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Racconto della domenica: “Il figlio di Achille” di Pippo Bonalumi

Pippo Bonalumi racconta con la chiarezza di una fiaba una Toscana contadina che un po’ magica è davvero, con i suoi personaggi semplici ma fuori dal comune, dove ogni evento è degno di essere narrato con la dignità leggendaria dei componimenti bucolici.

Racconto della domenica: “Il figlio di Achille” di Pippo Bonalumi

Ezio, figlio di Achille di Val di Nievole, barrocciaio dalla forza mitica capace di quietare la follia, campato quasi cent’anni, è persino più forte del padre, con le “sue mani grandi” capaci di stordire le mucche e sollevare cavalli come pietruzze, di andare ancora a caccia nonostante il passo malfermo e “il vecchio bastone” da “uomo molto anziano”, riportando grandi trofei a casa, come un vero eroe di campagna.

Ezio era figlio di Achille e Zaira, fratello di Iole, Rina e Leonida detta Lea, zio di Otello, Valframo, Atos (sic!) e Ludo, marito di Ada, padre di Mara, Mauro e Lolita detta Raffaella. Vivevano in Val di Nievole, vicino a Monsummano, in una terra stretta fra il profumo della ricca ed elegante Montecatini e l’odore forte delle erbe acquatiche del Padule di Fucecchio, nel quale contadini e operai cambiavano la loro pelle, tirando fuori una raffinata anima ora di pescatori ora di uomini di caccia. Un mondo né ricco né povero, dove alla superficialità di alcuni faceva da specchio la “cultura” ricchissima dei tanti che del Padule tutto sapevano e tutto amavano.

La casa, grande e modesta, si apriva insieme ad altre intorno a un piazzale di erba e ghiaia, nel quale troneggiavano un vecchio pozzo in mattoni rossi appena intonacati e intorno diverse capanne costruite coi materiali più strani, che servivano come ricovero per attrezzi e vecchi motorini, abbandonati lì con amore da tempo immemorabile. Una capanna aveva una parete fatta con un vecchio cartellone pubblicitario della Shell; un’altra era costruita con un tabellone celeste sul quale la scritta, in corsivo bianco, recitava: Un liquore che conquisterà il mondo…, ma il nome del liquore non si leggeva perché ne mancava un pezzo. Sull’aia, allineate con ordine alla parete, c’erano quattro o cinque vecchie sedie sgangherate dove si “stava a veglia” nelle sere d’estate e, proprio accanto, il portone di casa in alluminio anodizzato schiudeva l’ingresso di un’ampia cucina con un grande camino, costruito in tempi recenti per l’uso “liturgico” di cenare tutti insieme. Ma “insieme” voleva dire “insieme a chi c’era” perché, lungo le pareti della stanza, c’erano altre sedie, dove tutti quelli che entravano potevano fermarsi a far chiacchiere con chi era già a tavola.

Si parlava di tutto: qualcuno teneva per Coppi, altri per Bartali, ma si ragionava anche di caccia e di politica e poi c’erano le “chiacchiere”, quelle chiacchiere molto più divertenti e succose dei gossip che si possono ascoltare ai giorni nostri.

Fra quelli che mangiavano sedeva anche la Lea che, poverina, non c’era con la testa. La Lea, durante il pranzo, si tagliava le unghie e soprattutto borbottava di continuo, parlando da sola di quello che le veniva in mente. E se qualcuno provava a zittirla, lei si ribellava decisa dicendo: «Io pago le tasse e dico quello che mi pare!».

L’unico che aveva il potere di chetarla era Achille, che la domava subito con una vociata imperiosa, restituendo qualche effimero attimo di quiete agli altri commensali.

Achille faceva il “barrocciaio”, cioè aveva un carro tirato da un cavallo con il quale andava in giro per le zone più povere della Toscana di inizio Novecento, vendendo saponi, attrezzi, pettini e ogni sorta di quei generi di prima necessità che nelle campagne era quasi impossibile trovare. Faceva viaggi che duravano mesi fino alle lontane terre di Maremma e ne tornava con qualche soldo e tante storie da raccontare, vere o fantasiose panzane, che però saziavano sempre la curiosità di chi, da lì, non si era mai mosso.

Achille visse, o meglio “campò”, fino alla rispettabile età di 99 anni e 6 mesi. Ezio, il figlio, ereditò barroccio e cavallo, ma preferì fare più comodamente il camionista. Non si può dire che fosse un grande uomo e probabilmente non lo era, però di certo era un uomo grande e soprattutto molto forte. Non si riguardava dal fare “ai cazzotti” perché aveva le mani grandi il doppio e di lui si raccontava che avesse stordito una mucca con un pugno o che avesse sollevato di peso il suo cavallo, caduto in una fossa. Nei giorni della festa se ne andava in giro elegante con un cappello a falde larghe e belle scarpe, poi, forte di quella sua imponente figura, camminava guardando il mondo dall’alto, lasciando alla moglie Ada il compito pesante di far andare bene la casa e di badare a quelle sue due figliole, corteggiate in ogni dove da giovanotti speranzosi. Ezio aveva un bel sorriso, lo sguardo duro e poco profondo e non conosceva la dolcezza. L’Ada, che di dolcezza ne aveva da vendere, teneva duro e nel tempo i suoi grandi occhi celesti, segnati dalle cose della vita, si erano riempiti di una generosa pazienza, grande quanto l’amore per i suoi figli.

Quando incontrai Ezio, per la prima volta, era già un uomo molto anziano. Accanto al pozzo, nel mezzo dell’aia, le sue mani grandi si appoggiavano ormai su un vecchio bastone e la sua camicia celeste drappeggiava la sua evidente debolezza. Da poco gli avevano tolto la macchina e anche col motorino era diventato pericoloso per sé e per gli altri.

«L’ho caro che tu sia venuto…» diceva contento, mentre ci si intratteneva in cucina per dare un poco di respiro alla moglie. Infatti, già nel tardo pomeriggio, voleva cenare ed essere aiutato ad andare a letto. La sua cena era una grande tazza di latte accompagnata da pane, e a volte biscotti, e quando la sua mano tremante aveva finito di sgocciolare le ultime cucchiaiate di quel suo mangiare, andava malfermo al “mettitutto” vicino all’acquaio, dove afferrava una scatola da scarpe piena di una moltitudine di medicine, che ingurgitava con scrupolo quasi goloso. Ogni tanto la domenica c’era un pranzo, certamente gradito, a casa dei nipoti ed Ezio, appena mangiato il secondo, si metteva il cappello e con fare indifferente se ne stava lì, a capotavola: voleva essere riportato a casa. Una di queste volte, per distrarlo, gli fecero raccontare di quando pochi giorni prima aveva “ammazzo” un fagiano, sparandogli. Era una cosa incredibile e non si sa come fosse successo ma aveva preso il fucile, insieme con il bastone, ed era sceso nel campo sotto casa: era rientrato sconvolto dall’emozione, con quel suo miracoloso trofeo di caccia fra le mani e solo a riparlarne si metteva a tremare.

Quel giorno a tavola raccontando di nuovo la storia, si fece prendere dall’enfasi, esclamò di essere ancora il miglior tiratore della provincia e, battendo un poderoso pugno sul tavolo, si alzò in piedi e svenne travolgendo l’Ada, stupefatta.

Dopo diversi accertamenti tornò a casa più sano di prima e dal letto disse baldanzoso: «Sto bene! e voglio campa’ quanto Achille!».

Non ci riuscì.

Immagine in copertina: Paolo Uccello, Caccia notturna, 1470 circa, Ashmolean Museum, Oxford. Particolare

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