C’è solo una cosa che mi ha tenuto in vita dentro l’S-21. Non fu la mia resistenza fisica, prosciugata, o la mia forza di volontà, spezzata. Non fu l’istinto di sopravvivenza, esaurito. Quello che mi tenne in vita per tredici mesi fu il cartello KEEP FOR USE attaccato con la colla alla porta della mia cella.
La mia vita dipese da quel cartello, avrei voluto proteggerlo dalle intemperie e dall’umidità o almeno avrei voluto poterlo vigilare ma quando la porta era chiusa, il cartello restava all’esterno e non potevo vederlo.
La notte mi addormentavo accovacciato contro la porta, con l’orecchio destro appoggiato al metallo per sorvegliare rumori sospetti e accorgermi se un altro prigioniero avesse cercato di rubarmelo approfittando di una guardia distratta. Due volte sono scattato in piedi e ho cominciato a urlare e sbattere i pugni contro la porta facendo un rumore d’inferno. Le guardie devono essere allibite di fronte alla mia sfrontatezza. Sono accorsi in quattro per picchiarmi ma io ho preso i colpi con il sorriso perché, quando sono entrati, il cartello era ancora al suo posto.
Non solo il furto era un’ansia che non mi abbandonava, anche l’umidità avrebbe potuto essermi fatale, corrodendo la colla. Tutte le sere, quando mi riportavano in cella, anche a rischio di essere picchiato sui fianchi, entravo molto lentamente. Non volevo che mi sbattessero la porta dietro perché lo spostamento d’aria avrebbe indebolito la colla.
C’erano altri prigionieri con la scritta KEEP FOR USE sulla porta ma erano donne che le guardie prendevano per svagarsi, per poi uscire dalla cella sistemandosi i pantaloni in fretta e cercando di non essere scoperti dai capi del campo, che non vedevano di buon occhio i rapporti sessuali: avrebbero potuto minacciare la purezza ideologica dell’S-21. Comunque il cartello di queste donne durava pochi giorni, al massimo tre settimane, perché le guardie se ne stancavano e ne arrivavano sempre di nuove da stuprare. Alle guardie non piacevano esattamente le donne, né il sesso, gli piaceva sentirle urlare per cui, quando dopo qualche settimana di stupri metodici la vittima si rassegnava, non le trovavano più divertenti e toglievano il cartello.
Io sono stato arrestato nel gennaio del 1978 a Battambang. Facevo il contadino in una risaia, ligio alle direttive dell’Angkar che voleva una Cambogia agraria e autosufficiente. Circolò presto la notizia che i Khmer Rouges etichettavano qualunque cosa che potesse essere avvicinata a un lavoro intellettuale come un tradimento della nuova Cambogia. Inclusero chi portava gli occhiali e i capelli lunghi nella categoria delle persone non gradite e da rieducare con la tortura e la morte.
Prima dipingevo cartelli stradali, nulla di ideologico, anche se la mia passione era per la pittura vera, quella artistica insomma. Poi però, per sicurezza, avevo abbandonato i pennelli e mi ero aggregato a una comunità agricola dove mangiavo zuppe di riso il giorno e pregavo gli spiriti la notte. Le preghiere furono inefficaci perché un giorno vennero a prendermi e mi portarono all’S-21. Come praticamente tutti i prigionieri dell’S-21, non avevo idea di cosa fossi accusato e ancora, quasi trenta anni dopo, non lo so.
I miei due figli, un anno e cinque anni, erano a casa con mia moglie quando vennero a prelevarmi alla risaia e non mi permisero di salutarli o di avvertirli prima di scaraventarmi su un camion. I due bambini sono morti di fame prima che venissi rilasciato l’anno dopo, di mia moglie non ho più avuto notizie.
Il primo mese all’S-21 mi hanno nutrito con un pugno di riso crudo e cinque scariche elettriche al giorno, senza mai chiedermi nulla. Io avrei voluto che mi dicessero cosa volevano sapere, ma ogni volta che aprivo la bocca per chiederglielo prendevo una bastonata sul viso. Al terzo dente lasciato sul pavimento li seguivo con lo sguardo basso e con talmente tanta ansia che mi vomitavo in mano per non macchiare le guardie che mi accompagnavano e non smettevo di camminare verso la stanza dove mi stendevano sul pavimento, mi legavano le braccia sopra la testa e i piedi a delle catene e passavano l’elettricità sul mio corpo.
Un giorno mi sono venuti a prendere di mattina, mi hanno ammanettato e mi hanno portato sottobraccio in una stanza con altri prigionieri. Eravamo tutti identici, tutti rachitici, pieni di lividi freschi e di ferite che spurgavano pus, con le labbra sanguinanti e gli occhi bassi. Davanti a noi, un processo è cominciato.
