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Mario Monti, due “poltrone” per uno: ancora Palazzo Chigi o il Quirinale?

Atteso a giorni il pronunciamento di Monti: candidarsi a premier alle elezioni o tenersi in disparte in vista della successione alla Presidenza della Repubblica? I centristi e buona parte dei leader europei tifano per la conferma del Professore come primo ministro ma il Pd lo mette in guardia: ti abbiamo sostenuto lealmente, non schierarti contro di noi

Mario Monti, due “poltrone” per uno: ancora Palazzo Chigi o il Quirinale?

Nessuno lo ha detto esplicitamente, ma quando nel novembre dell’anno scorso Giorgio Napolitano nominò Mario Monti senatore a vita, prima di dargli l’incarico di succedere a Berlusconi con la formazione di un governo sganciato il più possibile dai condizionamenti dei partiti, a molti sembrò che la strada per il professore della Bocconi fosse pressochè segnata: prima avrebbe servito il Paese guidando quello che doveva essere il governo che avrebbe impedito al Paese di precipitare nel baratro, poi, dopo le elezioni che avrebbero riportato il Paese ad una normale dialettica politica, sarebbe diventato il candidato naturale alla presidenza della Repubblica. Con un percorso in parte simile a quello che portò al Quirinale Carlo Azeglio Ciampi che però, dopo essere stato presidente del Consiglio e prima di salire al Colle, fece anche il ministro del Tesoro nei governi Prodi 1 e D’Alema.

La prima parte di questo percorso, immaginato da molti protagonisti ed osservatori politici, si è avverata: il nostro Paese ha recuperato, grazie a Monti, prestigio internazionale, lo spread è calato, gli italiani, soprattutto le categorie più deboli, hanno accettato sacrifici durissimi che difficilmente potevano essere imposti da altri. Sulla seconda parte del percorso, quella che voleva immaginare il professore della Bocconi procedere verso il Quirinale, ci sono ancora molti dubbi. In Italia i partiti di centro (vecchi e nuovi) insistono perchè Monti possa essere il loro candidato a primo ministro. In Europa, e si è visto in questi giorni a Bruxelles, un’ipotesi del genere, è considerata con molto favore. Soprattutto nel Ppe, ma non soltanto nel Ppe.

Ora è comprensibile che i partiti del centro nostrano, puntino ad avere per la prossima campagna elettorale un’ipotesi forte da mettere in campo per affrontare il giudizio degli elettori, proponendo il nome e l'”agenda” (un termine un po’ abusato quanto inappropriato) di Monti. Al tempo stesso non c’è da meravigliarsi del fatto  che i maggiori leader europei, che hanno saputo apprezzare il ruolo del professore in questi mesi difficili, tifino apertamente per lui. Eppure, e questo vale soprattutto per coloro che ci guardano da altri Paesi europei, non sempre è tenuto nella giusta considerazione quale sia il peso e l’importanza del ruolo svolto dai presidenti della Repubblica nella nostra storia e nel nostro ordinamento. Si pensi all’Einaudi del dopoguerra che garantì il passaggio dai governi ciellenistici a quelli dei partiti, e a Pertini che si trovò a garantire la guida di un Paese devastato dal terrorismo delle Brigate rosse, all’indomani del delitto Moro.

Ma ci si chieda soprattutto cosa sarebbe successo al nostro Paese in quest’ultimo quasi ventennio, nel quale nella politica ha impazzato Berlusconi con le sue consorterie, se dal  Colle più alto Napolitano, Ciampi, e, per molti versi, anche Scalfaro (quel suo “non ci sto” non ha mai del tutto convinto che scrive) non avessero difeso il corretto ordinamento della vita costituzionale del Paese.

Ora naturalmente ciascuno ha il diritto di prendere la strada che preferisce. E sono molti (non lui) coloro che dicono che Monti preferirebbe continuare a farsi valere come primo ministro piuttosto che come capo dello Stato. Di certo però sottovalutare il ruolo di garanzia che spetta al presidente della Repubblica sarebbe ed è un macroscopico errore di miopia politica. Soprattutto da parte di chi chi ha già dato prova di saper servire nel modo migliore il Paese, nonostante “la strana maggioranza” con la quale ha in questi mesi dovuto fare i conti.

Già perchè c’è un’altra domanda da porsi: quale sarebbe la maggioranza, questa volta politica, sulla quale potrebbe basarsi, dopo le elezioni politiche Monti? Soltanto una maggioranza di centro-sinistra. Non c’è dubbio infatti che il sostegno strumentale della destra berlusconiana è più un abbraccio quasi mortale, al quale sottrarsi, che una spinta verso palazzo Chigi. Al tempo stesso il centro da solo (Casini, Montezemolo, le Acli, la Cisl, all’occorrenza Giannino) non basterebbe nè alla autosufficienza nè a essere in vantaggio nei confronti del candidato del Pd del Psi e di Sel. Insomma, dal momento che Bersani non sembra aver alcuna intenzione a rinunciare alla candidatura guadagnata sul campo delle primarie, appare davvero difficile pronosticare una vittoria del centro alle prossime politiche. Certo, il centro potrebbe avere numeri modesti, ma comunque decisivi, visto il tipo di legge elettorale con la quale si vota. Ma se è vero che il bipolarismo da noi è ancora molto lontano, non è neanche decente tornare ai tempi di Ghino di Tacco o dei due forni di andreottiana memoria.

Per questi motivi il ragionamento svolto da D’Alema in un’intervista al “Corriere della sera”, può o meno piacere, ma è un preciso avvertimento politico ai sostenitori di Monti: se l’attuale presidente del Consiglio dovesse decidere di candidarsi in alternativa a Bersani, si metterebbe in contrasto con la forza politica che ha maggiormente garantito la tenuta del suo governo. Ora non è detto che questo, come lascia intendere D’Alema, sia un comportamento non eticamente corretto, ma è certo che comporterebbe conseguenze politiche nell’atteggiamento del centro-sinistra, rendendo più difficile, dopo le elezioni, la formazione del governo e prima ancora l’elezione del capo dello Stato.

Naturalmente ora tutto dipende da quello che deciderà Monti, nella sua assoluta autonomia. C’ è da augurarsi che il presidente del Consiglio decida e presto e faccia altrettanto presto le sue decisioni. Le quali saranno certamente nell’interesse del Paese. Per servire il quale talvolta serve più capire le esigenze della politica, che le propensioni personali.

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