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Racconto della domenica: “Un posto schifoso”, di A. Santacaterina

Una coppia come tante, che abita in un «posto schifoso» dove nessuno conosce davvero nessuno e i soli veri frequentatori di casa diventano i personaggi della televisione, sempre accesa durante i pasti, per tenere compagnia. Quando una piccola gentilezza, straordinaria per la sua ordinarietà, porta la promessa di un ospite, per un invito a cena, la vita di una coppia come tante cambia. Andrea Santacaterina scrive un racconto prosaico e sincero sulle distanze tra gli uomini, specie a cui apparteniamo ma che, sembra, non siamo comunque in grado di capire.

Racconto della domenica: “Un posto schifoso”, di A. Santacaterina

Eravamo sempre in tre a cena: io, mia moglie Chiara e il tizio del telegiornale. Uno con l’aria da prete tedesco, i capelli color fumo e il naso grande. Succedeva raramente che il giornalista non fosse presente. E cioè quando io e Chiara cenavamo fuori. In quel caso sarebbe stato troppo complicato portarci dietro il televisore.  

Chiara si lamentava sempre del fatto che corressi ad accendere la tv non appena rincasavo. Diceva che non le stava bene. Che almeno a cena avremmo dovuto parlare. Di qualsiasi cosa, ma parlare. 

Ecco perché spesso iniziava un discorso prendendolo alla larga e lo faceva chiedendomi come fosse andata al lavoro. 

«Così» rispondevo io stringendomi nelle spalle senza distogliere lo sguardo dalla tv. 

Mi scocciava dirle che gli affari non andavano un granché. A quel tempo riparavo elettrodomestici a domicilio e il mio lavoro, il più delle volte, consisteva nel rimuovere qualche monetina dal filtro di una lavatrice, oppure nel ricaricare il freon di un congelatore scassato. 

Niente che mi aggiustasse il morale o che mi potesse arricchire. 

Insomma, cercavo di tenere nascosto a Chiara il fatto che le palle mi giravano come il cestello di una Aquos a ottocento giri di centrifuga. Quel giovedì, lei approfittò del fatto che la mia attenzione era di nuovo tutta per il prete tedesco. 

«Ho invitato il signor Betti a cena» disse. 

Distolsi per un attimo lo sguardo dalla tv e la guardai. Poi guardai di nuovo il tipo del telegiornale con aria interrogativa.  

A Chiara dovette sembrare che gli stessi chiedendo: «Ma l’hai sentita anche tu?». 

«Il signor Betti?» dissi poi. 

«Sì. L’ho invitato a cena.» 

«E quando?» 

«Domani.» 

«Ma come ti è saltato in testa?» 

«Dai, tesoro. È una stupida cena.» 

«Oh cazzo, Chiara. Sarà anche una stupida cena ma il signor Betti è una delle persone più strane che conosca.» 

«Dipende da cosa intendi per strano. Anche tu sei strano a volte, Raimondo.» 

Nel dire “strano” Chiara aveva posato il cucchiaio con cui stava mangiando la sua zuppa e aveva disegnato quelle odiose virgolette in aria utilizzando l’indice e il medio di entrambe le mani.  

«Ok, sarò strano anch’io. Ma questo non vuol dire che la gente mi invita a cena senza motivo. Sono stato a cena dai Colonna ultimamente? Oppure, non so, la signora Alessi ti ha mai chiesto se potevo mangiare da loro una di queste sere?» 

Chiara rise, poi disse che lo aveva fatto senza pensarci. Raccontò di come il signor Betti, in uno slancio di gentilezza, l’avesse aiutata con le buste della spesa qualche giorno prima. 

«Sai avevo comprato anche quella.» 

Indicò uno scatolone ancora chiuso che aveva l’aria di essere piuttosto pesante e disse che per ringraziarlo dell’aiuto gli aveva detto della cena. 

Il signor Betti abitava all’ultimo piano, l’ottavo. Scommetto che nessuno nel condominio conoscesse il suo nome. Per tutti era il “signor Betti”. E penso che l’appellativo “signor” davanti al suo cognome, se lo fosse guadagnato per il fatto che si rivolgesse alle persone dando sempre del lei. Il suo campanello, nel citofono, era l’unico con un unico cognome scritto sopra. 

Era un uomo altissimo e questo già bastava a mettere soggezione. Doveva avere una cinquantina di anni. Aveva le spalle leggermente curve e camminava un po’ ingobbito, come se sorreggesse qualcosa di invisibile con la schiena. Stava tutto il giorno in giro. A qualsiasi ora, e con qualsiasi condizione atmosferica, lo trovavi in qualche posto del quartiere. Soprattutto se ne stava seduto sulla panchina dietro l’edicola. L’unica al sole nel raggio di un chilometro. Questo mi fece dedurre che non avesse un lavoro. In caso contrario non avrebbe avuto tutto quel tempo libero. 

Indossava sempre un impermeabile beige e un foulard verde. Anche nei giorni caldi. Quando pioveva, invece, portava anche un ombrellaccio nero. Non che lo aprisse, sia chiaro. Lo teneva come un bastone da passeggio, puntando l’estremità metallica nell’asfalto per sorreggersi e non scivolare. Ogni volta che lo incontravo mi domandavo come facesse ad andare avanti. Solo in un’occasione avevo avuto uno scambio di battute con lui. Quattro o cinque mesi prima. Avevo aperto la porta dell’ascensore e l’avevo trovato dentro. Se ne stava appoggiato alla parete con lo specchio, con gli occhi piccoli e neri che sembrava gli avessero messo le pupille sbagliate nelle orbite. Per poco non urlai per lo spavento. 