Gli imputati erano una madre e i due figli adolescenti. Nessuno ha spiegato di cosa fossero accusati e nessuno di noi ha ovviamente chiesto nulla. Non sapevamo nemmeno se avevamo il diritto di alzare gli occhi su di loro. Se avessi potuto mi sarei tappato le orecchie perché non sapevo se avevo il diritto di ascoltare e avrei voluto fargli sapere che le scariche elettriche mi avevano bruciato il timpano sinistro.
La madre era legata a una sedia e un rivolo di sangue le scendeva dalla tempia destra. Piangeva ma, tutto sommato, sembrava in buone condizioni, migliori della mia e degli altri prigionieri attorno a me. Era stata sicuramente arrestata da poco: la sua pelle era ancora morbida e lucente e si capiva che apparteneva a una classe agiata. Se io ho riconosciuto la sua pelle, forse era quello il capo d’accusa. I due figli erano legati con le mani dietro la schiena a due pali di metallo davanti alla donna.
Il comandante dell’S-21 in persona, Duch, dirigeva il processo, doveva essere una faccenda importante. Senza preamboli, cominciò ad agitare la pistola davanti ai due ragazzi.
«Chi dei due, chi dei due!» urlò.
La madre non rispondeva e continuava a piangere sempre più disperatamente scuotendo la testa e cercando di nasconderla ma aveva il busto immobilizzato allo schienale.
«Questo?» Duch si è avvicinato a uno dei due, quello più giovane, credo, doveva avere al massimo tredici anni. Gli ha spinto la canna della pistola contro la bocca ma quello rifiutava di aprire le labbra. Allora lo ha colpito con il calcio della pistola su una guancia. Il ragazzo ha aperto la mandibola e Duch gli ha infilato la canna in gola.
«Questo?» ha ripetuto guardando la donna mentre il ragazzo sembrava soffocare. Quando l’ha estratta il ragazzo ha cominciato a tossire.
«Quest’altro?» è andato verso il fratello, di un paio d’anni più grande, credo. Quello, invece, ha aperto subito aperto la bocca. Duch gli ha inserito la pistola dentro ma poi l’ha tirata fuori quasi subito, probabilmente perché se collaborano non è divertente.
La madre rifiutava di guardare e piangeva con la testa bassa.
«Va bene, ammazziamoli tutti e due» Duch ha detto e la madre ha reagito alzando la testa e cercando di scagliarglisi contro ma non poteva raggiungerlo.
Ha puntato la pistola all’altezza della testa del più piccolo, quello ha cercato di schivare la traiettoria spostando la testa ma le corde non gli hanno permesso di andare lontano. Allora Duch ha abbassato di un po’ il tiro per seguire i suoi movimenti e poi gli ha sparato a un piede. In sequenza ha tirato anche sul piede dell’altro.
La prima pallottola che ha trafitto la carne dei suoi figli ha convinto la madre che sarebbe potuta tornare a casa solo con uno di loro. Ha aperto gli occhi verso Duch, ancora urlando, ma con meno convinzione perché si stava rassegnando che la sua disperazione non avrebbe fatto breccia nel cuore di qualcuno in quella stanza.
«Questo o questo?» ha ripetuto Duch ondeggiando la pistola davanti alla testa dei due ragazzi.
La madre ha fatto un cenno impercettibile con il capo.
«Questo?» Duch ha puntato la pistola verso la testa del più grande ma ha tenuto lo sguardo sulla madre.
La donna non ha risposto, ha abbassato gli occhi e ha continuato a piangere. Duch si è guardato intorno.
«Intendeva questo, no?» ha chiesto agli altri soldati.
Tutti hanno annuito. Uno di loro è andato dalla donna e le ha sollevato la testa prendendola per i capelli.
«Questo?» ha ripetuto Duch verso la donna che non ha annuito, ma non ha nemmeno negato.
«Questo!» ha confermato Duch con voce vittoriosa facendo un passo indietro e puntando la pistola drammaticamente alla fronte del più grande che tremava cercando di ipnotizzare la pallottola guardandola negli occhi. Schiumava dalla bocca, si mordeva le labbra, ho visto il sangue scendergli sul mento mentre Duch sorrideva prima di premere il grilletto.
Improvvisamente Duch ha spostato il braccio e ha sparato all’altro figlio, quello più piccolo, che è crollato senza un lamento e senza accorgersi di morire.
«Liberateli» ha detto Duch riferendosi alla madre e al figlio che aveva condannato a morte, prima di uscire dalla stanza. «Che vadano via insieme, mi raccomando.»
Due guardie li hanno portati fuori dalla stanza e le altre sono venute a riportarci in cella agitando i bastoni. Noi, come fagiani, avevamo sviluppato una tecnica quando eravamo in gruppo: ci accalcavamo tutti verso il centro perché sapevamo che quelli all’esterno prendevano le bastonate sulle ginocchia e poi non riuscivano a camminare e venivano uccisi per insubordinazione. Se fossimo stati furbi saremmo andati tutti verso l’esterno per finirla qui, dal momento che siamo usciti solo in sette su quattordicimila prigionieri che sono entrati al campo S-21.
