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RIFORMA BANCHE POPOLARI – La bussola della Banca d’Italia e dell’Antitrust contro il Gattopardo

Troppi Gattopardi s’aggirano contro la riforma delle Popolari ma approvare il decreto del Governo senza tradirne la sostanza è possibile solo assumendo come guida le linee indicate da Banca d’Italia e Antitrust – Il perimetro può restringersi alle sole 7 banche popolari quotate e sui limiti ai diritti di voto la soluzione può essere quella di Via Nazionale.

La pioggia di emendamenti che sta affiorando in Commissione Finanze della Camera sulla riforma delle banche popolari, coraggiosamente voluta e sostenuta dal governo Renzi  con decreto ad effetto immediato, avverte che la battaglia sta entrando nel vivo e che i Gattopardi, com’era largamente prevedibile, sono in agguato. I prossimi giorni saranno cruciali per il cammino della riforma. Da settimana prossima gli emendamenti saranno votati in Commissione e dal 9 marzo il testo del decreto di riforma, che prevede l’abolizione del voto capitario e l’obbligo di trasformazione in spa entro 18 mesi per le Popolari che hanno un attivo superiore a 8 miliardi di euro, sarà all’esame dell’aula di Montecitorio.

Fallito l’attacco alla costituzionalità del decreto,  l’obiettivo degli avversari della riforma e della difesa dello status quo che permette ai “signorotti locali” di gestire le Popolari indipendentemente dalle diverse quote azionarie è  ora quello di ridurne il perimetro o di annacquarla fingendo gattopardescamente di cambiare tutto per migliorarla, ma in realtà depotenziandola nei suoi aspetti innovativi.

Per fortuna  il Governo è deciso a tirare dritto e a ricorrere al voto di fiducia se  fosse indispensabile, ma anche ad ascoltare i pareri di chi (Banca d’Italia e Antitrust in testa) suggerisce reali perfezionamenti alla riforma. I sabotaggi della riforma delle Popolari vanno avanti da troppi anni perché non si debba distinguere con molta attenzione chi propone miglioramenti veri al testo del decreto da chi ha solo il malcelato obiettivo di impaludarlo.

TRASFORMAZIONE IN SPA PER LE POPOLARI PIU’ GRANDI O SOLO PER LE QUOTATE 

La prima questione che la discussione parlamentare ha posto in evidenza riguarda il perimetro delle banche popolari investite dalla riforma e cioè la soglia degli 8 miliardi di attivo al di là della quale scatta l’obbligo di trasformazione in spa entro 18 mesi.  Secondo il direttore generale della Banca d’Italia, Salvatore Rossi, che  lo ha chiaramente argomentato nella sua audizione parlamentare, la soglia dimensionale degli 8 miliardi di euro  “appare ragionevole” e ha il pregio di distinguere nettamente tra le dieci Popolari più grandi che sono ormai assimilabili alle grandi banche commerciali e le altre 27 che sono rimaste più legate al territorio d’origine e allo spirito cooperativistico.

L’Assopopolari obietta che la soglia degli 8 miliardi è troppo bassa e che andrebbe alzata a 30 miliardi per far rientrare nella riforma solo le sette banche popolari sottoposte alla diretta supervigilanza della Bce. L’Antitrust ha suggerito invece di applicare la riforma alle sole Popolari  quotate in Borsa e cioè l’Ubi, il Banco Popolare, la Bper, la Bpm, il Credito Valtellinese, la Popolare di Sondrio e l’Etruria.

Il Governo è disponibile a ragionare su queste proposte ma una cosa deve essere chiara e non può  essere persa di vista e cioè che il voto capitario (“Una testa, un voto” a prescindere dal numero delle azioni possedute), che attualmente è alla base degli statuti delle banche popolari, fa letteralmente a pugni con la quotazione in Borsa e con i più elementari principi della democrazia finanziaria. Siccome la quotazione è una libera scelta, chi va in Borsa va assimilato in tutto e per tutto al regime societario delle altre banche quotate.

