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Racconto della domenica: “Una storia di mummie” di Carlo Animato

Siamo seri: i morti non parlano. Sta alla scienza riportare alla luce i frammenti del passato, rompere il silenzio a cui il passare dei secoli costringe chi ci ha preceduto. Ma immaginate per un momento che due antiche mummie, niente altro che carne incartapecorita offerta all’esame di un eminente professore, si mettano a ragionare tra di loro, per le sole orecchie di uno sbalordito custode nascosto nel buio; scoprireste che in realtà i morti hanno molto, molto da dire. Con un’ironia british, Carlo Animato getta uno sguardo acutamente critico sulla tracotante miopia della scienza, sull’umano errare e sul difetto tragico dell’uomo: la fede incondizionata nella propria ragione

Racconto della domenica: “Una storia di mummie” di Carlo Animato

Nonostante tutto, nonostante ciò che si possa pensare in questi tempi riottosi, vi assicuro che quello del guardiano di museo è il più bel mestiere del mondo. E posso ben dirlo io, che al Museo Civico di Saltless ci sono entrato da giovane lavorandovi ininterrottamente per mezzo secolo e sei mesi, senza mai assentarmi. Un lavoro tranquillo in mezzo a reliquie trasportate dal passato, a contatto con dei morti che stanno zitti e buoni e dei vivi che pagano il biglietto per farsi un giretto lungo i corridoi della Storia e dell’Arte.

Manco un giorno di permesso ho fatto, sempre al mio posto, in mezzo a un’antichità che non disturba e a un sapere che non infastidisce. Be’, nemmeno un giorno se evitiamo di contare la disgraziatissima settimana caduta subito dopo il fattaccio dell’ottobre del millenovecentocinquanta… quando rimasi a letto tra la vita e la morte. Inspiegabilmente, e senza preavviso. Una dannata febbre da cavallo, causata da ciò che il medico ancora oggi insiste a chiamare allucinazioni etiliche.

Io però so benissimo cosa erano in realtà queste “allucinazioni”, e il resto sono tutte chiacchiere messe in giro da sprovveduti. Quantunque anche i due nobiluomini di veneranda età, se lo volessero, potrebbero confermarvi per filo e per segno ciò che avvenne nel sotterraneo del nostro museo in quella fredda sera d’ottobre.

Tutto accadde, come ogni anno, durante l’allestimento della mostra archeologica per le scuole della contea. Il professor Gliddon aveva avuto il permesso di restare all’interno del museo, oltre l’orario consentito, il che gli avrebbe permesso di terminare le ultime ricerche sul materiale contenuto nelle tre sale delle scantinato, prima di traslocarle al piano superiore.

I reperti che lo studioso stava analizzando da un po’ di tempo, provenivano da certi scavi effettuati da valenti archeologi, in giro per il mondo, per conto della prestigiosa Fondazione Moremoneythanculture, al cui circuito anche il nostro museo privato appartiene. Dunque io, quella sera, mi accingevo a compiere, come di consueto, l’ultimo giro di ispezione per i locali, prima di ritirarmi nella mia stanza. Scesi nei sotterranei, ancora illuminati, dove Gliddon trafficava da qualche giorno accanto ad alcune mummie e al corredo funerario rinvenuto nelle loro tombe.

«Caro professore» gli dissi proprio quella mattina, mentre gli preparavo una tazza del mio caffè forte all’italiana «se questi suoi cadaveri potessero parlare, io credo che il suo lavoro ne sarebbe molto, molto facilitato, ne conviene? E lei non perderebbe tanto tempo, lavoro e sonno, a studiare, verificare, controllare.»

«No, dubito che sconvolgerebbero ciò che già sappiamo, amico mio» rispose lui, tuffando tre immacolate zollette nel liquido scuro, e annegandole una a una col cucchiaino, affinché non risalissero più a galla. «Grazie a Dio la scienza è così avanzata, le nostre conoscenze talmente approfondite che siamo in grado di ricostruire tutto com’era, anche solo analizzando un piccolo frammento, una traccia insignificante, una prova marginale.»

Gliddon buttò giù il suo caffè, poi si avvicinò ai due armadi lignei aperti posti l’uno di fronte all’altro.

