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Mar Rosso, rafforzare le scorte per evitare gli shock: i porti si stanno attrezzando e le aziende? Parla D’Agostino, capo dei porti europei

Intervista a Zeno D’Agostino, Presidente dei porti europei (Espo) e dell’Autorità portuale dell’Adriatico Orientale – Le aziende devono essere in grado di sopportare periodi senza rifornimenti, ma occorre anche che trovino siti di produzione più vicini. Il presidente di Espo ha qualche timore che il blocco di Suez possa spostare i traffici che ora gravitano sui porti italiani, verso quelli del nord. Ma vede buone opportunità di sviluppo, anche oltre il semplice cargo.

Mar Rosso, rafforzare le scorte per evitare gli shock: i porti si stanno attrezzando e le aziende? Parla D’Agostino, capo dei porti europei

Tra qualche giorno arriverà al porto di Trieste la prima nave transoceanica che ha compiuto il periplo dell’Africa. Mettendoci due settimane anziché una. Pochi giorni fa una portacontainer è riuscita a fatica a sfuggire dagli attacchi degli Houthi nel Mar Rosso. Il modo di trasportare è cambiato. Di nuovo. Dopo l’esperienza già vissuta nel periodo del Covid. E l’Italia che era riuscita a costruirsi un ottimo ruolo nel traffico di merci tra il Mediterraneo e il nord dell’Europa ora è particolarmente coinvolta negli eventi nel Mar Rosso. Zeno D’Agostino, presidente dell’European Ports Organisation oltre che Presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Orientale e già Presidente di Assoporti, ha qualche timore al riguardo, ma vede anche alternative interessanti e innovative per il futuro

Ancora una crisi nei trasporti. E’ ancora vivo il ricordo dei colli di bottiglia e delle grosse difficoltà che si erano viste al tempo della pandemia. Ora le navi nel mar rosso non riescono a passare a causa degli attacchi degli Houthi. Come affrontano questa nuova situazione i porti?

Dobbiamo abituarci che gli shock, soprattutto negativi, saranno sempre più frequenti: la guerra nel Mar Rosso non ce l’aspettavamo. Ma nemmeno il Covid oppure la guerra in Ucraina. La parola chiave è saper diversificare: solo se un porto investe su più alternative riesce a uscirne meglio degli altri. L’esempio di questa crisi nel Mar Rosso è esemplare, è indicativo.

Come vede la situazione dei trasporti nel Mar Rosso in questo momento?
La buona notizia è che gli armatori stanno reagendo alle nuove difficoltà e si adeguano in modo da mantenere la frequenza degli approdi: spostano più navi sulla nuova rotta in modo da ripristinare le toccate settimanali a Trieste.

Con relativo rialzo dei costi…

Certo, questo significa un aumento dei costi. Oggi i noli si aggirano tra i 6 e gli 8 mila dollari, relativamente alla rotta tra Europa ed Asia, vale a dire tra tre e quattro volte di più rispetto ai costi di prima della crisi. Anche le assicurazioni, per le navi che transitano in quest’area, sono aumentate parecchio.

Oltre all’aumento dei costi, vede altri rischi legati a questa situazione del Mar Rosso per il commercio e trasporto italiano?

Il mio vero timore riguarda la conservazione del cliente e la competitività del porto di Trieste, ma anche degli altri porti italiani: con un tempo di attesa raddoppiato, i clienti del porto di Trieste (imprese tedesche, austriache, ungheresi, ceche e slovacche) potrebbero tornare a favorire i porti del Nord Europa. Sarebbe un tornare indietro: quelli erano mercati che anni fa facevano passare le merci praticamente solo da nord. Invece ultimamente, dopo decenni di tentativi, siamo riusciti, l’Italia e Trieste, a organizzare quei traffici passando da sud. Il mio timore vero è che se dall’Asia le navi non passano da Suez, mi riferisco al porto di Trieste, salta la nostra competitività. I servizi ‘pendulum’ partono dall’Asia e arrivano in Europa e di solito passano da Suez, poi escono da Gibilterra e vanno nel nord Europa. Se il pendulum circumnaviga l’Africa, il Mediterraneo occidentale rischia meno, mentre il Mediterraneo centro-orientale ovviamente soffre di più.

Si sta investendo molto sulle economie dei porti e tutte le infrastruttuire ad essi legati. Grazie anche ai fondi del Pnrr. Che cosa accadrebbe se il traffico si spostasse verso i porti del nord?

Se il traffico si spostasse di nuovo verso i porti del nord, tutti quegli investimenti in infrastrutture a servizio dei porti che si stanno facendo con i finanziamenti del Pnrr perderebbero di significato. Così come perderebbero di valore tutte quelle aspettative di crescita di tanti altri porti italiani, legata al fatto che l’Italia sta dove sta e che ha Suez di fronte. Che cosa ne sarebbe di tutti quegli investimenti che si stanno facendo per esempio alle spalle del porto di genova in termini di infrastrutture (completamento del Terzo Valico dei Giovi, l’alta velocità, aumento della capacità ferroviaria per collegare Genova a Milano e poi all’Europa)? Perderebbero di significato.

