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Mezzogiorno, ultima chiamata: chi raccoglie l’allarme del Rapporto Svimez?

Il Sud Italia cresce meno della Grecia e accentua il gap con il resto del Paese e l’Europa – In 15 anni sono emigrati 2 milioni di meridionali – Ma i suoi problemi non si risolvono nè con il Reddito di cittadinanza nè con l’autonomia differenziata.

Mezzogiorno, ultima chiamata: chi raccoglie l’allarme del Rapporto Svimez?

In una saletta affollata, assente la ministra per il Sud, che aveva invece partecipato alle precedenti sessioni, sono state presentate nei giorni scorsi le “Anticipazioni del Rapporto Svimez 2019 sull’economia e la società del Mezzogiorno”. Il presidente Adriano Giannola e il direttore Luca Bianchi hanno lanciato un messaggio di allarme molto preoccupato al mondo politico e ai diretti responsabili del governo. Riferendosi alle politiche per la crescita oggi necessarie, hanno affermato che si tratta ormai dell’ultima chiamata per affrontare una situazione che è divenuta di strutturale impatto negativo per l’intero Paese. 

Prima di entrare nel merito delle “anticipazioni” di quest’anno è interessante richiamare il passaggio di tono che ha progressivamente caratterizzato le analoghe presentazioni degli ultimi quattro anni. Il documento per il 2016 si intitolava “Dalla ripartenza alla ripresa dello sviluppo”. Per il 2017 si sosteneva che “La ripresa si consolida ma rimane l’emergenza sociale”. Per il 2018 si collocava “L’economia e la società del Mezzogiorno nella stagione dell’incertezza”. Quest’anno l’evento viene titolato: “Lo spettro della recessione al Sud”. 

Si è usciti, cioè, da un atteggiamento di speranzosa incertezza e di valorizzazione dei segnali positivi manifestati dall’economia meridionale nell’ultimo triennio e si è preso atto che la situazione sta ora precipitando decisamente in basso: il tasso di crescita per il 2018 è sceso al +0.6% mentre per il 2019 si prevede -0.3% (+1.0 e +0.3%, rispettivamente, al Centro-Nord). Il Mezzogiorno italiano sta crescendo meno della Grecia e sta accentuando il gap con il resto del Paese e l’Ue. Ma, si badi bene, il Centro-Nord non naviga a vele spiegate, anzi, nell’ultimo quadriennio dimostra che da solo è in grado di crescere a un ritmo di molto inferiore alla media Ue (+5.1% contro il +9.1%). 

A parte i riflessi della attuale situazione globale, cioè, la sua economia non può contare come nel passato anche sull’apporto di domanda interna proveniente dal Sud. La debolezza di quest’ultima, d’altra parte, non dipende solo dal più basso tasso di crescita dei consumi finali delle famiglie meridionali (4.4% contro 6.2% del Centro-Nord nel 2015-2018) ma, soprattutto, dalla diminuzione della spesa per consumi finali delle amministrazioni pubbliche: nel Mezzogiorno questa è stata pari al -2.3% negli ultimi quattro anni, contro un aumento del +1.5% nel Centro Nord.

Non è vero, oggi, che ci sia più spesa pubblica nel Mezzogiorno che nel Centro-Nord. Si tenga conto, infatti, che gli investimenti in opere pubbliche nel 1970 erano pari a 677 euro pro capite nel Sud e a 452 nel Centro-Nord, mentre sono invece scesi nel 2018 rispettivamente a 102 e 278! A fronte di ciò va sottolineato come gli investimenti privati rimangono nel Sud una componente dinamica della domanda interna (+9.6% nel 2015-18), nonostante la preoccupante frenata, quasi un azzeramento, di quelli per macchine e attrezzature nel 2018 (+0.1%); effetto dell’indebolimento degli interventi connessi a Industria 4.0. 

Il quadro macroeconomico così delineato peggiora ancora, se possibile, attraverso la lettura delle tendenze e dei dati occupazionali, migratori e dello stato delle più rilevanti infrastrutture sociali che oggi caratterizzano il Mezzogiorno. 

Per quanto riguarda l’occupazione, dalla metà del 2018 si è avuto un calo di 107 mila unità (al Centro Nord +48 mila) e si è ancora sotto di 265 mila posti rispetto al 2008. Diminuisce il tempo indeterminato e aumentano il tempo determinato e il part-time involontario. Il tasso di occupazione femminile è pari al 35.4% contro il 62.7% del Centro-Nord e il 67.4% dell’UE a 28. Il gap occupazionale, inoltre, misurato applicando alla popolazione meridionale il differenziale del tasso di occupazione rispetto al Centro-Nord, è stimato a quasi 3 milioni di unità, di cui la metà sarebbero lavoratori altamente qualificati. 

Per quanto riguarda il fenomeno migratorio, pochi dati riassumono la situazione: negli ultimi 15 anni sono emigrati 2 milioni di meridionali e il saldo netto, considerando i rientri, è pari a -852 mila unità, di cui ben 612 mila sono giovani sotto i 35 anni e 240 mila laureati. Si sta, quindi, registrando un calo di popolazione giovanile e qualificata che non è, in ogni caso, compensata dai flussi di immigrati regolari, i quali rimangono di gran lunga più bassi e caratterizzati da bassa qualificazione. Su questo piano, quindi, si prepara per il Mezzogiorno una prospettiva realmente devastante in termini di perdita di popolazione, deficit di capitale umano e desertificazione dei territori, soprattutto quelli interni. 

Accanto a tutto ciò, infine, vengono prese in considerazione le condizioni delle infrastrutture sociali. A questo proposito il quadro che emerge, seppur sintetico, rivela tra il Sud e in Centro-Nord un divario assolutamente insostenibile nel livello dei servizi che dovrebbero garantire i diritti di cittadinanza della popolazione meridionale. E questo, senza entrare nel merito dei tanti dati negativi, riguarda, come è ben noto: scuole, ospedali, presidi sanitari, asili nido, mobilità, e così via.   

Per concludere. Come si diceva all’inizio, marcando la gravità della situazione, i dirigenti della Svimez hanno inteso rivolgere al governo, e a tutta la classe politica nazionale un’ultima chiamata per affrontare responsabilmente i problemi del Sud. E’ assolutamente necessaria una presa d’atto della drammaticità della situazione e della sua pericolosità per l’intero sistema economico e sociale. Non si può più attendere. Come ha dimostrato la Svimez negli anni scorsi, imprese vitali, talenti, risorse naturali non mancano al Mezzogiorno. Bisogna sostenere – come si era cominciato a fare, seppure in maniera insufficiente – e consolidare con continuità i segnali di possibile ripresa dell’economia meridionale.

Non si può pensare a soluzioni separate, la ripresa strutturale di quest’area va avviata all’interno di un programma organico di interventi in una strategia a dimensione nazionale e europea. I temi sono quelli che coinvolgono l’intero sistema economico e sociale del Paese e la sua collocazione in Europa: innovazione, formazione di capitale umano, infrastrutture sociali e ambientali, competitività nelle catene globali del valore, prospettiva mediterranea. Tutto questo viene prima del reddito di cittadinanza e non è compatibile con il disegno separatista dell’autonomia differenziata.         

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