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Perego (Polimi): “I robot? Toglieranno più lavoro agli avvocati che ai magazzinieri”

INTERVISTA DEL WEEKEND – Alessandro Perego, direttore del Dipartimento di Ingegneria gestionale del Politecnico di Milano, spiega che i lavori che l’intelligenza artificiale mette più a rischio sono quelli “ripetitivi, più probabilmente quelli cognitivi che quelli manuali” – Il World Economic Forum stima da qui al 2020 un saldo negativo dell’occupazione, dovuto alla tecnologia: -5 milioni di posti – Sulla proposta di Bill Gates di tassare il lavoro dei robot: “Meglio tassare i mega profitti delle aziende”.

Perego (Polimi): “I robot? Toglieranno più lavoro agli avvocati che ai magazzinieri”

Amelia, la segretaria-robot in grado di parlare 20 lingue e anche di provare emozioni, esisterà – forse – in un futuro troppo lontano; mentre il robot che nell’immaginario di tutti noi prende il posto dell’operaio in fabbrica appartiene già al passato, nei Paesi più evoluti. E dunque a che cosa ci si riferisce quando si parla, oggi, di robotizzazione? A spiegarlo a FIRSTonline è Alessandro Perego, direttore del Dipartimento di Ingegneria gestionale del Politecnico di Milano, fondatore e direttore scientifico dell’Osservatorio Digital Innovation e responsabile scientifico degli osservatori Agenda Digitale e Industria 4.0: “Innanzitutto sarebbe più corretto parlare di Intelligenza Artificiale, di cui fanno parte anche i robot intesi come umanoidi, ma il vero tema è quello dell’automazione delle attività, tramite software in grado di fare operazioni con le caratteristiche dell’intelligenza umana. E le professioni più a rischio non sono quelle che tutti credono”. E’ sul lavoro infatti che va maggiormente a incidere questa rivoluzione, come ha recentemente ricordato Bill Gates aprendo il dibattito su come gestirla: meglio tassare il lavoro dei robot, come suggerisce il patron di Microsoft, o i profitti delle aziende high tech che traggono maggior beneficio dall’automazione, come ha proposto in Italia, tra gli altri, Milena Gabanelli? E come gestire il welfare ai tempi dell’Intelligenza Artificiale?

Professore, chiariamo subito una cosa: è vero che l’Intelligenza Artificiale mette a repentaglio milioni di posti di lavoro nel mondo? E se sì, quali?

“Sì, anche se non come si crede comunemente. Talvolta si pensa alle macchine che sostituiscono gli operai nelle fabbriche, ma questo già avviene da decenni. E altre innovazioni, come gli umanoidi che possono completamente replicare l’attività di una persona, sono lontane nel tempo. Attualmente sono a rischio i lavori che hanno la caratteristica della ripetitività, che sia manuale o cognitiva. Ma a differenza di quello che si pensa, sono molto più a rischio i lavori cognitivi, anche perché nel mondo la maggior parte dell’occupazione riguarda il settore dei servizi. Penso dunque ai call center o a tanti lavori che hanno una componente ripetitiva, soprattutto nella fase di analisi di dati, di ricerca. E quindi anche un avvocato che studia la giurisprudenza di un caso, un medico che fa ricerca, un giornalista che cerca documentazione: non è il lavoro in sé ma è questa sua parte che verrà, nel breve termine, sostituita dall’intelligenza artificiale”.

E dunque paradossalmente i lavori manuali sono meno a rischio?

“Sì, anche perché l’automazione nella catena di montaggio di una fabbrica è già realtà. Però per molte altre cose il lavoro manuale richiede destrezza: penso ad alcune attività degli operai stessi, o al lavoro di un cameriere, che non ripete sempre esattamente gli stessi gesti. Penso anche ai mestieri dove serve consapevolezza del contesto, come guidare un taxi: è vero che esiste già l’auto senza pilota, ma la sua applicazione concreta, nella vita reale del traffico cittadino, avverrà in un futuro lontano, o forse non avverrà per niente. Almeno così mi auguro, in un certo senso”.

Perché?

“Perché ho fiducia nell’uomo e penso che la natura umana abbia degli aspetti insostituibili. Un robot che riesca ad avere l’empatia e l’emozione di un individuo umano non solo è lontano dall’entrare sul mercato, ma sarebbe anche inquietante. Negli stessi lavori cognitivi di cui parlavo prima, è infatti solo la componente ripetitiva ad essere replicabile. Ma non quella legata a empatia, relazioni, creatività. Lo stesso avvocato può essere sostituito dalla macchina nella ricerca di informazioni, ma non ad esempio durante un’arringa in tribunale, dove emerge il suo talento personale e i fattori esterni sono troppo variabili. Lo stesso vale per il medico quando visita o opera, o per il giornalista che ha uno stile di scrittura personale, che può suscitare interesse e emozioni nel lettore. Sono alcuni aspetti delle professioni ad essere a rischio, non le professioni in sé: è chiaro che potendo automatizzare anche una sola parte del processo, uno studio legale assumerà meno avvocati, ma non potrà farne del tutto a meno: anzi, il loro lavoro sarà più valorizzato, in quanto complementare a quello della macchina, più specialistico, avranno più tempo per farlo e probabilmente saranno meglio pagati”.