Il motivo del cartello davanti alla mia porta è che sono un pittore e loro lo sapevano, naturalmente. Per tutta la vita, genitori e parenti anche lontani, amici e conoscenti, mi hanno ripetuto che dipingere è un’attività inutile. Coltivare riso, aggiustare carburatori o produrre coltelli erano attività decenti per un uomo che vuole sostenere una famiglia, ma io ero talmente rapito quando entravo nella pagoda e alzavo lo sguardo sulle scene della vita del Buddha che fu impossibile farmi cambiare idea. È grottesco che tutti i contadini, meccanici e operai passati dall’S-21 siano morti e io sia sopravvissuto grazie a una attività inutile.
Qualcuno deve avere avvertito qualcun altro, che ha informato un altro ancora che, a sua volta, si è ricordato della mia scheda e ha informato chi di dovere che Pol Pot voleva una serie di ritratti. Il leader socialista dell’uguaglianza nel livellamento agrario stava peccando di vanità. Mi hanno dato una foto in bianco e nero e mi hanno intimato di riprodurla in ritratto.
Il primo pensiero che mi è venuto fu di chiedere che Pol Pot venisse lì, davanti a me, per fargli un ritratto. E per ucciderlo, ho pensato. Strano, per me che sono mite e non sono veloce nel pensiero. L’ho chiesto con decisione nella voce. La guardia mi ha dato un pugno e in un istante mi ha catapultato fuori dal mondo dove ero un pittore e potevo parlare con dignità.
Il mio atelier era una delle sale insegnanti dell’S-21, perché prima di diventare un’enorme tomba, era una scuola. Prima che mi venisse assegnata la usavano come laboratorio delle torture, si sentiva ancora l’odore di carne bruciata.
Mi accompagnavano attraversando il corridoio dove tutte le porte restavano aperte sulle camere di interrogatorio, una galleria di ogni sorta di atrocità possibile. Gli aguzzini tenevano la porta aperta, forse per direttiva centrale che ognuno imparasse dalle tecniche degli altri, forse per vantarsi delle proprie, forse per fare girare l’aria perché il sangue e la cancrena puzzano.
Solo la mia porta veniva chiusa dietro di me, non per non disturbare la mia ispirazione ma perché ci si annoia a guardare un prigioniero che dipinge.
Seppure con la porta chiusa sentivo le urla dei torturati, sentivo il rumore delle catene mentre li trascinavano nel corridoio, mentre chiedevano pietà oppure, se erano prigionieri recenti, chiedevano perché erano lì. L’abitudine di domandare le motivazioni scompariva entro una settimana, poi quasi ti scordavi l’esigenza di sapere la ragioni della tua incarcerazione. L’unica cosa che contava era restare vivo. Oppure, al contrario, fare cessare il dolore a qualunque costo. Allora non conoscevo Kafka ma qualche anno dopo, dopo avere ascoltato la mia descrizione, un giornalista tedesco mi regalò Il processo, che dice che è sufficiente picchiarti abbastanza a lungo e abbastanza duro, con gli atti o con le parole, per convincerti che te lo meriti.
Il primo giorno, senza alzare gli occhi e con la voce più implorante che riuscissi a produrre, avevo chiesto che, per favore, non mi picchiassero sulle braccia e soprattutto sulle dita. Credetti che me le avrebbero demolite seduta stante. Alzarono le spalle e se ne andarono chiudendosi la porta dietro.
Presi in mano il pennello con enorme fatica perché risentivo ancora delle bastonate dei giorni prima e le dita mi tremavano, probabilmente a causa delle scariche elettriche.
Cominciai il primo ritratto di Pol Pot senza smettere di pensare a come mi sarebbe piaciuto ucciderlo. Alla mia ispirazione questo pensiero non giovava, le pennellate erano tese e non avevo la delicatezza delle dita sane a bilanciare la mente. Cercai di concentrarmi sul fatto che il compagno Pol Pot fosse inconsapevole di quello che accadeva qui: un giorno sarebbe arrivato, mitra in mano, avrebbe fatto giustizia di tutte le sofferenze e liberato i sopravvissuti. Ma l’S-21 è pochi chilometri fuori Phnom Penh, è impossibile tenerlo nascosto. Continuai a dipingere ma verso sera venne fuori un demonio stilizzato e mi prese il panico che qualcuno lo vedesse. Velocemente, prima che venissero a cercarmi per riportarmi in cella, lo coprii con della tempera bianca per ricominciare daccapo la mattina dopo. Mi avevano dato solo una tela ma tantissima tempera.
Fu lì che mi venne l’idea che mi salvò la vita.
Devo dipingere la verità che succede qui, mi dicevo, non c’è altro modo per non impazzire. Non posso fare finta che le urla che sento mentre dipingo non siano reali.
Quando le guardie passarono a riprendermi non fecero caso che la tela era di nuovo bianca ma io trascorsi la notte nel terrore che se qualcuno se ne fosse accorto allora non mi avrebbe dato la possibilità di continuare il lavoro con il nuovo stile che avevo appena inventato.
