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Manovra, il fallimento di una classe dirigente

L’Italia è diventata il bersaglio principale di chi ha interesse a dimostrare il fallimento dell’euro – E’ il pericolo che incombe sul nostro Paese – Ed è la conseguenza del fallimento della seconda repubblica – Partecipare all’Unione europea era necessario ma la partecipazione ci è servita a poco per colpa della nostra classe dirigente

L’economia italiana non cresce dall’inizio del terzo millennio. Dieci anni di profilo stagnante sono la costante sulla quale si inseriscono gli effetti della prima crisi finanziaria globale: una recessione, sotto il profilo reale, ma anche lo squilibrio negli assetti della finanza pubblica.
Uno squilibrio che presenta tre caratteristiche: dagli anni ottanta ereditiamo una dimensione eccessiva del debito rispetto al pil; la durata media residua dei titoli che lo rappresentano è di circa sette anni, il debito è troppo “corto”; l’incombenza delle scadenze prevede che tra oggi e la fine del 2012 bisogna rifinanziare quasi 380 miliardi di euro: una cifra, da trovare sui mercati finanziari, che si cumula con il deficit tra entrate ed uscite che la manovra cerca di riportare in pareggio. Mentre gli interessi sul debito neutralizzano gli sforzi per creare un avanzo primario che possa ridurre lo stock del debito.
Senza crescita, del pil, e senza dismissioni patrimoniali non esiste alcuna possibilità di ridimensionare il rapporto tra debito pubblico e pil.
I dieci anni di profilo stagnante sono anche i dieci anni nei quali si avvia e si consolida la partecipazione italiana all’esperimento della moneta unica in Europa. Coloro che erano pessimisti sull’esito dell’esperimento, anche in ragione delle modalità con cui esso veniva realizzato, avanzavano tre ordini di difficoltà: economie reali troppo diverse tra loro, per tecnologia, produttività del lavoro, capitale di conoscenze a supporto della crescita, qualità ed efficienza delle strutture istituzionali; frammentazione delle lingue e degli ordinamenti giuridici che regolano l’economia europea come un tutto; eterogenea qualità del sistema politico, delle modalità con cui il sistema politico governa gli apparati amministrativi di cui si serve, alla scala del governo nazionale e dei governi locali, più o meno frammentati, essi stessi, secondo i vari ordinamenti nazionali.
Il primo decennio dell’euro ha dovuto fronteggiare anche tre clamorosi e pericolosi imprevisti: september eleven e le sue conseguenze; l’implosione dell’Unione Sovietica e la migrazione delle nazioni, da essa controllate, verso l’Unione Europea, accompagnata dall’irrobustimento della Russia come nazione; la prima crisi finanziaria globale. Non deve sorprendere che l’euro sia considerato oggi una moneta fragile da una parte significativa degli operatori finanziari internazionali. Non deve sorprendere che l’Italia, appartenente dal primo momento al core group che avviava l’euro e che rappresenta la terza economia reale dell’Unione, rappresenti anche un bersaglio interessante per la speculazione internazionale. L’Italia è una preda troppo grande per essere salvata solo da Francia e Germania ma è anche uno dei paesi che presentava, allora, tutte le contraddizioni che avrebbero scoraggiato la sua partecipazione all’euro e che, nell’ultimo decennio del secondo millennio come nel primo decennio del terzo, ha dimostrato una crescente incapacità, del proprio ceto politico e della sua classe dirigente, di trovare un ragionevole equilibrio di governo ed imprimere una trasformazione profonda, risanando le proprie contraddizioni, nell’economia reale, nei comportamenti sociali e nelle modalità di amministrazione della cosa pubblica.
La seconda repubblica, insomma, si è risolta in un fallimento. L’Italia, di conseguenza, è diventata il bersaglio principale di chi ha interesse a dimostrare il fallimento dell’euro. Questo è il pericolo che incombe sul nostro paese. Questo pericolo è la conseguenza del fallimento della seconda repubblica ma anche della nostra inconsistente capacità, di servirsi della partecipazione all’Unione Europea, per migliorare e riqualificare la morfologia economica e la organizzazione dell’amministrazione pubblica nel nostro paese. Partecipare era necessario ma la nostra partecipazione ci è servita poco, per colpa della nostra classe dirigente. E’ evidente che l’equilibrio e la stabilità della crescita, dopo la grave crisi finanziaria, dipendono dalla combinazione intelligente degli sforzi delle banche centrali e dei governi che devono orientare alla crescita le economie loro affidate. Ma questa sintonia tra ceto politico ed autorità monetarie è più forte negli Stati Uniti che nell’Unione Europea. Troppo debole in Italia. Il Fondo Monetario ripete con continuità, da Strauss khan a Lagarde, che il problema è crescere nella stabilità finanziaria e non deprimere la crescita per inseguire una austerità dei bilanci pubblici che si trasformi in recessione. Si tratta di una equazione difficile da risolvere ma la risposta del Governo italiano a questa domanda è stata, fino ad ora, e purtroppo verrà ormai giudicata anche in futuro, per come è stata percepita, assolutamente patetica.