Su questo non ci piove e, se non si vuol tradire lo spirito della riforma Renzi, l’unica modifica al perimetro di applicazione del decreto che non grida vendetta è quello suggerito dall’Antitrust: applicare la riforma a tutte le sette Popolari quotate in Borsa. Naturalmente il problema della governance  e della messa in sicurezza delle  grandi Popolari non quotate resta sul tappeto, ma abolire il voto capitario almeno per le quotate sarebbe già un’affermazione di principio di grande rilevanza e un salto di qualità atteso dai mercati finanziari da oltre vent’anni.

VOTO CAPITARIO E LIMITI AL DIRITTO VOTO

Altre proposte emendative riguardano le modalità applicative della riforma:  dal tetto al possesso azionario, ai limiti al diritto di voto, al voto multiplo e alle maggiorazioni al diritto di voto per i soci di lunga data.

Anche qui è bene essere chiari, come lo è stata la Banca d’Italia.  Si può certamente  immaginare di mitigare gli effetti della riforma con opportuni accorgimenti per venire incontro alle ragionevoli istanze da più parti avanzate, ma mitigare non può voler dire stravolgere e questo il Governo lo ha già fatto intendere con nettezza alla lobby trasversale che punta a sabotare la riforma.  

Almeno per le Popolari quotate in Borsa il bivio è chiaro: o le azioni si contano (e allora si abolisce il voto capitario) oppure non c’è riforma. La democrazia finanziaria non può tollerare due pesi e due misure per le società che liberamente hanno deciso di affacciarsi sul mercato dei capitali e di andare in Borsa. E il voto capitario, uscito dalla porta, non può rientrare dalla finestra con camuffamenti gattopardeschi.

Ha ragione quindi la Banca s’Italia a dire che “limiti al possesso azionario, finora una delle principali debolezze della governance delle Popolari, appaiono sostanzialmente contrari alla finalità della riforma”.

L’unica mediazione possibile che salva la riforma temperandone nel tempo gli effetti sembra dunque riguardare la  possibilità di mitigare transitoriamente i diritti di voto senza però rinunciare alla contendibilità che l’abolizione del voto capitario introduce. Ma rileggiamo al riguardo il passaggio chiave dell’audizione del direttore generale della Banca d’Italia: “Limiti al diritto di voto e maggiorazioni di quel diritto per i vecchi soci  stabili – ha detto Rossi – sono già oggi consentiti alle società per azioni. Misure specifiche per le banche popolari che si trasformano, concernenti alternativamente uno dei due strumenti, possono essere considerate non stravolgenti rispetto allo spirito della riforma se fissate in misura tale da non compromettere la contendibilità delle aziende. Modifiche statutarie che li prevedano sarebbero valutate dalla Banca d’Italia, sulla base delle linee-guida europee, nella loro compatibilità con le esigenze di sana e prudente gestione”. 

In ogni caso – concludeva Rossi – “misure di questo tipo dovrebbero comunque essere derogabili di fronte alla necessità di un tempestivo ricorso al mercato dei capitali ed essere volte solo a facilitare la transizione fra i due regimi: compiuta questa, andrebbe ripristinata la piena proporzionalità tra proprietà e controllo, uno dei principali vantaggi della società per azioni” , senza dimenticare che per le maggiori banche popolari “la forma societaria è un handicap, che va rimosso al più presto”.

I prossimi giorni saranno decisivi per l’esito della riforma. Il meglio è sempre nemico del bene e il compromesso alla luce del sole tra istanze diverse è il sale della politica. Ma sui principi della riforma non si può arretrare. Perfezionare il decreto del Governo è possibile, ma la via è quella autorevolmente indicata dalla Banca d’Italia e dall’Autorità Antitrust. Le altre sono solo manovre gattopardesche.

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