La seconda mattina di lavoro “straordinario”, in una delle stanze da interrogatorio che si vedevano attraversando il corridoio, una guardia teneva un neonato per i piedi e lo fracassava contro il muro. Un uomo e una donna, legati a una sedia e imbavagliati, assistevano alla scena mugolando come se lo stessero facendo a loro. Un bambino più grande era legato per terra dietro la guardia e piangeva e chiamava sua madre.
Quella è la scena che avrei dipinto il secondo giorno, ma dovevo essere l’unico a saperlo.
Ho fronteggiato la tela bianca con due schizzi a matita, due quadri opposti, le cui linee si intersecavano e si sovrapponevano. Uno schizzo era la scena del soldato che, davanti agli occhi dei genitori, sbatteva il neonato contro il muro tenendolo per i piedi, l’altro il compagno Pol Pot con un’aria paterna e illuminata.
Sapevo che non potevo dipingere prima uno e poi l’altro perché era troppo rischioso, perché chiunque poteva entrare a piacimento, e così sviluppai una tecnica per cui, partendo dagli angoli della tela, dipingevo una striscia di un centimetro, obliqua, con la scena dell’infanticidio e subito la coprivo con il ritratto di Pol Pot. Così avanzavo nascondendo, sotto l’espressione amorevole del nostro leader, la verità.
Da quel giorno ho dipinto un ritratto a settimana, otto ore al giorno, senza lamentarmi e senza più bastoni. Dopo due settimane hanno aumentato la mia razione di cibo a una ciotola di riso ma questa volta con un pezzo di carne bianca, un privilegiato.
Con questo sistema mandavo all’esterno messaggi, scoperchiavo gli omicidi, le torture, le sevizie, tutto. E pensare che io volevo dipingere paesaggi. Invece facevo il mio dovere di denuncia, diligentemente come quando ero un contadino della comunità agricola e mi hanno preso e portato qui, ancora non ho idea perché.
Dipingevo le scene che mi capitava di vedere di sfuggita attraversando il corridoio quando mi portavano dalla mia cella all’atelier. Cercavo di essere realista, non c’era bisogno di inventare torture o espressioni, erano tutte di fronte ai miei occhi in ogni momento della giornata. L’unica cosa che cercavo di controllare, ma involontariamente, era il volto dei bambini che incrociavano i miei dipinti. Per nessuna ragione dovevano assomigliare ai miei figli, non ho mai dipinto nemmeno un bambino che avesse qualcosa in comune con i miei figli.
Attraversare quel corridoio mi dava forza. Se avessero trasferito i pennelli nella mia cella avrei perso tutta l’ispirazione, invece era proprio quel corridoio a darmi una ragione per continuare, fare vedere al mondo quello che succedeva qui. Se poi il mondo decideva di vedere solo il volto rassicurante di Pol Pot senza domandarsi cosa ci fosse sotto, il cattivo karma sarebbe ricaduto su di esso.
Mi ricordo un giorno particolarmente importante perché Duch venne nell’atelier e non si congratulò con me. Non mi guardò nemmeno, si concentrò solo sull’ennesimo dipinto di Pol Pot, proprio sopra l’immagine del ragazzo a cui aveva sparato alla testa davanti alla madre.
Io abbassai la testa, ma tanto per lui non esistevo. In condizioni normali avrei chiesto se potevano fornirmi altre fotografie di Pol Pot ma non dissi nulla e continuai a immaginarlo in posizioni differenti. Alla fine non era difficile, bastava abbellirlo un po’, dargli un’espressione rassicurante e loro erano contenti.
«Portatelo via domani» disse, però riferendosi al quadro.
Appena Duch uscì io non ricominciai a dipingere perché tremavo. Il comandante della prigione non viene a trovare un detenuto se non è successo qualcosa di particolarmente grave. Cosa ci può essere di più grave che scoprire scene di torture sotto il viso della tua guida? Invece voleva solo verificare il buon funzionamento della produzione. Quella sera misero anche delle erbe per insaporire la mia ciotola di riso, ero quasi in imbarazzo. Forse Duch aveva ricevuto dei complimenti e aveva deciso di salvaguardarmi. Avrei voluto avvertirlo che non si preoccupasse, l’ispirazione non mi mancava.
Ricordo tutti i quadri che ho dipinto, nonostante non ne abbia mai visto uno intero. Uno di quelli a cui ero più legato era un ritratto di Pol Pot che imperava su uno sfondo di una comunità di contadini che piantavano riso. Il vero quadro, sotto, raccontava una storia che avevo ricostruito da dettagli carpiti dalle chiacchiere delle guardie quando parlavano fra di loro, senza malizia, perché mi consideravano un animale che non capiva la lingua umana. Avevano accennato diverse volte a delle pressanti richieste di approvvigionamento di sangue provenienti da un ospedale di Phnom Penh e una mattina siamo passati davanti a una stanza dove un uomo era legato a una sedia con due aghi attaccati a entrambe le braccia. La stanza era adiacente al mio atelier e li potevo sentire parlare.
