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Sfida Usa-Ue: il Fondo per la sovranità europea della Von der Leyen è la risposta giusta per le nostre imprese

Di fronte alla complessità delle decisioni di politica commerciale e industriale che attendono l’Europa la via da seguire non è quella delle lamentele contro i sussidi Usa ma quella di mettere in campo interventi che ci permettano di competere ad armi pari

Sfida Usa-Ue: il Fondo per la sovranità europea della Von der Leyen è la risposta giusta per le nostre imprese

Il discorso della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen a Davos ha fatto comprendere la complessità delle decisioni di politica commerciale e industriale che l’Europa deve affrontare al più presto insieme ai cambiamenti che tali decisioni comportano per le regole del mercato unico e le istituzioni che regolano il commercio internazionale. Sappiamo che il WTO non è riuscito a funzionare come nelle aspettative. Né ha potuto modificarsi con i Rounds multilaterali come il suo predecessore, il GATT. Il nuovo contesto geopolitico impone dunque che le maggiori potenze commerciali prendano l’iniziativa nel forgiare le nuove regole per preservare i vantaggi dell’apertura internazionale in un mondo sempre più diviso in blocchi.  

L’evoluzione e le criticità del commercio internazionale

Nel campo delle istituzioni del commercio internazionale, la novità è che le cose stanno migliorando. Il grande risultato dell’Uruguay Round fu ottenuto anche concedendo un cambio di governance: decisioni prese all’unanimità, per le quali un Paese che conta per lo 0,001% del commercio mondiale può bloccare un accordo globale. E così è stato: solo il Doha Round è iniziato sull’onda dell’indignazione per il massacro delle Torri gemelle a New York, ma non è stato completato anche a causa dell’altro principio dell’UR, il single undertaking (nulla è deciso finché tutto non è deciso). 

L’innovazione più rilevante dell’Uruguay Round, il Dispute Settlement System, il tribunale del WTO, è stato bloccato dagli Stati Uniti anni fa. 

L’interdipendenza globale (alias globalizzazione) ha tirato fuori dalla povertà assoluta diverse centinaia di milioni di persone nei Paesi emergenti, ma ha creato larghi strati di emarginati nei Paesi avanzati, in particolare negli Stati Uniti, con ripercussioni gravi sulla politica.  Gli Usa non parlano più di nuovi trattati multilaterali né di tradizionali Preferential Trade Agreements (PTA) – come ha scoperto la Gran Bretagna dopo Brexit – e la politica Buy American di Trump non è cambiata con Biden.

Dov’è dunque il progresso? Nel fatto che invece di lamentare che non si riescano più a fare Rounds di liberalizzazione multilaterale, si fanno trattati bilaterali o plurilaterali su temi precisi e tra paesi simili per valori. La dimensione non-economica, politica o geopolitica ha il sopravvento. I nuovi accordi internazionali si concentrano su un tema – tecnologia, esportazioni, etc. – e s’infittiscono di non trade objectives come protezione dell’ambiente e labor standards. Questo è quanto serve nella situazione odierna. 

L’aggressione della Russia all’Ucraina e il ritorno della Cina a Davos

Dopo l’aggressione senza confini della Russia all’Ucraina nel 2022, l’alleanza “senza confini” della Cina con la Russia e l’aumento dei poteri di Xi hanno seppellito la percezione della Cina come paese che si liberalizza. Ma 20 anni d’integrazione di flussi commerciali, d’investimenti e finanziari globali non si sostituiscono rapidamente: è chiaro a noi come alla Cina, che a Davos ha fatto intonare il canto del ritorno al vice premier Liu He. Inoltre, le materie prime sono distribuite in modo ineguale nel globo, e il commercio internazionale non è mai stato meno del 5% del Pil dall’inizio dell’economia industriale: se il multilateralismo è in crisi, gli scambi globali lo sono molto meno. 

