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Racconto della domenica: “Tracce di finzione” di Danilo Angioletti

Il viso di un attore è una tela vergine, che si dipinge di gioie e dolori di un’anima che non è la sua. Il protagonista di questo racconto, firmato da Danilo Angioletti, per la prima volta guarda la sua donna recitare sul palco, e sul viso di lei trova un intero caleidoscopio di donne che non conosce. Eppure, aldilà della mascherata, in tutti quei personaggi c’è qualcosa di lei. Ma allora, si chiede, qual è il confine? Dove finisce la donna con cui divide la sua vita e inizia l’attrice che si dà in pasto agli sguardi abbagliati e affamati del pubblico? Una riflessione sulla linea sfocata tra realtà e finzione, sui travestimenti che indossiamo e che finiscono per indossare noi.

Racconto della domenica: “Tracce di finzione” di Danilo Angioletti

Quando ci conoscemmo non ci feci troppo caso. 

Un’attrice di teatro. Che cosa affascinante!

Vero, ma niente di più. Magari mi inorgogliva, quando lo dicevo agli amici. Sto con un’attrice di teatro. Fico, vero?

Però poi ci uscivo, ci passavo del tempo e, insomma, mi piaceva. Passavo del tempo insieme alla donna, non all’attrice. L’attrice il più delle volte non si vede, se non quando lavora. 

La corteggiai e divenne mia compagna fissa. 

Però, per una serie di motivi, non l’avevo ancora vista recitare. Era sempre in giro, in Paesi lontani, o se capitava più o meno in zona era in serate a me scomode. Per diversi mesi non riuscii a imbattermi direttamente nell’attrice. Ne vedevo l’ombra, a volte, le tracce lasciate in giro: i copioni, dei costumi di scena, pezzi di idee di scenografia e di testi. Nulla di più. A me piaceva la donna, tutto sommato. Del resto, anche lei non vedeva me lavorare. E per fortuna.

Poi, improvvisamente capitano alcune date vicine. Alcuni spettacoli diversi. Un monologo impegnato sull’omosessualità femminile, una rivisitazione un po’ snella di un grande classico e uno spettacolo di teatro danza. Soggetti e tipologie molto diverse. 

Non so cosa aspettarmi. Sono un po’ nervoso all’idea di vederla recitare. Sono una persona molto emotiva, riesco a sentirmi agitato anche per cose che devono fare altri, se il legame è forte. 

E se non mi piace come recita? E se è una capra? Cosa succederebbe alla nostra relazione?  Rimarrei deluso, come Dorian Gray, o riuscirei a far finta di nulla? In fondo per me cosa cambia, io sto con la donna, non con l’attrice, e nemmeno con i suoi personaggi – mi ripeto per tranquillizzarmi. Ma riuscirei davvero a passarci sopra?

Questo aumenta la mia agitazione. La notte prima dello spettacolo, quello di teatro danza, non riesco a dormire. E l’evento è programmato per la sera. Trascorro una giornata lenta e distratta. Sono irrequieto e nulla riesce ad attirare la mia attenzione per più di pochi minuti, poi con uno sbuffo devo cercare altro a cui dedicarmi. 

Finalmente arriva il momento di prepararsi e di andare. Con un anticipo che penso solo le persone anziane siano solite concedersi. Arrivo che il teatro è ancora chiuso. Nonostante gli accordi, non la chiamo per dirle che sono arrivato. Cerco un bar dove potermi annoiare ancora un po’. Annoiarsi in posti diversi è un po’ annoiarsi meno. 

Al ritorno c’è già troppa gente per i miei gusti. Ah, ovviamente sono solo, figuriamoci se me la sarei sentita di avere qualche testimone per un evento così decisivo per la mia vita. Poi se lei fosse una capra e io decidessi di passarci sopra, come fare quando anche il giudizio di qualcun altro pesa addosso? Come tollerare di sapere che vi è qualcun altro al corrente? Per l’amor del cielo!

Faccio la coda, prendo il biglietto e mi siedo nel posto troppo lontano che mi è stato assegnato. 

Magari non riesco a venire, le avevo detto, così da non impegnarmi ed evitare che lei mi tenesse un posto comodo e persino gratuito. Avevo preferito lasciare il tutto nell’incertezza. Se la trovassi incapace potrei sempre dire di non avercela fatta a venire, ed eviterei poi di andarci anche in futuro, adducendo delle scuse. Tante coppie stanno in piedi con le scuse.

Intanto le luci si spengono, inizia una musica divertente e una lucina si muove dietro un telo bianco. Io so che è sola in scena, quindi deve per forza esserci lei, dietro a quella luce. 

Inizio a sentirmi orgoglioso. È la mia donna, che fa quello. State tutti guardando la mia donna. 

Poi esce, con un vestito nero che le arriva poco sotto il ginocchio, con due spalline sottili. E balla, e sorride, e ammicca, e fa espressioni cariche. Recita, insomma. Recita e danza. E io la guardo estasiato, la trovo bellissima, bravissima, leggera, eterea ma allo stesso tempo sensuale.

È la mia donna, mi ripeto. Mi vien voglia di dare di gomito ai miei vicini per annunciarlo.