«Prendi ad esempio queste due mummie.»

Li conoscevo bene, quei due fagotti polverosi a cui ci era tassativamente proibito di avvicinarci.

«La prima è di un nobile egiziano. Vedi la carnagione rossastra, la pelle solida liscia e brillante?»

Annuii.

«Il medico legale che lo ha analizzato dice che aveva fegato ingrossato e disturbi circolatori. Io, dopo aver studiato i geroglifici ritrovati sul suo sarcofago interno, aggiungo che si chiamava Allamistakeo, che aveva un titolo più o meno simile a quello nostro di conte, e si sposò quattro volte, ma non ebbe figli.»

La cosa mi impressionò alquanto. «E l’altra?» chiesi, incuriosito dalla disquisizione di quel detective del passato.

«La seconda mummia, rannicchiata in posizione fetale, è più giovane. Con lui ho quasi finito, poiché stanotte penso di completare la sua carta d’identità.»

«Viene da un altro Paese?»

«Era un sacerdote inca, morì di polmonite poco prima della conquista spagnola del Perù. Come vedi, anche se li ha ricoperti della sua patina, l’età non può impedire, a noi posteri esperti, di svelare i loro più intimi segreti. Bastano fiuto e strumentazioni adatte» fu la sua conclusione.

A me sembrò veramente portentoso penetrare i misteri del tempo e scoprire, dopo migliaia di anni come se fosse ieri, le avventure matrimoniali di un signore del Nilo o i malanni di un prete sudamericano. E anche adesso che mi inoltravo nelle sale deserte e silenziose, a ripensarci, quelle piccole dimostrazioni di sapere antico e investigazione moderna avevano destato in me un illimitato senso di ammirazione nella scienza e nei suoi apostoli.

Meditando questi pensieri, ero giunto al locale delle mummie; ma il professore, assorto in non so che cosa, non aveva fatto caso al mio arrivo. Lo vedevo lì, dinanzi a me, armeggiare curvato sopra un tavolo, posto proprio al centro della stanza, in mezzo ai due autorevoli cadaveri, collocati nelle teche, spalle al muro, uno di fronte all’altro.

Gliddon era lì, soltanto fisicamente, poiché si capiva benissimo che con la mente era invece impegnato in uno dei suoi viaggi investigativi nel passato. Di tanto in tanto il professore sospirava, oppure emetteva una risatina compiaciuta, e prendeva appunti sopra un quadernetto. Pensava a voce alta, astraendosi da quanto lo circondava, figurarsi se poteva far caso a me che procedevo col passo felpato del sorvegliante a caccia.

Quale meravigliosa occasione di spiarne il lavoro, avevo, e magari di imbarcarmi clandestinamente in quella sua spedizione notturna! Decisi di raggiungere la prima colonna di marmo sulla sinistra, senza farmi notare, e di nascondermici dietro, restando lì se fosse occorso. Il giro d’ispezione agli altri piani poteva aspettare, tanto il sistema d’allarme per il momento avrebbe continuato a fare il suo solito notturno dovere.

Da quella postazione tenevo sotto controllo il professore, potendo distinguere tranquillamente i suoi movimenti e gli oggetti disposti sul tavolo.

«Sei e nove, nove e sei» sbottò all’improvviso, emergendo dal profondo dei suoi ragionamenti. «In questi due numeri è raccontata tutta la tua storia, caro il mio reverendo.»

Così dicendo il professore s’era rivolto alla mummia accucciata, quella del sacerdote inca, la cui anima, ora, chissà in quale eldorado celeste vagava serena, dimentica di conquistadores barbuti e missionari smaniosi. E le mostrava, sollevandola, una treccia di lana che avevo già notato in precedenza, e che il cartellino messo nella bacheca, per informare i visitatori, nominava quipu.