Quindi l’automazione è anche un’opportunità. Il paradigma non è “race against the machine” ma “race with the machine”.

“Esattamente. Le faccio un esempio: è ormai noto che un computer sia in grado di vincere contro un umano a scacchi, ma è stato anche dimostrato che, giocando a squadre, la miglior combinazione è quella di un team misto, fatto di uomini e robot insieme. Loro vincerebbero sia contro un team di soli uomini che contro un team di sole macchine”.

Quindi anche un operaio, se non fa un’azione troppo ripetitiva e quindi ripetibile, può sentirsi al sicuro?

“Alcune delle azioni che svolgiamo quotidianamente, come camminare e prendere degli oggetti, ci sembrano semplici ma sono frutto di milioni di anni di evoluzioni della specie, mentre per svolgere alcune attività cognitive serve solo qualche anno di apprendimento. Ecco perché un operaio è più facilmente sostituibile nella catena di montaggio per assemblare le componenti di un’automobile, come già avviene, che per esempio per prendere degli oggetti in un magazzino dove sono collocati migliaia di prodotti diversi”.

Saranno contenti i milioni di lavoratori nei magazzini di Amazon, ad esempio.

“Amazon tra l’altro è proprio un caso virtuoso di “race with the machine”. Il magazziniere continuerà a prendere fisicamente i prodotti negli scaffali, un’attività troppo complessa per essere fatta da un robot in depositi con migliaia di prodotti diversi fra loro. Però lo stesso magazziniere farà meno fatica a farlo, perché Amazon ha acquisito Kiva, società che produce piattaforme automatizzate che aiutano i lavoratori a spostarsi agilmente sul luogo di lavoro, portandoli automaticamente nel reparto giusto. In più l’innovazione ha prodotto anche degli esoscheletri artificiali per aiutarli a sollevare i prodotti più pesanti”.

Il saldo comunque, secondo le stime del World Economic Forum, sarà negativo, almeno nel breve periodo: da qui al 2020 la tecnologia costerà oltre 5 milioni di posti di lavoro nel mondo (2 milioni quelli creati, 7 milioni quelli persi).

“Il report “The Future of the Jobs” indica effettivamente questo, ma lo fa analizzando solo i 15 Paesi più industrializzati, e cioè solo il 65% della forza lavoro mondiale. La nostra posizione di fondo però, guardando ad ampio spettro, è che la quarta rivoluzione industriale – quella di cui stiamo parlando – è da leggere in chiave positiva, anche se nel breve termine ci potranno essere dei saldi occupazionali negativi”.

Veniamo a Bill Gates. Il tema del welfare, in un’epoca in cui diverse professioni sono oggettivamente a rischio, diventa centrale: il fondatore di Microsoft ha proposto di tassare il lavoro dei robot, come se fossero lavoratori umani. In Italia Milena Gabanelli ha invece lanciato un dibattito sulla corretta tassazione dei big dell’high tech che traggono i maggiori benefici dall’innovazione. Lei con chi sta?

“Bene che Gates abbia toccato la questione, ma io sto con Gabanelli. L’automazione crea benefici, sta poi alle aziende distribuire il beneficio ai propri azionisti, ai propri dipendenti e alla comunità attraverso il pagamento delle imposte. Imposte che tra l’altro sarebbero più alte, crescendo i benefici, e potrebbero contribuire ancora di più a sostenere il welfare. L’alternativa potrebbe essere, avendo abbassato i costi di produzione, di vendere i prodotti a prezzi più bassi, rinunciando ai profitti ma rendendo la merce accessibile a più consumatori. Comunque il tema oltre che economico è anche etico, e credo che per l’Unione europea sia arrivato il momento di lavorare seriamente sull’omogeneità fiscale”.

Una volta ottenuto un contributo importante per il welfare, come sarebbe meglio utilizzarlo e che cosa pensa del reddito di cittadinanza?

“Capisco e rispetto la proposta del reddito di cittadinanza, che ha un suo perché purché sia strettamente selettivo. Però il lavoro non è soltanto reddito, è anche dignità. Meglio dunque creare delle opportunità di inserimento o di reinserimento nel mercato del lavoro. Concordo con alcune delle proposte alternative che si leggono in giro, come il contributo per il contratto di inserimento per i giovani o l’inserimento nel contratto del diritto soggettivo alla formazione. Ricordiamoci sempre che i robot non sostituiranno mai il talento delle persone”.

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