«Quanto gliene prendiamo?» ha detto una delle guardie.
«Tutto» ha risposto un’altra guardia.
Dipingere le torture era la cosa più facile perché erano talmente estreme che si dipingevano da sole. La speranza crollata era più difficile, non da rappresentare, ma da affrontare. All’S-21 non si moriva solo per percosse, sfinimento, dissenteria, esecuzione, incuria, malattie, ma anche per suicidio. Ti portavano via talmente tanto che i prigionieri, legati tutti assieme a delle sbarre, venti per stanza, sfregavano i polsi contro gli angoli vivi che trovavano per dissanguarsi, addormentarsi per risvegliarsi cullati dagli spiriti e poi tornare ad affliggere i carnefici con il cattivo karma. Certi giorni ero così disperato che mettevo in dubbio l’esistenza stessa del karma, le guardie dovevano avere accumulato talmente tanto cattivo karma che non avrebbero potuto nemmeno reggersi in piedi.
Altri prigionieri ingoiavano tutto quello che gli passava sotto mano, bulloni, schegge di legno, cortecce d’albero, sperando di uccidersi in qualche modo. Ma non funzionava, mai.
Il dipinto più difficile era quello della paura. Le guardie passavano la notte a dirci di stare in silenzio, immobili, quasi senza respirare, oppure sarebbero entrate e avremmo dovuto vedercela con loro. Quando ti addormentavi avevi paura di agitarti nel sonno e scatenare la loro furia e quindi restavi in un dormiveglia letale da cui ti risvegliavi di colpo, certe volte con un grido, un grido che poi trattenevi e pregavi gli spiriti che non ti avessero sentito o non potessero identificarne la provenienza e picchiassero il prigioniero della cella di fianco alla tua.
Questo era il tema di un’altra serie di dipinti: all’S-21 si perdeva anche la solidarietà fra disperati, com’è chiaro dalla lotta per l’acqua. Razionare l’acqua ai prigionieri è una suprema codardia in un Paese tropicale dove cade dal cielo ogni giorno. Ne davano pochissima, con un mestolo, e quando i prigionieri si picchiavano fra di loro per raggiungere l’acqua le guardie si infuriavano e per ripicca cessavano la distribuzione. Erano persino riusciti a metterci gli uni contro gli altri negli ultimi giorni della nostra vita.
Ho mandato venticinque messaggi all’esterno prima che, una mattina, dentro l’atelier trovassi Duch ad aspettarmi. Fece un cenno alle guardie che mi accompagnavano e quelle uscirono lasciando la porta aperta.
«Chiudetela!» urlò. Dal tono era palese che sarebbero state massacrate se non avessero obbedito.
La porta si chiuse, sentii il catenaccio che scartavetrava per la ruggine e aspettai con lo sguardo basso di essere ucciso. E non avrei nemmeno saputo perché ero stato chiuso lì.
«Il compagno Pol Pot è impressionato dai tuoi dipinti.»
Io non risposi, né alzai gli occhi.
«Ho cercato di spiegargli che sei un fottuto borghese e che meriti la morte o la zappa ma non ha voluto sentire ragioni. Ha detto che eri un borghese, ora sei un lavoratore della rivoluzione.»
Pensai che venivo da una famiglia poverissima e facevo il contadino.
«E mi ha convinto.»
Ovvio che lo aveva convinto. L’alternativa al non essere d’accordo con Pol Pot era raggiungermi qui con un pugno di riso crudo al giorno.
«Vuole che continui a dipingere. I suoi ritratti.»
Io fissavo le sue scarpe per evitare di alzare gli occhi.
«Quindi continuerai il tuo lavoro per la rivoluzione.»
Non se ne andava. Aveva detto quello che doveva dire ma non capivo perché lo dicesse. Che bisogno c’era di farmi sapere che ero importante? Avrei lavorato comunque, avevano metodi più persuasivi dei complimenti.
«C’è qualcosa però che non mi convince. Vedi quel buco là?»
Io feci uno sforzo per non alzare gli occhi ma intravedevo che mi indicava una direzione dietro di me con il braccio testo.
«Vedi quel buco là?» ripeté con lo stesso tono con cui aveva ordinato di chiudere la porta.
Con un lavoro di diplomazia degli occhi riuscii a metterli in obliquo fra il pavimento e il punto che lui indicava.
«La guardia che ti ha osservato nelle ultime due settimane dice che c’è qualcosa di strano. Che prima fai delle strisce di colore e poi dipingi il nostro compagno.»
Io tremai per un freddo che mi divampò dentro.
«Non ho idea di cosa siano. Ma non mi piacciono.»
In pochi secondi mi costruii una giustificazione plausibile. Quelle strisce sono la base del colore che fa risaltare il contrasto con il volto di Pol Pot. Inverosimile, ma non mi venne in mente altro.
