del nostro paese.

Sono scenari indotti dalla globalizzazione che fanno emergere la necessità di acquisire, a partire dalla stessa UE, regole convergenti e omogenee per una efficace difesa dei lavoratori. Da qui la necessità urgente per il sindacato di approfondire, in termini di strategia, le politiche e gli strumenti più efficaci per intervenire in una dimensione sempre più sovranazionale.

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