“Mi schiaccia l’otto, per favore” mi fece lui. 

Lo accontentai. Nel tragitto fino all’ottavo piano non parlammo di come la primavera tardasse ad arrivare o di quanto traffico ci fosse in città. Lui non disse niente di questo ma qualcosa a proposito del mondo. 

“Non è un posto per tutti, questo qua.” 

Disse esattamente così. E io seppi solo annuire e dire “arrivederci” non appena le porte dell’ascensore si aprirono e lui fece per uscire. Questo episodio non l’ho mai raccontato a Chiara. 

Comunque arrivò il venerdì e, quando rientrai con una buona bottiglia di Cesanese, la casa sapeva di lavanda mista a qualcosa che si stava cuocendo nel forno. Pollo, forse. 

Chiara era già ai fornelli e sembrava esserci già da un pezzo da come era sporco il grembiule da cucina che indossava. Quello con su scritto Non cucino come mia madre. Che non ho mai capito se fosse un insulto alla cucina di mia suocera o a quella di Chiara. 

«A che ora?» dissi io mentre mi toglievo le scarpe impolverate. 

«A che ora cosa?» 

«A che ora gli hai detto di venire?» 

Chiara alzò gli occhi sull’orologio appeso alla parete e disse che doveva essere già arrivato.  

«Secondo me non viene» dissi io. «E non mi stupisce che non abbia avvisato.» 

«Non penso. A me sembra una così brava persona.» 

Passò circa mezzora durante la quale Chiara non disse neanche una parola. L’unica cosa che fece fu spegnere i fuochi e far cessare lo sfrigolio dell’olio nella padella. 

Avrei scommesso un milione su quello che avrebbe detto da un momento all’altro. 

«Sarà successo qualcosa al signor Betti.» 

Sarei stato milionario. 

«Amore, cosa vuoi che sia successo?» dissi. «Non è venuto e basta. Strano com’è quello lì, magari se lo è anche dimenticato.» 

«Non è così, Raimondo. E più di mezzora che aspettiamo. Dobbiamo andare a vedere se è successo qualcosa.» 

Chiara mi fissò per un attimo. Poi si tolse di dosso il grembiule slacciando il nodo dietro la schiena. Lo lanciò senza far caso a dove atterrasse. Prese le chiavi di casa e uscì sul pianerottolo. 

Riscaldare il pollo e mangiare era la seconda opzione. 

La prima, che non lasciava scelta, era quella di seguire mia moglie. Salii le scale di corsa mentre sentivo che Chiara già bussava alla porta su all’ottavo piano. Bussava ancora quando arrivai, ansimando. 

«Signor Betti? Signor Betti, mi sente?» 

Chiara sembrava davvero preoccupata. 

«Tesoro, smettila. Magari sta solo dormendo» dissi nel tentativo di calmarla. Ma il mio consiglio ebbe lo stesso effetto di quelli scritti sui pacchetti di sigarette. 

Chiara bussò con maggior vigore. Ma non accadde nulla. Mi guardò e mi domandò che cosa avessimo potuto fare. Di certo, arrivati a quel punto, non avremmo più potuto tirarci indietro. Mi stavo convincendo che quel poveraccio fosse davvero in pericolo.  

Intanto nessuno nel condominio si era fatto vivo. Eppure stavamo facendo una bella confusione. Quasi li vedevo dietro gli spioncini delle porte, con le orecchie tese per capire cosa stesse succedendo. 

Decisi di chiamare il pronto intervento e fu molto difficile convincere la tipa al telefono raccontandole la storia della cena e bla bla bla, che non ero un parente ma un vicino di casa, e altre cazzate. 

«Le mando qualcuno» disse finalmente la donna e prese l’indirizzo. 

Quando arrivò la squadra andai incontro al tizio che sembrava comandare le operazioni e iniziai a dare di nuovo le stesse spiegazioni.  

Quello fece le stesse cose che aveva fatto Chiara poco prima. Bussò con molta forza senza ottenere risultati diversi. Poi decise che era il caso di entrare sfondando l’ingresso. Si rivolse ai ragazzi che erano con lui. Armeggiarono per un po’ con alcuni strumenti che tenevano in una specie di scatola di metallo. Poi uno sferrò un calcio all’altezza della serratura. 

La porta si aprì. 

Ricordo ancora la posizione innaturale di quel corpo riverso sul pavimento. Fu l’unica volta che vidi il signor Betti indossare una giacca, una camicia e un pantalone non logoro. 

Nei giorni a seguire Chiara si diede un gran daffare ma non trovò alcun parente, amico o collega che avesse a cuore le sorti del signor Betti. Che se n’era andato così, senza lasciare qualcuno in lacrime e senza neanche toccare il pollo di mia moglie. 

Poco tempo dopo eravamo di nuovo a cena. 

Stavolta con la tv spenta. 

Avevo notato che Chiara aveva un nuovo colore di capelli. Un color cioccolata che le metteva in risalto gli occhi, le dissi. 

L’autore

Andrea Santacaterina, classe’74, nasce a Terracina, sul litorale laziale, ma vive da sempre a Frosinone. Ha iniziato a scrivere racconti una mattina, dopo una notte insonne passata a leggere raccolte di Raymond Carver. La sua passione maniacale per il football americano è sfociata nella collaborazione con il blog di fabulazione sportiva Quasi Rete del collettivo Em Bycileta

Nel 2013 ha pubblicato per Lit Edizioni una biografia di Mario Balotelli dal titolo Il significato di Mario. 

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