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Quei 35 giorni di Mirafiori che nel 1980 cambiarono la storia del sindacato

35 anni fa si consumava proprio in questi giorni alla Fiat di Mirafiori il più duro conflitto sindacale dal secondo dopoguerra ad oggi – Il massimalismo del sindacato dei metalmeccanici, che scavalcò la leadership riformista di Lama, Carniti e Benvenuto, sottovalutò la crisi della Fiat e portò a una sconfitta storica da cui il sindacato non si è più ripreso

Quei 35 giorni di Mirafiori che nel 1980 cambiarono la storia del sindacato

Trentacinque anni fa, proprio in questo periodo , si consumava il più duro conflitto sindacale, dal secondo dopoguerra ad oggi, non solo alla Fiat ma nel Paese.

Dall’ 11 settembre al 16 ottobre 1980, il sindacato, anziché il confronto con l’ azienda, scelse lo scontro del muro contro muro, bloccando la Mirafiori e gli altri stabilimenti dell’ auto per 35 giorni nella convinzione che la Fiat, prima o dopo avrebbe ceduto: la parola d’ordine era “o molla la Fiat o la Fiat molla”.

Ciò che il sindacato non aveva capito era che la Fiat stava lottando per la sua sopravvivenza: la Fiat non cedette ed il sindacato andò incontro ad una sconfitta “storica” che nello spazio di poco tempo portò allo scioglimento del più potente sindacato unitario del tempo (la Federazione Lavoratori Metalmeccanici, più nota come F.L.M) ed ad un radicale cambiamento nel sistema delle relazioni sindacali nel Paese con la rottura del patto federativo tra Cgil, Cisl e Uil,  culminato con il referendum sulla scala mobile sostenuto dalla sola Cgil a fianco del PCI.  

Nel 1980 la Fiat Auto aveva in Italia un organico di circa 136.000 lavoratori, di cui 92.000 a Torino (l’ Alfa Romeo era ancora delle Partecipazioni Statali).  

Per far fronte alla gravità della situazione che si era venuta a determinare anche in dipendenza della crisi mondiale dell’automobile, la Fiat, agli inizi di settembre di quell’anno, annunciava la necessità di ricorrere a drastici tagli della produzione e a conseguenti interventi sugli organici mediante la collocazione in cassa integrazione a zero ore di circa 23.000 lavoratori dell’area torinese.
Alla assoluta chiusura del sindacato verso qualsiasi ipotesi di sospensioni dal lavoro, pur se con la collocazione in cassa integrazione, la Fiat si vide costretta, il giorno 11 settembre, ad avviare una procedura di riduzione personale per circa 14.000 lavoratori.  
Nello stesso pomeriggio dell’11 settembre, cortei di operai escono dagli stabilimenti di Mirafiori per invadere la Palazzina Uffici; non ci riusciranno ma Mirafiori, e dal giorno dopo gli altri stabilimenti torinesi, resteranno fermi e picchettati sino al 16 ottobre quando Luciano Lama, l’allora segretario generale della Cgil, chiuderà definitivamente la vertenza, pur se con forti contestazioni, in una infuocata assemblea alle Carrozzerie di Mirafiori.   

Dopo più di un mese di blocco delle fabbriche (e due scioperi generali nel Paese e la caduta del Governo Cossiga), con il sindacato che sognava di trasformare Mirafiori in una nuova Danzica e di ripetere la vittoria di Solidarnosc del mese prima con il governo polacco, successe quello che doveva succedere: il 14 ottobre un corteo silenzioso per le vie di Torino di oltre 40.000 lavoratori Fiat che volevano tornare al lavoro fu l’elemento risolutore del conflitto.

Nella stessa nottata veniva firmata una ipotesi di accordo con i segretari generali delle Confederazioni sindacali che ratificava le proposte da sempre fatte da Fiat: il ritiro della procedura di licenziamento collettivo e la collocazione in cassa integrazione
straordinaria di 23.000 lavoratori sino al giugno 1983.

L’ ipotesi di accordo sottoposta al “consiglione” dei delegati, riunito in un cinema di Torino, non sarà votata in considerazione del violento clima di opposizione e sarà quindi rimessa alle assemblee di fabbrica convocate per il giorno dopo.

Il voto delle assemblee sarà caratterizzato da forti contrasti ed episodi di violenza: se Lama alle Carrozzerie viene solo contestato, alle Meccaniche Pierre Carniti della Cisl ed alle Presse Giorgio Benvenuto della Uil saranno anche aggrediti.  

Le confederazioni Cgil, Cisl e Uil valutano che, anche se i risultati sono stati fortemente disomogenei, l’ipotesi di accordo debba ritenersi approvata.

Dopo 35 giorni si rientra al lavoro!

Con la sconfitta nella “roccaforte” di Mirafiori del sindacato metalmeccanico della F.L.M.  si chiude peraltro un decennio caratterizzato nelle fabbriche da conflittualità permanente nei reparti di lavorazione, scioperi con picchettaggi “duri” agli ingressi, incendi nelle verniciature, violenze sui capi, e purtroppo ferimenti e assassinii terroristici.

