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Leonardo da Vinci era davvero lo Steve Jobs del Rinascimento?

Stabilire un filo rosso tra i due geni delle loro rispettive epoche non è solo una fantasiosa teoria: il legame potrebbe essere Robert Palladino, frate trappista di origini italiane e docente di calligrafia al Reed College di Portland.

Leonardo da Vinci era davvero lo Steve Jobs del Rinascimento?

Un filo rosso

Stabilire un filo rosso tra Leonardo da Vinci e Steve Jobs non è solo una fantasiosa teoria basata su ragionamenti indiziari. A farlo, come vedremo, non sono solo dilettanti o fan del co-fondatore della Apple. A stabilire questo filo rosso è proprio uno studioso accreditato come Walter Isaacson che ha scritto le corpose biografie dei due uomini, quella di Jobs nel 2011 e quella di Leonardo nel 2017, probabilmente la seconda ispirata dalla prima. Dire che è la genialità ad accomunarli è un non senso. Quella del genio è una categoria troppo vasta per spiegare qualcosa.

Ci sono sicuramente dei punti di contatto nella vita e nelle opere di Leonardo e Jobs. Potrebbero essere casuali, ma potrebbero anche esserci dei leganti. Sicuramente c’è mezzo secolo tra i due, il che non è facile da scoprire. Entrambi sono cresciuti in un milieu familiare problematico: Leonardo era illegittimo, Jobs fu abbandonato dai genitori. Entrambi crebbero nell’ambiente più stimolante della loro epoca, Leonardo nella Firenze rinascimentale, Jobs nell’immenso laboratorio del futuro della Silicon Valley e nella controcultura di San Francisco.

Entrambi erano dropout. Leonardo si definiva “omo sanza lettere” per via del latino che non conosceva. Jobs lasciò subito gli studi al Reed College sicuro che gli studi universitari “non l’avrebbero aiutato nella vita”. Entrambi si sono formati negli ambienti dove l’innovazione furoreggiava: Leonardo nella bottega del Verrocchio e Jobs all’Atari di Nolan Bushnell.

Entrambi conobbero l’amarezza del rifiuto delle loro comunità: Leonardo di Firenze e Jobs della Apple. Sia Leonardo che Jobs erano ossessionati dal cibo con motivazioni sorprendentemente analoghe. Proprio il rapporto con il cibo introduce il punto di contatto maggiormente indiziario tra Leonardo e Jobs.

La purezza

Forse, per restare sull’indiziario, è il concetto di purezza quello che più avvicina Jobs a Leonardo. Il primo lo aveva derivato dal buddismo, il secondo dal milieu culturale dei neoplatonici che si raccoglievano intorno alla corte di Lorenzo il Magnifico.

Evgeny Morozov ha dedicato, nel suo Contro Steve Jobs, delle pagine molto sottili al ruolo della purezza nella concezione dei prodotti da parte di Steve Jobs e dello stesso Jonathan Ive, il chief design della Apple dal 1997 al 2019.

Anche Leonardo ricercava la purezza nella vita e nell’opera. Per esempio rifiutava la carne, inoltre i rapporti carnali non lo interessavano perché impuri, anche se, nei suoi studi anatomici, li raffigurava. Ammirava la purezza dell’ermellino che ritraeva come una deità in un famoso dipinto conservato a Cracovia, La Dama con l’ermellino. Annotava nel Codice Atlantico: «Prima vol morire che ’mbrattarsi… [l’ermellino] per la sua moderanzia, non mangia se non una sola volta al dì, e prima si lascia pigliare a’ cacciatori che voler fuggire nella infangata tana. Per non maculare la sua gentilezza».

La ricerca della purezza spingeva entrambi verso la perfezione formale ed estetica. Le opere di Leonardo e i prodotti di Jobs erano un interminabile estenuante processo di raffinamento di semplificazione e di essenzializzazione quasi metafisica. Era un lavorio estenuante e anche dispendioso in termini di tempo e di energie. Costituiva anche uno sfinimento per i committenti nel caso di Leonardo e per i sodali Jobs. Quando andavano a dirgli che era impossibile o pazzesco, lui rispondeva: “Si può fare e adesso mettiamoci al lavoro”. E loro si mettevano al lavoro.