«Proprio non mi piacciono.»
Io non parlai. Non avrei aperto la bocca davanti a lui se non forzato con il bastone perché parlare era sfrontato.
«Quindi devi smettere con quelle righe.»
Chiusi gli occhi.
«Non c’è motivo di fare controllare i dipinti che abbiamo già spedito alla direzione del partito.»
Quel giorno quella notizia mi sollevò, solo quando fui liberato mi resi conto che lui stesso declinava ulteriori controlli perché aveva paura di quello che sarebbe successo se avessero scoperto che si faceva prendere per il culo dai prigionieri. Per questo motivo la discussione fu privata, solo fra me e lui. Forse la guardia che mi aveva visto dipingere il vero quadro era già morta.
«Sei importante per la rivoluzione, continua a sostenere il compagno Pol Pot come facciamo tutti noi.» Sbatté due volte il pugno sul metallo e la porta si aprì. «Non così importante però,» disse voltandosi prima di uscire.
Io rimasi immobile per molti minuti con gli occhi bassi ma poi mi forzai ad afferrare il pennello perché sapevo che in qualunque momento una guardia poteva osservarmi. Duch aveva lavorato bene: mi aveva instillato l’idea del controllo totale. Non avrei più tentato nulla perché in qualunque momento, che fossi nella mia cella chiusa o nell’atelier, mi autoregolavo nella paura che qualcuno mi stesse spiando.
Mi rimisi a dipingere, volontariamente rallentandomi per finire un dipinto comunque in una settimana, quando invece mi sarebbero bastati tre giorni. Ne feci tre prima che Duch tornasse nell’atelier, ma questa volta si fece annunciare.
«Queste sono altre due foto del compagno Pol Pot» disse appoggiandole su un tavolo.
Io tenevo gli occhi bassi e potevo vedere solo le sue mani.
«Fanne buon uso» disse prima di fare un cenno alle guardie che gli cedettero il passo davanti all’uscita.
Sospetto che ci siano state rimostranze sulla qualità del mio lavoro perché non riuscivo più a dipingere con naturalezza senza lo sfondo della verità dietro ogni ritratto. Rimpinguarono persino la mia ciotola di riso e, ogni tanto, mi arrivava anche un pho*. Una volta a settimana mi facevano uscire all’aperto e mi legavano a un palo per un’ora. Poi, senza spiegazioni, mi riportavano nell’atelier. Forse volevano solo farmi sentire dell’aria fresca perché i miei quadri piacevano a Pol Pot e quindi la qualità non doveva risentirne.
Da quel momento, privato del messaggio urlante celato sotto il velo del paternalismo del nostro leader, ebbi paura di diventare un collaborazionista dell’Angkar. Era quasi strano che mi tenessero ancora in prigione, dopotutto lavoravo per la causa e lo facevo con diligenza perché ora che stavo meglio, che erano guarite tutte le ferite del corpo e avevo meno paura, ora avevo anche più voglia di vivere. Quindi tenevo il capo chinato e dipingevo serialmente il viso di Pol Pot per tribunali, ambasciate, ospedali, uffici. Dopo essere uscito di qui, ho visto i miei dipinti sullo sfondo di moltissime fotografie di Pol Pot. Se li teneva dietro la schiena, doveva amare molto il mio stile. E non lo intendo come una gratificazione.
Tutti i giorni chiedo perdono agli spiriti per quei ritratti, chiedo perdono ai morti di quel campo perché calmino la loro rabbia e scaccino il cattivo karma da me, lo so che mi maledicono perché sono sopravvissuto.
Per sei mesi ho ingoiato la mia condizione. Se fuori dipingevo ritratti rassicuranti, dentro ribollivo, ma non trovavo il modo di sfogare il disgusto che aveva preso il posto della paura. Dovevo restare calmo mentre facevo il ritratto di un uomo colpevole di far urlare i bambini.
Duch cominciò anche a venirmi a trovare regolarmente. Si sedeva dietro di me e mi parlava di Van Goh e Picasso, diceva che gli ricordavo il loro stile ma io non avevo idea di chi fossero. Restavo in silenzio concentrandomi per controllare i movimenti della mia mano. Quelle erano le emozioni più forti di tutta la mia vita, persino più della paura di morire che provai quando mi portarono all’S-21. Dovevo restare impassibile a sentire la voce di Duch dietro di me e continuare a dipingere volti rilassati: i capelli dovevano essere morbidi, la pelle delicata e brillante e lo sguardo determinato e gentile del nostro compagno Pol Pot, uno sguardo rivolto in alto, a indicare una strada irta di pericoli reazionari che sarebbero stati superati dal nostro coraggio rivoluzionario.
Duch parlava, parlava, parlava. Mi dava consigli su come dipingere e su cosa avvicinare a Pol Pot, mi raccontava di quando era bambino e mi chiedeva di disegnare i campi della sua infanzia. Io non ho mai risposto, nemmeno una volta, e Duch non mi ha mai chiesto nulla o fatto capire che avrebbe voluto sapere la mia opinione. Forse voleva solo rilassarsi un po’ e parlare con il muro per organizzare i propri pensieri.