A partire dall’ autunno caldo del 1969, non passa una stagione contrattuale, sia nazionale che aziendale, che non sia pervasa da scioperi interni con cortei “spazzatutto”, sia per le officine che per gli uffici, con i capi costretti, a volte a calci nel sedere, a sfilare in prima fila con le bandiere della FLM in mano, o da picchettaggi  “di persuasione” agli ingressi sin dalle prime luci dell’alba nel caso degli scioperi di 8 ore per turno. E poi, per premere sulla chiusura della vertenza contrattuale, si arriva alla “spallata finale” con il blocco totale degli stabilimenti anche per una settimana.

Insomma, negli anni settanta, non passa anno che non vi sia una vertenza sindacale con le relative forme e dosi di conflittualità: picchetti, cortei interni, violenze sui capi.

Un inferno che per molto tempo (e perlomeno fino alla vicenda dei 61 licenziamenti dell’ autunno del 1979) viene sottovalutato o non percepito all’esterno dall’opinione pubblica e dalle forze politiche e sociali. Per tutti questi anni conflittualità e antagonismo sono i valori su cui si è ispirato il sindacato unitario metalmeccanico della F.L.M., che riuniva la Fim-Cisl, la Fiom-Cgil e la Uilm-Uil (sic !).

Su posizioni moderate ed aziendaliste resta l’altro sindacato presente in Fiat, la Fismic, che continua a mantenere un consenso tra quei lavoratori che si riconoscono ancora nei valori della collaborazione sul posto di lavoro (e che si scoprirà dopo il 1980 essere ancora tanti).

Il sistema di rappresentanza sindacale è basato sui principi di democrazia diretta con i delegati riuniti in “consigli di fabbrica”. I delegati vengono eletti dai lavoratori del proprio gruppo omogeneo, con procedure non formalizzate e molto approssimative, indipendentemente dalla militanza sindacale: la FLM provvede poi a dare loro la copertura legale di rappresentanti sindacali aziendali per poter fruire dei permessi retribuiti e delle guarentigie previste dallo Statuto dei Lavoratori.

In questo modo il sindacato imbarca in fabbrica i peggiori elementi, quelli che riescono a coagulare antagonismo e aggressività in una popolazione operaia, in maggioranza alle catene di montaggio, di recente immigrazione dal sud, che riversa in fabbrica tutto il proprio disagio sociale nel passaggio da una cultura contadina ad una cultura industriale non ancora assimilata.

Mentre le lotte operaie si inasprivano e gli scioperi si moltiplicavano, prendeva inoltre sempre più piede un altro dramma, il più grave di tutti, il terrorismo brigatista, che fece della Fiat il bersaglio preferito.

Nel corso di quegli anni vi sono stati, tra capi e dirigenti, due sequestri, una quarantina di gambizzazioni e cinque assassinii.
Nell’ autunno del 1979 l’omicidio terrorista di un dirigente, seguito a pochi giorni di distanza dall’ennesima gambizzazione di un altro, uniti ad un comportamento del sindacato di indifferenza, o nel peggiore dei casi di prossimità, non soltanto nei riguardi della violenza delle lotte sindacali nei confronti dei dirigenti e dei capi ma persino di fronte al terrorismo brigatista, fanno prendere alla Fiat la decisione di partire con una operazione di primo repulisti con il licenziamento di 61 facinorosi, i cui comportamenti erano già da qualche tempo sotto osservazione.

I 61 furono licenziati per indisciplina e comportamenti scorretti, ma la convinzione generale fu che la Fiat aveva cercato di colpire i fiancheggiatori del terrorismo in fabbrica.

La FLM si schierò con i licenziati: come disse un suo segretario “meglio un terrorista in fabbrica che un innocente licenziato”, ma nessuno dei 61 è rientrato in fabbrica.

Questi licenziamenti ridiedero fiducia alla struttura dei capi di officina: incominciarono ad arrivare le segnalazioni degli assenteisti cronici, dei lavori eseguiti con negligenza, degli scarsi rendimenti, delle attività commerciali illecite svolte nei reparti, a volte diventati veri e propri suk.

Il risultato fu che nel giro di qualche mese più di 8.000 persone lasciarono l’azienda tra licenziamenti disciplinari, dimissioni e uscite volontarie. Il vento era cambiato: a Mirafiori, nello spazio di qualche mese, l’assenteismo dal 20% crollò al livello fisiologico del 2%.  
Nacque il fenomeno contrario, quello del “presenteismo”, che nei bilanciamenti giornalieri tra organici e produzione, evidenziò da subito un eccesso di capacità produttiva e mostruose eccedenze di personale che si erano sedimentate nel corso degli anni, grazie al sistema pubblico del collocamento pubblico, che inibiva all’epoca la selezione del personale.  

Gli stabilimenti, in particolare le carrozzerie dove più alti erano i tassi di microconflittualità e assenteismo, erano arrivati a livelli di inefficienza del 20-25%.

In altre parole emersero in tutta la loro drammaticità lo stato di crisi di Fiat Auto e le drastiche iniziative che dovevano essere immediatamente prese.

Se non si ha chiaro questo quadro di riferimento, non si riesce a comprendere perché la Fiat non poteva “mollare” in quei 35 giorni: non si trattava solo di individuare le soluzioni per la gestione delle eccedenze di personale, ma si dovevano ristabilire le regole del vivere civile allontanando dalle fabbriche il maggior numero possibile di organizzatori del conflitto, che fossero o meno attivisti sindacali.

Come di fatto è avvenuto a Mirafiori, e non solo, da quel momento in poi.

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