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Prodi: “Crescita sì ma senza diseguaglianze: cambiare si può”

INTERVISTA DEL WEEKEND all’ex premier ROMANO PRODI – Per gentile concessione dell’editore il Mulino e dell’autore pubblichiamo in via eccezionale un piccolo estratto del nuovo libro di Prodi “Il piano inclinato” che pone al centro delle riflessioni non solo l’urgenza di rilanciare la crescita ma di farlo correggendo le diseguaglianze che alimentano sfiducia e populismo – Ecco perchè

Prodi: “Crescita sì ma senza diseguaglianze: cambiare si può”

Crescita senza uguaglianza, una trappola che ha reso le nostre società più ingiuste. Per disegnare un futuro migliore dobbiamo restituire valore e peso politico al lavoro e ricordare che “senza eguaglianza, la stessa crescita rallenta e le crepe nella coesione sociale alimentano i populismi mettendo a rischio la stabilità democratica”. E’questo il nucleo centrale delle riflessioni dell’ex premier Romano Prodi in un libro-intervista con Giulio Santagata e Luigi Scarola, intitolato “Il piano inclinato” e uscito nei giorni scorsi nella collana Voci de Il Mulino (pagg. 155, euro 13).  Il piano inclinato è quello del Paese e della fiducia smarrita in un futuro migliore perchè la crescita è modesta e le diseguaglianze sempre più forti e sempre più inaccettabili. Ma Prodi è convinto che “cambiare si può e si deve”. Vediamo come in un breve estratto del pamphlet che pubblichiamo per gentile concessione dell’editore e dell’autore.

Professor Prodi, oggi si parla molto di diseguaglianza. Si può fare qualcosa per contrastarla? 

Non dobbiamo sorprenderci che il senso di ingiustizia nei confronti del sistema economico sia in crescita ovunque, a partire dagli Stati Uniti, che pure sembravano in grado di reagire meglio di ogni altro paese a reddito elevato alle sfide della trasformazione dell’economia. Le sfumature sono diverse da paese a paese, ma il quadro è il medesimo: ci troviamo di fronte a una generale crisi del sistema economico nel quale viviamo. Quest’insoddisfazione trova il suo sbocco politico in una crescente critica nei confronti dei partiti tradizionali, che pure ci hanno portato una prosperità diffusa e, almeno in Europa, hanno contribuito alla costruzione di un sistema di sicurezza sociale che non ha precedenti nella storia.

Coloro che oggi si sentono emarginati e senza speranza cercano perciò nuovi approdi e le categorie più colpite si affidano a coloro che, pur senza ricette collaudate, promettono una miracolosa uscita dalla crisi. Per questo motivo i metalmeccanici del Michigan si affidano a Donald Trump e la Brexit non è stata votata dalla parte opulenta della City ma dagli operai e dai pensionati delle periferie e dei centri minori. E vediamo che in Austria il candidato populista Norbert Hofer perde a Vienna ma stravince nelle campagne. Dalla Danimarca alla Francia, dalla Germania alla Gran Bretagna, dalla Spagna all’Italia, passando per l’Austria e l’Olanda i partiti classici di destra e di sinistra arretrano, lasciando spazio ai nuovi movimenti che, per convenzione, chiamiamo populisti ma che, in ogni caso, sono il segno di un disagio crescente.

Questo accade perché le ragioni che generano il disagio delle nostre società, anche se si presentano con caratteristiche diverse, sono le stesse. Esse sono prodotte da un malessere comune, che investe tutto l’Occidente da quando si è affrontata l’inevitabile e necessaria globalizzazione con strumenti inadatti e senza una visione politica di lungo respiro.

L’Italia non è ancora riuscita a definire una sua strategia di crescita duratura e inclusiva. In estrema sintesi quali dovrebbero essere le priorità su cui innestare un nuovo corso?