E penso che non l’ho mai vista ballare così. Che alcune espressioni del viso non le avevo mai viste. Che le voci che ha dovuto interpretare mi sono in parte sconosciute. 

La conosco un po’ meglio, dopo questo spettacolo. 

Una fetta in più. Cose che centinaia e forse migliaia di persone hanno già visto. Chissà quanti, in altre parti d’Italia e magari del mondo gliel’hanno visto fare. E io, che pensavo di conoscerla, vi arrivo solo ora. 

Una punta di gelosia affiora, dopo l’orgoglio.

Quel corpo esposto sul palcoscenico, con tutti quegli occhi addosso. Quel dimenarsi a volte così sensuale a turbare chissà quanti uomini. Sorrisi professionalmente elargiti con tanta generosità. 

Cosa vedo io, di solito? Dov’è tutto questo, quando siamo soli io e te? Cosa ho io che tutti loro non hanno?

Era cominciata con un’esperienza positiva e guarda cosa sta diventando. E tutto considerando che lei è bravissima. Altrimenti forse sarebbe più facile, basterebbe accettare di stare con un’attrice mediocre, e tutto finirebbe lì. Il problema è il contrario. È l’incanto di cui tutto questo suo pubblico è vittima. Tutti in qualche modo a prendersi un pezzetto di lei. Mi verrebbe da mettermi all’uscita e farmi riconsegnare tutto, mentre si riprendono i cappotti. Un grande inceneritore dove si possa buttare tutto: il desiderio, la commozione, la gioia, l’allegria, il sogno.

Le mando un doveroso messaggio: io c’ero, sei stata magnifica.

Anche per troppa altra gente, penso.

Sento i commenti entusiastici. Che brava, un angelo, che meraviglia. Dirle a voce alta è forse un modo per lasciarle lì, le impressioni, e portarsene a casa un po’ meno.

La settimana successiva c’è il monologo.

Un pugno nello stomaco.

Piango per buona parte del tempo. Lei soffre troppo. Il personaggio, ovviamente. Ma come distinguere l’attore dal personaggio, quando è in scena? Come chi ama l’attrice può ignorare la sua sofferenza? L’attore presta tutto sé stesso al personaggio, corpo e faccia compresi. Vedere lei così distrutta che nella finzione aveva attraversato anni di rifiuto e di incomprensione, vederla dover rivivere in meno di un’ora le fasi cruciali del suo dolore, è troppo per me. Ma anche qui vi trovo qualche interessante novità. Vi sono alcune scene tragiche, di pianti, di rabbia e frustrazione.  Penso che mai l’avevo vista urlare così. Mai avevo visto una simile furia nei suoi occhi, nei denti digrignanti dentro la bocca. 

E penso che il teatro mi stia facendo un grande regalo. Mi permette di vedere tutte le possibilità di comportamento in cui mi sarei potuto imbattere. Magari non succederà mai, ma in ogni caso l’avrei già vista, saprei di cosa si tratta. Conoscerei le sue reazioni, o almeno i loro volti. 

Poi il terzo spettacolo, il classico in chiave moderna. Pochi attori che fanno tante parti. 

Lei è l’unica donna in scena e fa tutte o quasi le parti femminili.

E io è come se vedessi tutte le infinite persone che avrebbe potuto essere se avesse ricevuto magari un’educazione diversa, se fosse nata in un altro luogo, in un’altra famiglia, se avesse avuto altri ideali, altre esperienze. Uno sliding doors dal vivo. 

La aspetto fuori, la bacio, le do dei fiori e le faccio un mucchio di complimenti. La amo, insomma. Poi, a cena, la guardo. 

A cosa pensi?

Già, a cosa penso?

Penso a tutta la sofferenza che devi interpretare. Mi chiedo se tutte queste emozioni negative abbiano lasciato o lasceranno una traccia reale sul tuo volto, anche se sono state finte. Se è vero che ci portiamo addosso sul volto i nostri crucci e le nostre preoccupazioni, tu centinaia di volte hai interpretato la passione e il tormento con questa tua faccia. Che ne sa lei che era tutto finto?  

Per non parlare del resto. Quante volte, in periodi difficili, mi è bastato cambiare atteggiamento, ignorare l’angoscia per accorgermi che la vita da sé mi spingeva verso la speranza. La superficie conta più di quanto vorremmo. E vivere per finta la disperazione, non ti ci trascina dentro ogni volta un po’ di più?

Ma non le dico niente di tutto questo. Decido anch’io di rimanere sulla superficie.

Pensavo al trucco che avevi in scena, non te l’ho mai visto così pesante. 

Lei mi sorride, e come suo solito, mi spiazza.

Sono come un clown. Tutto quel trucco serve a preservare la faccia.

Danilo Angioletti nasce a Varese e di professione è ingegnere. Oltre alle storie, scrive anche musica e suona la chitarra dall’età di quindici anni. Raccoglie radici nel bosco e si prende cura di loro finché non diventano sculture. È autore di più romanzi (Lago della bilancia, nel 2009, e Il Puttaniere, nel 2011). Per goWare ha scritto Vitamore Vitamorte (2014). Il racconto, nella sua pubblicazione sulla rivista online Mood04, era accompagnato da clip musicali e una raccolta di fotografie di radici.

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