Adesso, vedendola bene illuminata tra le mani del professore, ricordavo questa corda orizzontale, da cui pendevano sei cordicelle più piccole intrecciate e colorate, segnate ciascuna da uno o più nodi sottostanti, per il totale di nove. E mi ritornavano alla mente anche le spiegazioni del direttore, che il quipu aiutava i distratti: «Più o meno come noi quando facciamo un nodo al fazzoletto, per ricordarci un appuntamento o un impegno» aveva detto semplice, per farsi comprendere, a una scolaresca in visita. E visto che in quella terra misteriosa, prima che fossero distrutti dagli spagnoli, di quipu ce n’erano tantissimi, io ne dedussi immediatamente che gli incas dovevano essere un popolo di gente assai distratta. E senza moccichini, per giunta.

«Pensi davvero che noi avessimo bisogno di tutti quei promemoria?» la voce improvvisa mi colse alla sprovvista. Evidentemente il professore doveva essersi accorto della mia presenza alle sue spalle. Ma come faceva ad aver ascoltato i miei pensieri? E poi, perché mi parlava con un plurale? Noi chi?

«O ritieni forse che noi non avevamo cervello?» aggiunse con un velo di stizza, tirando una lunga boccata di fumo dall’inseparabile pipa. Mentre ascoltavo la sua nuova domanda, si mise di profilo rispetto a me. E vedendolo bene in volto – a meno che Gliddon non possedesse capacità ventriloque – compresi che a parlare doveva essere stato qualcun altro. Mi guardai attorno ma non vidi nessun altro. Nella stanza eravamo in due, e allora mi chiesi: se il professore non aveva aperto bocca, né si era accorto di me, possibile che avesse ragione mia moglie, la quale è del parere che da un pezzo non riesco più a reggere le mie quotidiane tre bottiglie di birra scura?

«Per i gatti di Bubaste, siamo alle solite!» esclamò un’altra voce, arrugginita dal tempo, nel più puro egiziano credo, e che pure, chissà come, riuscivo a comprendere. «Possibile che, dopo cinque secoli, non hai ancora imparato a infischiartene delle sentenze dei posteri? Sono soltanto opinioni.»

«Sbagliate» grugnì l’altro.

«Ma opinioni, umane per di più, quindi approssimative. Tu dovresti prenderla con un po’ più di filosofia, amico caro. Se l’avessi fatto anch’io da vivo, non mi sarei rovinato il fegato.»

«La filosofia è una materia che dalle mie parti, ai miei tempi, non si usava.»

«E allora rilassati con la poesia» sospirò il figlio d’Africa. «Come diceva quel poeta? China la fronte dinanzi al Massimo Fattor che volle in noi, del creatore suo spirito più vasta orma stampar!»

«O solare provvidenza del Perù, per te è facile parlare come un papiro geroglificato» replicò irritata la prima voce cantilenante, da me scambiata dapprima per quella di Gliddon, ma che adesso sentivo più chiara giungere dalla bacheca incaica. «Oramai son migliaia di anni che subisci i loro studi, e avrai avuto modo di abituartici. Ebbene, io no, caro il mio rassegnato Allamistakeo. Sono più giovane di te e continuo a nutrire una personale insofferenza di principio verso questi studiosi moderni.»

«Gli studiosi sono tutti uguali, da che il mondo è mondo. Tra le loro fila c’è sempre stato chi si sopravvaluta, no?»

«Nel mio impero» disse il sudamericano «c’erano scuole rette da docenti di casta, sì; ma oggi in queste comunità di scuole, aperte a tutti i ceti – il che dovrebbe essere indice di progresso – alcuni professori si credono onniscienti, senza punto di sapienza.»

«Sì, anche a me pare così» soggiunse l’altro. «Quanti allievi potrebbero in coscienza jurare in verba magistri?»

«Ah, lo ignoro!»

«È l’esempio che manca, esimio collega, e la categoria dei docenti è squalificata. Si citano o rubano a vicenda, si beccano tra loro e tutto in omaggio alla regola del “morte tua, vita mia”.»

«O what nobles minds are here o’erthrowns!» esclamò l’inca, per far vedere che, a dotta citazione latina, sapeva replicare in una lingua altrettanto universale.

«Così va il mondo, figlio del condor, cosa vuoi farci?» rispose alla fine il conte, con flemma nilotica. «Quantunque, ti ripeto, questo pianeta, che solca sicuro i cieli squarciati dal sole e ingentiliti dalla luna, non sia poi tanto mutato.»