Il paese più fragile e meno capace di crescere avrebbe dovuto fare tre cose: non puntare solo ad una aumento dell’avanzo primario nei conti pubblici; cedere patrimonio, immobiliare e mobiliare per ridurre lo stock di debito pubblico; organizzare meglio la produzione di beni pubblici, far lavorare di più e più efficientemente il settore pubblico invece di deprimere la psicologia delle persone. Rompere incrostazioni di potere e di categoria, colpire corporazioni di truffatori inseriti nelle pieghe del sistema. Tesoro, bilancio e finanze furono cumulati da Ciampi in un unico ministero. Ma Tremonti, come i ministri delle coalizioni di centrosinistra, hanno usato solo uno dei tre strumenti: la fiscalità, i tributi da aumentare e la riduzione della spesa. La centralità dei saldi contabili di bilancio è priva di senso sul terreno economico reale: un bilancio, con il quale si riqualifica la spesa e si riordina la macchina amministrativa, potrebbe orientare la crescita anche se chiudesse con un largo avanzo. Un bilancio in pareggio, dove resta bassa la produttività delle risorse umane della macchina pubblica e si tagliano pensioni, salari e spese di investimento mentre si aumentano tasse sui redditi, finisce per essere più deflattivo del bilancio in avanzo che ha trasformato i processi lavorativi e le spese.
Colpire l’evasione fiscale, colpire la criminalità e le truffe è evidentemente una buona cosa ma quei fondi andrebbero reimpiegati per alimentare la crescita, altrimenti sono solo nuova pressione fiscale e deflazione assicurata. Aumentare le imposte indirette e ridurre il cuneo fiscale tra salario percepito dai lavoratori e salario pagato dalle imprese aumenta la produttività e riduce una parte dell’evasione. Non regge il mito egualitario delle imposte dirette progressive nella società post moderna: meglio tassare le spese che i redditi. Conta il risultato economico e non l’aritmetica della contabilità tributaria. Che cosa rimane di questa girandola di opzioni e contro opzioni che si palleggiano tra loro governo e parlamento? Solo il discredito della capacità di governare, da parte della maggioranza, e la nascita di una miriade di corporazioni che si aggregano per motivi di opportunismo fiscale e pressioni indirette sul Parlamento, disgregando ogni ipotesi di coesione sociale, della quale il paese, se volesse avere uno scatto di reni per cambiare, avrebbe davvero bisogno. Viene meno la coesione, che sarebbe il cemento delle scelte di cambiamento, e viene in primo piano l’inadeguatezza di chi dovrebbe governare quelle scelte.
Una bella conferma che attaccare l’Italia per indebolire l’esperimento europeo è davvero un risultato praticabile. Qualcuno lo potrebbe praticare, di conseguenza e con successo, nei prossimi mesi. E, travolti da una bufera finanziaria d’autunno, saremo costretti, ad un prezzo ancora più salato, a cedere patrimoni pubblici, far versare lacrime e sangue ai contribuenti onesti, subire un aumento dei tassi di interesse sul debito che ridurranno i margini di riorganizzazione dei bilanci pubblici. Potevamo utilizzare questi strumenti – le cessioni di patrimonio; la cooperazione internazionale, per allungare e diluire nel tempo gli oneri del debito pubblico; il riordino della pubblica amministrazione – per chiudere i divari tra le due Italie nei venti anni che abbiamo alle spalle. Lo faremo, purtroppo, troppo tardi e troppo male comunque. Questo default non sarà solo il fallimento della maggioranza oggi al governo ma anche il fallimento del sistema politico degli ultimi veni anni: la seconda repubblica. Il bipolarismo inutile ed inconcludente che ha trasformato il parlamento nel club dei dipendenti al servizio dei “signori” della politica. Un “feudalesimo miserabile” per un paese nel quale, nonostante tutto, gli italiani, almeno una larga parte della popolazione italiana, è ancora, e per fortuna, certamente migliore dello Stato che la governa.

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