Se vogliamo risalire il piano inclinato in cui siamo precipitati dobbiamo rimettere l’Italia sul cammino della crescita. La crescita è l’unica strada possibile per incidere in maniera efficace e politicamente accettabile sugli squilibri. Il protrarsi della stagnazione blocca l’ascensore sociale e favorisce le diseguaglianze. L’assenza di crescita non significa, infatti, che gli equilibri rimangano stabili. Nelle fasi di stagnazione le risorse tendono a spostarsi con ancora più facilità dalle classi medie e basse a quelle più ricche. Con una crescita intorno al 2-3% all’anno, se ben governata, sarebbe possibile, nell’arco di cinque anni, prosciugare buona parte della sacca di disoccupazione che si è allargata con la crisi, e al contempo mettere in campo adeguate misure in grado di migliorare anche la qualità del lavoro.

Per riavviare la crescita in maniera robusta c’è bisogno però di incidere prioritariamente su due elementi: domanda interna e produttività.

La domanda interna è oramai asfittica da troppo tempo. Serve una redistribuzione dei redditi più equa a favore della classe media e delle componenti più povere della popolazione. Bisogna cioè restituire fiducia ai nostri cittadini attraverso un sostegno deciso ai salari e alle pensioni.

Ma non basta. Perché la crescita sia duratura c’è bisogno che venga spinta dall’economia reale e ciò avviene solo se aumenta la produttività delle nostre imprese, ancora troppo bassa. A tal fine non si può che puntare con costanza e senza ripensamenti su conoscenza e formazione, creando il terreno per una vera ripresa degli investimenti produttivi. L’attenzione deve essere quindi concentrata su un riequilibrio fiscale a favore dell’economia reale, agevolando le imprese in grado di stare sul mercato e generare lavoro di qualità. Bassa produttività significa minor ricchezza e maggiori diseguaglianze.

Altrettanto essenziale per l’obiettivo di una migliore distribuzione dei redditi è la coesione sociale, che è stata messa a dura prova proprio dagli squilibri esistenti….. Lo strumento migliore per il recupero di coesione sociale rimane un sistema di welfare efficace e accessibile non solo alla classe media……

Il compito della politica è costruire consenso attorno a questi temi mentre oggi le guerre tra poveri hanno il sopravvento… i populismi fanno sì che la maggioranza del 99% approvi le politiche a favore dell’1% della popolazione.

L’ostacolo maggiore al raggiungimento di uno sviluppo più equilibrato è proprio la difficoltà della politica a reimpossessarsi di un ruolo centrale nel governo dei processi economico-sociali.

Come ho più volte affermato, in tutti i paesi la politica ha avuto una pesante responsabilità nel favorire (o almeno nel non contrastare) la crescita delle ingiustizie, non governando adeguatamente l’impatto dei grandi generatori di diseguaglianze.

I cittadini hanno percepito questa debolezza e si sono progressivamente allontanati dalla partecipazione pubblica, lasciando così spazio ai populismi e alle tendenze autoritarie. Continuando così ci troveremo tutti in una trappola senza sbocco.

La polarizzazione crescente della ricchezza e la progressiva riduzione del ruolo delle classi medie hanno progressivamente eroso la base sociale necessaria per promuovere un serio percorso di riforme.

Eppure ci sono segnali di una maggiore presa di coscienza della gravità della situazione. Parti crescenti dell’opinione pubblica si stanno risvegliando dalla lunga ipnosi che le aveva portate ad aderire acriticamente al pensiero unico liberista fino al punto di schierarsi contro i propri interessi. Ma da qui a riuscire a ricostruire una base di consenso sufficiente per governare con un programma che inverta la rotta fino a oggi seguita c’è ancora molta strada da fare.

Il consenso necessario per il cambiamento passa obbligatoriamente per un ritrovato ruolo delle classi medie. Non si tratta solo di guadagnarne il voto ma di un processo di riaffermazione della loro centralità…..

 

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