«Ah no?»

«Da noi, durante l’undicesima dinastia del Medio Regno, tanto per farti un esempio, si confondevano molte storie dei periodi predinastici. Gli accademici, avendo perduto tante idee del nostro passato, mescolavano le antichità alla luce delle loro interpretazioni di posteri, ma anche dei loro pregiudizi, convinzioni o abbagli.»

«Fammi un esempio, di grazia.»

«Il primo archeologo scavava e rinveniva un vasetto? Ciò lo convinceva di aver scoperto una cantina di vini. Il secondo però, studiando i colori del vaso, lo riteneva un’anfora per i profumi. Poi arrivava un terzo a sostenere che il recipiente serviva da porta-unguenti, non escludendo la possibilità che venisse usato per le quotidiane abluzioni.»

«Mi stai convincendo che gli uomini sono sempre uguali a loro stessi.»

«Già, tuttavia ho notato un uso esecrabile in funzione presso le attuali accademie: i maestri di oggi sfruttano le intelligenze degli allievi, allettandoli con promesse di impiego e future prebende.»

«Mi pare nell’ordine delle cose.»

«Se i patti venissero rispettati, sì. Ma una volta succhiata la loro energia, come vampiri notturni, ne gettano via le carcasse svilite. E poi accusano noi di effettuare sacrifici umani!»

«Anche da noi era d’orgoglio per un insegnante riconoscere i meriti dei discepoli» soggiunse l’andino.

«Hodie multi enim magistri nomen habent, pauci vero magistri sunt» concluse l’altro, dando sfoggio del suo latino invero molto elegante.

Ormai mi era ben chiaro: le mummie, non so come, parlavano. Ora voi, senza dubbio, crederete che ascoltando un simile discorso, in simili circostanze, mi precipitassi verso la porta, o forse venissi colto da un attacco isterico, o magari cadessi svenuto. Nulla di tutto questo capitò quella sera (la tensione e la paura, nel ripensarci, mi colpirono soltanto il giorno dopo), poiché l’eccezionalità di tale evento tramutò provvisoriamente il terrore in curiosità, invogliandomi ad ascoltare con crescente interesse quel duetto al di là del tempo e dello spazio.

Dal canto suo Gliddon, ignaro del tutto, continuava imperterrito a raccogliere appunti, esaminando i suoi reperti peruviani; appariva affatto disturbato da quel dialogo eccezionale, tanto da convincermi che – per qualche fortuita evenienza o mistero telepatico o soprannaturale evenienza – soltanto io ero in grado di percepire quelle voci provenienti dalla Storia.

Tacitate le mummie, mi chiedevo ora se avrei dovuto palesarmi al professore, quando: «Ma certo!» sobbalzò all’improvviso Gliddon, come morsicato da una tarantola rosea del deserto di Atacama. «Perché mai non ci sono arrivato prima?»

«Adesso ci divertiamo» sghignazzò l’egiziano. «Ecco che l’umanità futurista ha ritrovato il bandolo della tua ingarbugliata matassa andina.»

Il peruviano si strinse nelle spalle: «Che vuoi che sia? Avrà finalmente decifrato quel quipu che misura e controlla da più settimane, le cui corde non contengono altro che il mio nome per esteso: Allapacamasca, che vuol dire terra animata».

«Molto poetico, invero» commentò il conte nilotico, il quale dal canto suo sopportava con incorrotta dignità il nome impostogli dallo spirito bizzarro del genitore.

Gliddon annotava rapido, parlando a voce alta.

«Da quel che capisco, questo quipu di lana è ben diverso da quelli cosiddetti di computo. Cioè non contiene numeri ma lettere. Come fanno gli altri esperti a confondere gli uni e gli altri?»

«È quel che mi domando anche io, bravo!» apprezzò l’inca.

«I miei colleghi sostengono che queste sei corde, infilate nel suo corredo funerario, e indicanti oro e argento, provviste, animali, coperte e altro ancora elencano i debiti lasciati in vita da questo prete pagano.»

«Pachacamac mi è testimone: mai fatto debiti in vita mia!» protestò la mummia. «E comunque, “pagano” a chi?»