Poi, un giorno, Duch ha smesso di venire. È scomparso, letteralmente. Non veniva più, non passava più fra i corridoi, non si sentiva la sua voce minacciare nessuno. Solo il suo nome passava di bocca in bocca fra le guardie, anche loro smarrite dalla sua scomparsa.
Io continuavo a dipingere. Avevo una missione, restare vivo, e sapevo come realizzarla, celebrare la grandezza del nostro compagno Pol Pot, immaginando come lo avrei ucciso io stesso.
Duch non si fece più vivo ma noi prigionieri gli tenemmo un posto nei nostri cuori. Difficile scordare Duch, la sua voce e la sua mano sulla spalla mentre dipingevo. Ho detto “tenemmo”: parlo al plurale perché non fui il solo a lasciare vivo l’S-21, altri sei prigionieri scamparono la morte con me. Sette su quattordicimila.
I vietnamiti erano entrati nel Paese e avevano ricacciato i Khmer Rouges verso ovest dove stavano preparando la controffensiva. Il loro metodo era piegare la popolazione per spingerla a ribellarsi contro l’invasore. Una delle soluzioni prevedeva di minare i campi per evitare che i contadini potessero coltivarli, quindi affamando tutti. La rabbia della fame avrebbe dovuto ispirare al popolo un nuovo fervore rivoluzionario.
Fallirono, ma ci vollero altri dodici anni. Dodici anni di carestie, guerra civile, malattie, morti che camminano verso la tomba scavata in un angolo della giungla.
Io tornai a Battambang e mi rimisi a dipingere. Non spiegai quello che avevo cercato di fare all’inizio, avevo troppa vergogna di essere sopravvissuto per cercare delle scuse.
Ora, libero dallo sguardo di Duch, potevo finalmente dipingere le scene di tortura che avevo visto, liberamente. Inspiegabilmente, però, erano mosce. Gli sguardi dei condannati erano vuoti, il braccio che reggeva la frusta era morbido, non c’era mai abbastanza sangue. Non mi facevo una ragione di avere perso l’ispirazione, avere dimenticato cosa significava veramente sentire un prigioniero ammazzato a colpi di bastone e finito sgozzato.
La mancanza di efficacia nei miei dipinti era un tradimento dei fratelli che erano morti in quella scuola e gli spiriti mi flagellavano gli incubi. Feci diverse cerimonie per scacciare il cattivo karma ma la soluzione era più vicina di quanto immaginassi.
Ci vollero sei mesi perché capissi come tornare a dipingere con realismo quello che avevo visto. Era sufficiente tornare al vecchio stile.
Feci un tentativo di dipingere il volto di un bonario Pol Pot sotto a una fila di prigionieri bendati, con le mani dietro la schiena e un laccio di corda al collo, in fila indiana verso una buca che sarà la loro tomba. Mi venne perfetto. Nei loro volti si leggeva la paura, l’insicurezza, l’incredulità. Pol Pot mi aveva restituito il dono.
Con questa nuova tecnica recuperai l’espressività che cercavo e per quindici anni dipinsi così, senza mai ammettere la verità che solo dipingere Pol Pot mi riportava a galla le sensazioni provate nell’S-21.
Considerata la tecnica che usavo ora, non potevo certo spiegare quali erano i messaggi che facevo trapelare all’esterno quando ero prigioniero.
Nel 2001 venni contattato da una troupe francese per un documentario. Mi spiegarono che volevano ricostruire quello che succedeva all’S-21, dentro l’S-21, e che avevano rintracciato alcune delle guardie. Volevano che fossi io a intervistarle.
La domanda più insistente che ripetevo alle guardie era se si rendevano conto del male che facevano. Qualunque risposta mi dessero non era sufficiente, non mi bastava che si giustificassero che sarebbero stati uccisi se avessero disubbidito, che erano stati indottrinati da bambini, che erano troppo giovani. Non mi bastava nulla.
La domanda che non gli ho fatto è quella che invece mi premeva di più ma non ci sono riuscito: perché ero stato portato lì? Nessuno durante le torture mi aveva mai detto perché ero lì, non risultava dai documenti trovati dall’esercito vietnamita nel febbraio 1979 e io non capisco dove risultassi un traditore della loro Cambogia.
Tornare in quella scuola dopo venti anni fu difficile ma non insostenibile. Dopotutto l’S-21 era stato sempre con me, tutti i giorni, anche nei sogni. Tornarci fu penoso ma ne valse la pena per ricordare a tutti che quello che è successo, è successo veramente. Che mai nessuno, fra cinquant’anni, si svegli e dica che ci siamo inventati tutto.
