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Quanto dura una crisi?

Cinque anni, se di natura finanziaria: ma se le medicine per curarla accentuano la fase recessiva, i 5 anni vanno contati dalla fine della recessione – Il nodo cruciale per l’Italia è la salute delle banche, che nel 2011 hanno contabilizzato 27 miliardi di perdite: ci vuole un rinnovamento del governo societario e una riconversione industriale del sistema.

Quanto dura una crisi?

“With the U.S. economy yelding firmer data, some researchers are beginningto argue that recoveries from financial crises might not be as different fromthe aftermath of conventional recessions as our analysis suggests. Their caseis unconvincing.”

E’ il primo passo di un recente e interessante articolo di due studiosi del calibro di K.S. Rogoff e K.M. Reinhart “Five Years After Crisis, No Normal Recovery” (marzo, 2012), che porta ad interrogarsi sulla effettiva durata della crisi che stiamo vivendo, con alcune lezioni del passato che aiutano a dare maggiore consapevolezza alle nostre attese. Almeno così sembrano suggerirci i due economisti che hanno passato in rassegna decine di crisi economiche succedutesi nel corso dei secoli. Uno sguardo rivolto alle sicurezze del passato e non alle incertezze del futuro!

Orbene, dicono i due autori, le crisi economiche possono essere ascritte a due eventi: di natura congiunturale e di natura finanziaria, con sostanziali differenze quanto alla loro durata.

Nel primo caso possono bastare alcuni mesi o trimestri per uscirne. Il secondo caso è, invece, di gran lunga più problematico, tanto che in media ci vorrebbero quasi 5 anni perché alcune variabili economiche ritornino ai livelli pre-crisi. La recessione innescata da turbolenze finanziarie è, quindi, quella più pericolosa: gli eccessi della finanza uccidono, sono un vero killer dei mercati e dell’economia, per i quali diventa molto più faticoso risorgere eriprendere il trend temporale.

Vi è anche da registrare che vi sono economisti di alcune banche centrali che sono di diverso avviso e che giudicano troppo lungo un periodo di recupero stimato in 5 anni.

Ora non siamo in grado di prevedere quale sia il tempo esatto per una ripresa del reddito, degli investimenti e dell’occupazione, ma di certo queste discussioni ci permettono di capire un po’ meglio ciò che sta avvenendo in Italia e di porre il problema in un più plausibile contesto.

Due punti chiave ci pare che emergano chiaramente.

Il primo è che i tempi del risanamento sono assai lunghi, nonostante tutte le medicine che sono state e continuano ad essere somministrate alla nostra malata economia. Se poi le medicine accentuano la fase recessiva, i 5 anni vanno contati dalla fine della recessione e non dall’inizio e quindi i tempi diripristino si allungano ulteriormente con gravi ripercussioni sul piano sociale e  politico.

Il secondo ragionamento chiama in causa i profondi e non del tutto approfonditi nessi tra finanza ed economia reale e rinvia allo stato di salute delle nostre banche, che nel 2011 hanno complessivamente iscritto in bilancio perdite per circa 27 miliardi di euro per lo più generate da svalutazioni degli avviamenti prodottisi in anni nei quali i valori dellepartecipazioni acquisite soprattutto in altre banche erano, quando non di pura fantasia, di certo privi di sufficiente prudenza. In questi giorni la Borsa italiana, che non aveva scontato tali ultimi risultati, ha ripreso a penalizzare i titoli del comparto ricollegandosi alla strutturale debolezza reddituale del nostro sistema, piuttosto che ai valori di mercato dei titoli sovrani presenti nei loro portafogli.

Le rettifiche operate per impairment degli avviamenti hanno lasciato minore spazio alle rettifiche dei portafogli crediti, pena risultati complessivi ancor più scoraggianti di quelli invero modesti conseguiti, salvo eccezioni, dalle banche italiane. Così, stante la crisi in atto, anche il 2012 sarà presumibilmente segnato da una redditività quasi inesistente, dovuta questa volta alla non più differibile svalutazione dei crescenti crediti deteriorati, con sofferenze lorde che hanno raggiunto i 100 miliardi di euro.

Quanto si sta sperimentando è quindi molto preoccupante, anche perché si ha l’impressione che non se ne parli (o non se voglia parlare) a sufficienza, andando alla ricerca delle vere cause.

Nei fatti bisogna definitivamente riconoscere che il nostro sistema bancario ha capacità produttiva in eccesso e prospettive di espansione assai contenute, se non a prezzo di una profonda ristrutturazione industriale. Anche nelle regioni ricche del paese l’attività d’intermediazione delle banche (grandio piccole che siano) è sostanzialmente ferma ai volumi degli anni passati, cosicché non possono non profilarsi dolorosi ridimensionamenti in termini disportelli, di personale e di tutto quello che, in queste organizzazioni, è cresciuto a dismisura negli anni di euforia finanziaria. Il problema è che sono terminati anche i fondi accantonati nel tempo per autofinanziare gli esodi e l’età pensionabile si è spostata inesorabilmente in avanti. E in più l’Eba insiste sulla necessità di maggiore capitale a fronte dei rischi.

Così diventa difficile stabilire da dove si debba cominciare. E per di più sono tutti a sostenere che bisogna fare presto per allontanare lo spettro ormai incombente del credit crunch, che sembra invece l’unica via per ristabilire un adeguato rapporto tra attivi a rischio e mezzi patrimoniali richiesti dalle regole di vigilanza. Ragione per la quale pare di essere entrati in un complicatolabirinto nel quale, alla fase di inappetenza per il rischio del nostro banchiere possa addirittura seguire quella della sua eutanasia. Nel contempo, peraltro, ci sembra che ci si preoccupi soprattutto di aspetti parziali, evitando di analizzare criticità da sempre note, quali le gravi inefficienze operative e la diffusa pratica di relazioni creditizie non proprio trasparenti con le cosiddette parti correlate, cosa che nel tempo produce anche una maggiore concentrazione dei rischi creditizi.

Ci si deve augurare che il sistema inizi la propria riforma con determinazionee al costo di irrinunciabili cambiamenti nelle modalità del proprio governo societario, cui l’applicazione dell’ art. 36 del decreto Salva Italia ha dato inquesti giorni un salutare impulso almeno per eliminare gli incarichi plurimi, segnale inequivocabile di palesi conflitti di interesse. Ma anche qui occorre essere realistici e pensare che disboscare gli intrecci creatisi in un tempo tanto lungo è un processo difficile e forse altrettanto lungo sul quale le autorità non debbono allentare la presa. A titolo di cronaca un’indagine di qualche tempo fa individuava in Mediobanca l’esistenza di 1200 relazioni creditizie e finanziarie con parti correlate: praticamente tutte le imprese italiane che contano.

E si deve sperare che rinnovamento del governo societario e riconversione industriale del sistema non vengano avviate con troppo ritardo, altrimenti i contribuenti italiani potrebbero essere chiamati a salvare, oltre allo Stato, anche le banche, magari con qualche soluzione in salsa spagnola. E questo sarebbe davvero troppo, perché si dimostrerebbe che, anche nel caso italiano, l’uscita dalla crisi economica che ci attanaglia potrebbe essere molto più lunga e complessa a causa dei descritti problemi del nostro sistema bancario.

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