«Siamo alle solite, non te ne curare» borbottò l’egiziano. «Come se non ti fosse già chiaro che, a loro avviso, noi tutti – nati prima di Cristo (come noi) o lontani da Cristo (come voi) – siamo complessivamente considerati quali un branco di irriducibili politeisti, stupidi seguaci di mostri crudeli, fenomeni naturali, astri potenti e bestie antropomorfe.»

Già, adesso ricordavo anch’io, al riparo della mia colonna. Avevo già sentito parlare di colossali feste in onore del sole e della luna sia in Egitto che in Perù, dei loro culti superstiziosi e politeisti, di infantili venerazioni di divinità maschili, femminili e animali. Tutto indice di arretratezza e paganesimo che… Non avevo però neanche terminato di formulare completamente quel pensiero dentro di me che l’inca, rivolto all’altra mummia dirimpettaia, reagì sdegnata: «Ma lo senti anche tu cosa sta pensando quell’altro mentecatto, che si acquatta e nasconde come un miserabile ladro di tombe?».

Colto ancora una volta in flagranza di pensiero, sobbalzai.

«Ehi tu, guardiano, per la corda dorata di Huascar!» riprese il sudamericano. «Possibile che in questo tempo siete ancora tanto retrogradi e così pieni di pregiudizi, da prestar fede alle chiacchiere dei primi missionari che ci invasero di malagrazia?»

Chiamato in causa dalla mummia stizzita, ingoiai a vuoto.

«Come si fa a penetrare nelle vostre zucche e a spiegarvi che non eravamo affatto inferiori, anzi che – al fondo della religione – riconoscevamo sopra ogni cosa un Onnipotente unico?»

«Ah sì, è gente primitiva assai» convenne il parente di faraoni. «Ci contestano la fede in una moltitudine di divinità, proprio loro che venerano impunemente migliaia di santi, angeli e madonne! Come si diceva nel mercato di Luxor, è il bue che chiama cornuto l’asino.»

«Ebbene, quando fanno così, io certe volte mi sento proprio cadere le braccia» ammise sconsolato il peruviano.

«Questo piuttosto dev’essere tutta colpa di quel vostro procedimento di mummificazione alquanto scadente» ghignò il conte con nubiana ironia sotto lo sguardo offeso dell’altro. «Non te la prendere, ma ecco perché, al finale, noi manteniamo sempre la calma, e tutti i pezzi integri al posto loro.»

Involontario e provvidenziale, uno sbatter di mani da parte di Gliddon interruppe il sorgere della nuova polemica. «Che idea bislacca» esclamò enfatico «credere che questo morto fosse stato seppellito assieme a una lista di debiti e di pagherò… Certi miei colleghi sono davvero degli asini vestiti da dotti, ma stiano pur tranquilli: li sbugiarderò tutti nel mio prossimo saggio, questo è sicuro!»

Le due mummie adesso tacevano, e potei ascoltare le conclusioni del professore, impegnato a parlare con un interlocutore immaginario.

«Che cosa ho capito io, invece? Interpreto i segni che ci hanno tramandato su queste cordicelle. Dunque questo simbolo di serpente ha un nodo sottostante…»

«Bravo!» esclamò l’inca. «È un quipu sillabico, questo. Vuol dire che della parola amaru devi prender la prima sillaba.»

«Segue poi una treccia di colori mischiati, il llautu portato in testa dal re come simbolo d’autorità, anche questo con un nodo inferiore…»

«Mi compiaccio, professore» gongolava il figlio delle Ande. «Cattura la sillaba e avrai ottenuto la radice del mio nome completo. A + lla = Alla… ma non perdiamo tempo a farci i complimenti, e vai avanti.»

«Un uomo disgraziato, questo peruviano!» proseguì Gliddon.

«In che senso?» chiese l’interessato, rabbuiandosi, tuttavia la domanda restò irrisolta nell’aria.

«Ma sì» proseguì il ricercatore, ricapitolando a se stesso. «La storia è questa. L’imperatore, qui simboleggiato dalla sua fascia di comando, un brutto giorno vien morso da un serpente. Il simbolo quadrato a quattro colori indica l’impero incaico – diviso appunto in quattro grandi province – che fu messo sottosopra alla ricerca di chi potesse guarire il Signore dal veleno.»