Diceva prima che un porto deve saper investire su più alternative, per riuscire ad avere la meglio. Per esempio notiamo che molte aziende stanno pensando di utilizzare siti di produzione più vicini, visto che il minor costo di manodopera spesso viene annullato dalle spese di spedizione. Come questo reshoring impatta sulla logistica? Quali alternative ci sono?

Stiamo effettivamente vedendo che le filiere si stanno accorciando e le aziende ora puntano al reshoring o anche al dual shoring, scegliendo di lasciare la produzione nei paesi dove già c’era ma creando anche altre fonti di approvvigionamento in luoghi più vicini. Nel bacino del Mediterraneo si affacciano paesi molto importanti dal punto di vista produttivo. Lo scorso autunno è stato stretto un accordo con Egitto e Marocco per favorire le aziende che vogliono accorciare le filiere di approvvigionamento riportando nel mediterraneo i centri produttivi. Già da qualche tempo ci stiamo attrezzando per creare una forte connettività del Porto di Trieste con gli scali del Mediterraneo per allentare la dipendenza dalla Cina e dall’Asia. Alla luce degli ultimi eventi, queste dinamiche stanno già vedendo una forte accelerazione.

Il modo di gestire la logistica è molto cambiato. Un tempo era quasi un’onta tenere delle scorte in magazzino. Oggi la situazione è rovesciata. Che cosa ne pensa della decisione di Tesla e Volvo di chiudere la produzione perché rimaste senza componenti a causa delle tensioni nel Mar Rosso?

Sono rimasto un po’ deluso che grandi aziende come Tesla e Volvo non avessero delle scorte per stare 2 settimane senza componentistica. Vuol dire che non si è imparato niente dal Covid. La situazione è del tutto cambiata. Prima si puntava alla riduzione al minimo delle scorte, il che può funzionare solo se non ci sono problemi. Ma abbiamo visto che gli choc nei traffici marittimi sono sempre più frequenti, ravvicinati e potenti: occorre cambiare registro.

Quindi chi tiene efficienti le scorte ha la meglio?

Ora le scorte abbondanti costituiscono buona parte dell’efficienza delle catene logistiche globali del futuro e i porti si devono preparare. Non solo. I luoghi che avranno un futuro saranno i porti franchi e le zone franche. Noi ci stiamo attrezzando

Il porto di Trieste è anche porto franco…

Per la precisione Trieste è un porto franco internazionale, il che significa che le merci qui possono sostare a tempo illimitato, a differenza di altri porti in cui c’è uno spazio temporale delimitato e a volte molto breve. E bisogna dire che a fronte di quelle aziende che hanno fermato la produzione in attesa delle componenti, noi invece abbiamo registrato un aumento significativo dello stoccaggio in porto franco.

Le scorte si riferiscono anche agli alimenti? Come si stanno attrezzando i porti?

Proprio anche in relazione agli accordi con i paesi del nord Africa e delle linee intra Mediterraneo, ci stiamo attrezzando pianificando investimenti in magazzini frigoriferi nell’area portuale o retro portuale e
stiamo sviluppano la filiera della temperatura controllata

A proposito di attività retroportuali, lei è un innovatore da questo punto di vista, sostenendo l’importanza e il ruolo di ciò che avviene dietro le quinte di un porto. Ci sono nuovi sviluppi?

Assolutamente sì. Partiamo dal paradigma di riferimento che vige dai tempi delle flotte fenice: la simbiosi tra porto e l’attività di una nave, che carica e scarica persone e merci. Come ho sempre detto il futuro del porto non è solo il porto, ma anche tutto ciò che si riesce a costruire e a organizzare nel retroporto: più investo fuori più accresco la competitività. Ma la vera rivoluzione è un’altra: uscire dal paradigma porto-nave, e pensare invece al porto come un luogo sul mare. A prescindere che ci sia una nave. A prescindere dal cargo. Faccio un esempio: se si guarda la geografia dei cavi sottomarini che trasportano dati, si nota che i cavi che escono da Suez vanno tutti a Marsiglia (tranne una piccolissima parte in Sicila). Marsiglia è il terzo nodo globale di gestione dati. E’ chiaro che qui non si parla di navi. Ma di mare. E’ un altro tipo di logistica: i cavi sottomarini devono in ogni caso “atterrare” in un porto e si tratta di creare valore a prescindere dalla nave. Si dice che il 90% di traffico marittimo europeo passi dal Mediterraneo. Bene, ma aggiungo che il 95% del traffico dati europeo passa nel Mediterraneo. In Adriatico non entra neanche un cavo e Trieste si sta attrezzando.

Da più parti si sottolinea che la Cina è presente in molti porti e infrastrutture. Come vede questa situazione? lo ritiene pericoloso?

Quando vedo qualcosa che non funziona mi guardo allo specchio: non si può criticare la Cina perché si fa gli affari suoi. Dobbiamo imparare a fare anche noi gli affari nostri uscendo dal nostro territorio. Se vuoi essere competitivo a casa tua, devi investire fuori da casa tua. Cosa che non abbiamo fatto. E’ tabù andare a investire in altri porti del mediterraneo (c’è anche una norma). Vediamo i cinesi che investono in Africa, mentre noi che l’Africa l’abbiamo di fronte non lo facciamo. Quindi prima di criticare gli altri, bisognerebbe vedere che cosa dovremmo fare noi: andare in giro per il mondo, creare delle catene logistiche, corridoi logistici protetti, per esempio.

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