Nel 2008 fui contattato da un tribunale che diceva di avere l’appoggio delle Nazioni Unite. Credevo che volessero qualcuno dei miei quadri, invece mi informarono che volevano processare Duch per crimini contro l’umanità nell’S-21 e scarseggiavano i testimoni oculari.
Processare Duch? Ma non si può, lui è un demone, fu la prima cosa che pensai prima di accettare.
Da me si aspettavano la descrizione accurata di come funzionava l’S-21, di raccontare se ero mai stato interrogato da Duch in persona e se lo avevo mai visto uccidere qualcuno. Ne avevo visti morire talmente tanti che non mi vennero in mente i due fratelli e la madre, ma era una delle poche storie di prima mano di cui erano al corrente. Avevano reperito il ragazzo sopravvissuto che avrebbe raccontato la storia dell’omicidio del fratello davanti ai giudici e davanti a Duch sul banco degli imputati. Mi chiesero se avevo assistito alla scena. Io gliela raccontai e loro parvero sorpresi.
Il giorno del processo rividi Duch dopo ventinove anni: un vecchio storpio che ansimava per la paura in uno scranno e guardava in basso. Non faceva pietà nemmeno così.
Nell’uomo più che adulto che era lì presente riconobbi il ragazzo a cui era stata risparmiata la vita e dannata l’anima quel giorno, quello che fu mandato a casa con la madre che non lo aveva scelto. Si sedette sul banco dei testimoni, lo presentarono specificando che la madre era morta dieci anni prima e gli chiesero di raccontare la sua storia.
«Mio padre è stato picchiato quando ci hanno arrestato. È morto in giardino mentre lo portavano via. Allora hanno preso mia madre, mio fratello e me. Ci hanno caricato su due camion separati, nel primo mia madre e mio fratello, nel secondo io. Non sapevo cosa pensare, non sapevo cosa avevo fatto. Allora non sapevo che radunassero gli insegnanti, come mio padre. Mi fecero dormire ammanettato a una sbarra di metallo e la mattina dopo mi trascinarono in una stanza dove mio fratello era legato a un palo e mia madre a una sedia. Legarono anche me accanto a mio fratello e poi arrivò… lui» indicò Duch.
«“Lui” è l’imputato?»
«Sì» confermò l’uomo. «E poi cominciarono ad arrivare anche degli altri prigionieri a guardare. Non so perché li avessero raggruppati a guardarci, proprio non lo so.»
Solo io sento davvero la sua vergogna.
L’ex ragazzo dovette fare una pausa, bevve un sorso d’acqua e si rituffò nei ricordi.
«Duch agitava la pistola davanti a me e mio fratello e diceva che eravamo figli di traditori e quindi eravamo traditori anche noi. Poi disse a mia madre che una famiglia di traditori non merita due figli, puntò la pistola alla tempia di mio fratello e sparò. Quando se ne fu andato, le altre guardie liberarono me e mia madre e ci lasciarono andare via.»
Duch ascoltò impassibile il racconto che lo accusava ma io non credo che fosse per freddezza. Secondo me non si ricordava l’episodio.
Il procuratore ringraziò l’uomo per la sua testimonianza e disse che voleva chiamare uno dei pochi sopravvissuti dell’S-21 per aggiungere dettagli. L’ex ragazzo alzò la testa verso il pubblico, sorpreso e terrorizzato, e mi vide che mi alzavo per andare verso lo scranno dei testimoni. Abbassò lo sguardo ed ebbi paura che volesse piangere.
«Lei era presente il giorno che Duch uccise il fratello di quest’uomo?» cominciò il procuratore.
«Sì, ero presente» risposi.
«Ci può dire come sono andate le cose? Vuole rettificare o aggiungere qualcosa al suo racconto?»
Io non cercai neppure l’ex ragazzo con lo sguardo.
«No, era tutto accurato» dissi. Quella fu la prima volta che Duch sentì la mia voce.
Duch è ancora sotto processo ma non sembra che se la caverà, un eufemismo se penso che l’hanno arrestato più di venti anni dopo. Probabilmente resterà in prigione fino alla fine della sua vita, così come io ho la mia prigione personale che mi sono portato con me quando sono uscito dall’S-21.
Anche adesso sono tornato nella mia prigione personale, guardando Duch. In un angolo, sul tavolo delle prove, spiccava una gigantografia di Duch e Pol Pot assieme. Sullo sfondo delle foto si riconosceva un mio quadro, il primo che feci, quello con il neonato che viene fracassato contro il muro.
L’autore
Giorgio Pirazzini è nato nel 1977 e ha studiato Comunicazione e pubblicità e ha lavorato tra l’Italia, Lisbona e Londra. Dal 2007 vive, felice, a Parigi. Ha pubblicato tre romanzi con case editrici indipendenti di Torino: I cattivi pensieri, La notte raccolgo fiori di carne (Las Vegas Edizioni, 2013 e 2011) e 9 notti a Milano (Miraggi Edizioni, 2011). Nel 2016, con Baldini e Castoldi, pubblica Gattoterapia.