Il nuovo contesto geopolitico 

Nel nuovo contesto geopolitico, il primo terreno in cui questo nuovo atteggiamento si è concretizzato sono state le catene di valore per materie prime, beni e servizi essenziali per i quali si privilegia il friend-shoring ovunque possibile. Ma non si tratta solo di diversificazione delle fonti da parte delle imprese per rispondere al rischio di blocchi come durante la pandemia o per le sanzioni alla Russia e suoi fornitori, ma anche del recente spostamento delle grandi potenze commerciali verso un maggiore utilizzo di misure regolamentari unilaterali in materia di commercio estero, volte a sostenere l’attività economica nazionale, difendere i valori fondamentali della società e promuovere iniziative per favorire la cooperazione tra paesi che hanno valori e sistemi economici simili.  

Per esempio, gli Stati Uniti, piuttosto che negoziare riduzioni tariffarie con PTAs, favoriscono accordi specifici per il coordinamento delle politiche, ad esempio per la regolamentazione dell’economia digitale, investimenti esteri diretti, controlli delle esportazioni, oltre alle catene del valore globali. Il Consiglio per il commercio e la tecnologia tra UE e USA  (TTC) ne è un esempio, come l’Indo-Pacific Economic Framework for Prosperity (IPEF). Tali accordi hanno implicazioni per il sistema commerciale nella misura in cui condizionano sia il commercio che gli investimenti sulla base di valori condivisi, non economici, come l’applicazione delle sanzioni sulle esportazioni alla Russia, la regolamentazione delle piattaforme digitali, il primo, e la sostenibilità ambientale, i diritti umani, le infrastrutture e le politiche anti-corruzione, il secondo.

Un’implicazione della situazione attuale è la necessità di andare oltre l’agenda tradizionale di attenuazione delle ricadute cross border delle politiche economiche nazionali come i sussidi. L’accordo sui sussidi e contervailing measures, non copre le imprese di Stato ed è limitato all’azione degli Stati, quindi è penosamente sorpassato. Da tempo sono le multinazionali, quelle cinesi legate in vari modi, non solo proprietari, allo Stato, a sussidiare imprese in paesi terzi che fanno investimenti in altri paesi. IL WTO è impotente in questi casi sempre più comuni. E occorre riconsiderare l’uso della politica commerciale per la sicurezza (Art XXI) e il perseguimento di obiettivi non commerciali (Art. XX).

Gli accordi plurilaterali, club di paesi simili, sono previsti dal WTO, non devono essere chiusi e potrebbero aggregare Paesi che vogliano distaccarsi dall’egemonia del vicino russo o cinese. In realtà favoriscono il commercio anche di Paesi terzi che possono soddisfare gli standard del gruppo piuttosto che i requisiti di ciascun paese per le esportazioni. Alcuni sostengono che questi accordi dovrebbero essere aperti a chiunque volesse aggiungersi e dovrebbero essere negoziati in sede WTO. Mi sembra però che i limiti del WTO e la geopolitica del presente vadano contro una simile soluzione.  

L’Europa può fare di più 

Occorre però rafforzare la coesione dei blocchi. America ed Europa non possono cavarsela in solitudine e senza Giappone, Pacifico e India. Le lamentele dell’Europa per i sussidi USA all’energia sostenibile – in particolare i crediti d’imposta per i contenuti locali delle auto elettriche – non hanno ragione di essere. L’Europa può permettersi sussidi industriali simili agli USA se solo decidesse di farlo. I tassi d’interesse richiesti per il debito NGEU sono uguali a quelli per i bonds del MES, garantiti da un ingente collaterale versato o impegnato dai Paesi membri, che mostra il largo bacino di domanda potenziale di debito EU. Insieme alle altre iniziative annunciate dalla presidente della Commissione, il Fondo per la sovranità europea – o come si vorrà chiamare – è l’iniziativa giusta non solo per l’autonomia strategica, la sostenibilità energetica, un’efficace difesa militare. Potrà anche dotarsi dei fondi necessari per sussidi europei all’industria “verde” per poter competere ad armi pari con quella statunitense senza chiedere a Biden ciò che gli è politicamente impossibile concedere, né minacciare inutili dispute al WTO. 

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