 La risata dell’egiziano gorgogliò come la piena del Nilo. «Vecchio peruviano, il professore si è appena inventato su due piedi il milleeduesimo racconto notturno di Sheherazade!»

«Il nostro uomo giunse nell’antica capitale e venne chiamato al capezzale dell’augusto ammalato, ma questi altri nodi ci dicono che ogni suo sforzo fu vano.»

«Nientedimeno, un medico incapace!» gorgogliò il suddito di faraoni.

«Ne avesse indovinata una… E ora che cosa faccio?» chiese sconsolato Allapacamasca.

Gliddon guardava adesso la mummia sudamericana, fissandola nelle orbite vuote con l’intimo compiacimento di chi ha smascherato un pervicace segreto. «Grazie alla mia capacità di interpretazione e lettura delle vostre vecchie corde annodate, poteva mai sfuggirmi la tua vera identità?»

«Mira il tuo biografo» ghignò il conte egizio.

«Altro che mirarlo! Vorrei potermi muovere per dargli un morso su quel naso di scienziato che scatarra stupidaggini.»

«Suvvia, porta pazienza. In fondo, che male farà all’umanità tutta questa trascurabile inesattezza?»

«Ma è la mia vita!»

«Lo fu, e allora? Deponila insieme alle altre bugie che deformano il passato dell’uomo, che si abbeverano alla storia menzognera scritta dai vincitori a scapito dei vinti, e sarà un abbaglio in più; un inganno come quello di chi continua, per esempio, a ripetere che voi inca eravate un popolo colto ma senza scrittura.»

«Dovrei starti a sentire, in fondo, perché sei certamente più vecchio e ne hai viste di peggiori, no?» meditò il peruviano, con palese scorata rassegnazione.

«Inutile intossicarsi da quest’altra parte, in cui siamo, ove ci è dato di conoscere la vera verità sulla vita e sulla morte. Vivi sereno i tuoi giorni da mummia, mio giovane amico. Sorridi paziente alle chiacchiere dei ciceroni, mandate giù a pappagallo; ignora le teorie e i saggi, scritti riscritti scopiazzati… Perdona loro, perché molto spesso non sanno quello che dicono. E forse il medesimo trattamento di incomprensione capiterà un giorno anche a loro, dopo che saranno giunti nella beatitudine eterna.»

L’inca tacque a lungo e alla fine sbottò, con quel suo caratteraccio che si ritrovava: «Sai cosa ti dico? Che se questo è l’unico modo per entrare nella Storia, meglio uscirsene subito allora».

E nessuno dei due aggiunse altro.

Io temo che troverete molta più difficoltà nel convincervi di questa faccenda di quanta ne provai io quel giorno e i giorni a seguire, roso da una febbre maligna che mi procurò deliquio e delirio. Tuttavia i fatti avvennero proprio come vi ho raccontato né, dopo tanti anni, ho alcun interesse a mentirvi. Di certo, quando le voci cessarono, venni fuori dal mio nascondiglio e mi avvicinai a Gliddon, che fumava la pipa rileggendo ancora e ancora i suoi preziosi appunti.

«Caro buon Leaveofwriter]» mi disse gioviale, alzando la testa dalle sue carte «questa serata è stata davvero proficua.»

«Avete fatto buona caccia, professore?»

«Ho finalmente scoperto l’identità e la storia del vecchio gentiluomo sudamericano che vedi in quest’angolo, ribaltando la teoria oggi ritenuta convincente. Da domani, il mondo accademico dovrà darmene atto, e sarò riconosciuto per il mio lavoro. Proprio una grande impresa, non trovi?»

Non trovavo. Eppure fu esattamente a quel punto che il “vecchio gentiluomo peruviano” mi sorrise complice. O almeno mi parve. Poiché, per quel che ne so, non posso a tutt’oggi ancora escludere che il volto stesse invece per scartocciarsi. Del resto, il fegatoso conte egizio, che di queste cose se ne intendeva, lo aveva anche detto: mummificazione scadente.

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