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Recovery Fund, decisiva sarà la governance

Non bastano le risorse finanziarie per garantire il successo del Piano di ripresa dell’Italia legato al Recovery Fund – Il nodo cruciale è quello della governance: gli accenni del premier Conte e l’Agenzia a guida Draghi evocata da La Malfa

Recovery Fund, decisiva sarà la governance

Un paio di settimane fa il Governo ha pubblicato il documento “Linee guida per il piano di ripresa e resilienza da sottoporre all’esame del Parlamento nazionale”. Il documento rappresenta il pilastro dell’azione di politica economica del governo per l’utilizzo dei fondi europei della Next Generation EU (il cosiddetto Piano Nazionale di ripresa e resilienza, PNRR).

È in corso un primo vaglio parlamentare ed in considerazione delle valutazioni che il Parlamento vorrà formulare al Governo, sarà elaborato lo schema di PNRR, “recante una previsione razionale e ordinata dei progetti di investimento e riforma. Lo schema sarà quindi presentato al Parlamento, in vista della sua approvazione definitiva”. Il PNNR andrà presentato alla Commissione Europea non oltre il 30 aprile del 2021.

Leggiamo da un documento della Commissione Bilancio della Camera che il PNRR dell’Italia si baserà sul “piano di rilancio predisposto dal Governo nel giugno scorso e sarà costruito secondo una sequenza logica così strutturata: le sfide che il Paese intende affrontare; le missioni del programma, a loro volta suddivise in cluster (o insiemi) di progetti omogenei atti a realizzare le missioni e, di conseguenza, vincere le sfide stesse; i singoli progetti di investimento, che saranno raggruppati nei cluster; le iniziative di riforma che saranno collegate ad uno o più cluster di intervento.” Le missioni individuate sono sei e riguardano i seguenti argomenti: 1) Digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo; 2) Rivoluzione verde e transizione ecologica; 3) Infrastrutture per la mobilità; 4) Istruzione, formazione, ricerca e cultura 5) Equità sociale, di genere e territoriale; 6) Salute. Le iniziative di riforma e le politiche di supporto, collegate ad uno o più cluster di intervento, riguardano invece l’incremento degli investimenti pubblici, la riforma della pubblica amministrazione, l’aumento delle spese in ricerca e sviluppo, la riforma del fisco, la riforma della giustizia e la riforma del lavoro.

Il programma è certamente vasto e, anche se la “sequenza logica” appare afflitta da una buona dose di barocchismo procedurale, sarebbe difficile non essere d’accordo con le missioni individuate. Il punto principale è però un altro: quando dalle aree di policy (le missioni nel linguaggio del Piano) si passerà agli “strumenti” (i progetti nel linguaggio del Piano e le iniziative di riforma) le idee molto difficilmente potranno coincidere. Per curare un malato (e non v’è dubbio che l’economia italiana sia malata) non basta dire che vorremmo che il malato stesse meglio: bisognerebbe essere d’accordo sulla diagnosi e poi sulla terapia. Ma i partiti di governo hanno differenti visioni su quali siano le ragioni per cui l’Italia registra lacune e ritardi in tutte le sei missioni individuate (la salute è forse la meno critica anche se la gestione dell’emergenza COVID ha evidenziato sensibili lacune nei servizi sanitari sul territorio con marcate differenze regionali che incidono sul diritto alla salute che invece dovrebbe essere uniforme in tutto il Paese). E anche le riforme della pubblica amministrazione, del fisco, della giustizia e del lavoro in passato sono state tentate: qualcuna abortita, qualcuna realizzata, nessuna di successo.

Sono venticinque anni che cresciamo meno del resto d’Europa e sono venticinque anni che la politica parla di competitività o di riequilibrio territoriale. Le ragioni per cui le riforme non sono state realizzate o sono andate male, perdiamo competitività, il Mezzogiorno cresce drammaticamente meno del resto del Paese, i livelli di istruzione non migliorano, etc., sono svariate ma hanno un denominatore comune: la bassa coesione delle maggioranze che hanno guidato il paese e che hanno sempre impedito di portare avanti con chiarezza una visione sui fattori trainanti la crescita. Anche i governi Renzi e Gentiloni, che pure avevano un’idea di modernizzazione del paese, alcune riforme non le hanno neanche tentate perché, pur essendo di fatto un monocolore PD, avevano all’interno tre diverse anime come certificato dalle scissioni prima di LEU e poi di Italia Viva in questa legislatura. Ed il governo giallo-rosso non sfugge a questa “maledizione” della politica italiana (destinata verosimilmente ad aggravarsi con un sistema elettorale proporzionale): la visione comune su quale paese vogliamo essere appare oggi piuttosto vaga e le culture politiche dei diversi partiti difficilmente riusciranno a produrne una sufficientemente coesa in così poco tempo.

Questa volta, a differenza che nell’ultimo quarto di secolo, c’è una novità significativa: ci sono le risorse finanziarie (anche se alcune degli interventi in realtà non ne avrebbero bisogno). Ma è una novità che non è garanzia di successo. Anzi. Viste le differenti visioni e la mancanza di un’analisi condivisa sulle gravi difficoltà economiche e sociali del paese, il rischio è che il PNRR venga costruito come una sommatoria delle richieste dei vari centri di potere (le regioni, le diverse costituencies elettorali dei partiti, le grandi imprese e i sindacati). Da questo punto di vista la governance del Piano sarebbe decisiva per evitare un piano costruito bottom-up.

Il Presidente Conte ha toccato il tema in occasione della recente assemblea di Confindustria evocando una struttura normativa dedicata con norme specifiche e soggetti attuatori dedicati che garantisca un monitoraggio trasparente e tempi di attuazione certi. L’affermazione è sufficientemente ambigua e, come ha osservato Giorgio La Malfa, sembra riferita all’attuazione del piano non a chi e come verranno valutati i progetti d’investimento (per ora l’inventario dei progetti di investimento predisposto dai ministeri ha prodotto un elenco di quasi 600 progetti!). In tempi di espansione della politica e di crisi delle cosiddette tecnocrazie, difficile aspettarsi che venga istituita un’Agenzia a cui delegare la selezione dei progetti sulla base di criteri efficientisti e guidata da una personalità non legata ai partiti (La Malfa aveva evocato Mario Draghi).

L’affermazione di Conte non esclude che la struttura dedicata sia semplicemente un ufficio della Presidenza del Consiglio creato ad hoc in ottemperanza alla richiesta della Commissione di avere un interlocutore unico con cui relazionarsi. Il tema della governance resta dunque aperto anche se l’aria che tira non sembra delle migliori. Perché il Next generation EU non sia l’ennesima occasione persa per la ripresa del Paese si dovrebbe evitare che la “struttura dedicata” si limiti a registrare le pressioni localistiche – i governatori che ormai controllano una vasta fetta dei consensi elettorali – e gli appetiti dei partiti nazionali e che il Piano divenga così una gigantesca sede di mediazione politica. Ma possiamo ancora sperare che le volpi non siano messe a guardia del pollaio?

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