La ricerca di nuovi materiali, l’anelito ad andare oltre il conosciuto e il condiviso e a sperimentare erano tratti ossessivi di entrambe le personalità. A causa di questa ossessione alcuni lavori di Leonardo decaddero presto. Jobs andò incontro a fallimenti tali che avrebbero messo fine alla carriera di chiunque non fosse stato Steve Jobs.

La perfetta ossessione

Un esempio ce lo fornisce Isaacson nella biografia di quest’ultimo. Racconta della messa in opera del NeXTCube nel 1986:

Non ci dovevano essere angoli ottusi a rovinare la purezza e la perfezione del cubo (il NeXTCube). Così, le fiancate dovettero essere prodotte separatamente, con stampi del costo di 650.000 dollari, da un’officina specializzata di Chicago. La passione di Jobs per la perfezione era completamente fuori controllo. Quando notò una minuscola riga nella scocca causata dagli stampi, una cosa che qualsiasi altro produttore di computer avrebbe considerato inevitabile, Jobs volò a Chicago e convinse lo stampatore a ricominciare da capo per eseguire il lavoro a regola d’arte.

A regola d’arte appunto. Di storie come queste ce ne sarebbero tante da raccontare. Lo stesso Isaacson scrive a proposito del metodo di Leonardo nella pittura:

Era un perfezionista alle prese con sfide che altri artisti avrebbero ignorato, cosa che lui non poteva fare, e per questo depose i pennelli. Tale comportamento ebbe come conseguenza il fatto che non gli furono più assegnati incarichi per commesse pubbliche, ma è anche ciò che lo fece entrare nella storia come un ossessionato genio anziché semplicemente come un affidabile maestro della pittura… La Gioconda è il momento culminante di una vita spesa a perfezionare la capacità di operare nel punto in cui l’arte incontra la natura.

Isaacson ha raccolto, durante le sue lunghe sessioni con Jobs per la biografia ufficiale, una confessione importante da parte di Jobs che non dubitiamo essere vera. Scrive, nell’altra biografia, quella su Leonardo:

«Leonardo era l’eroe di Jobs. «Scorgeva la bellezza nell’arte come nell’ingegneria — disse Jobs — e la sua abilità nel combinarle era ciò che ne fece un genio». La frase ci può senz’altro stare.

Jobs lasciò che Regis McKenna, il pubblicitario della Apple, collocasse nella brochure dell’Apple II un aforisma attribuito a Leonardo: «La semplicità è la massima raffinatezza». La pubblicità prodotta dai concorrenti non aveva mai avuto niente di simile nel suo arido tecnicismo. Forse ispirò i pubblicitari IBM a individuare Charlot come figura chiave di tutta la loro campagna per il PC-IBM. L’arte iniziava a nutrire il concetto di tecnologia. Questo approccio raggiunge lo zen nella campagna della Apple “Think different”. Tra i geni scelti per la campagna, mancava però Leonardo (forse troppo lontano nel tempo).

Oltre l’indiziario

Ma tutti questi sono discorsi indiziari che valgono quello che valgono per una disciplina rigorosa come la storia.

In realtà non si sa come e quando Steve Jobs sia entrato in contatto con l’opera e gli scritti di Leonardo. Alla National Gallery di Washington è conservata l’unica opera di Leonardo sul suolo americano, il Ritratto di Ginevra de’ Benci. Una piccola tavola quadrotta (38×36 cm), dipinta nel 1474 da Leonardo a 22 anni. Il dipinto ha già tutto lo stile del maestro di Vinci.

Nella collezione privata di Bill Gates, a Seattle, c’è anche il Codice Hammer, acquistato da Gates nel 1994 per 30 milioni di dollari (52 milioni attuali). Un affarone pari alla fama del fondatore di Microsoft. Ma data la rivalità che separava Jobs da Gates, per la proprietà transitiva che agiva potentemente nella personalità del co-fondatore di Apple, è difficile che egli abbia mai visto i fogli i 36 fogli del famoso manoscritto.

Jobs aveva visitato Firenze e vi aveva soggiornato per qualche settimana. La moglie, Laurene Powell, aveva studiato italiano a Firenze e risieduto per vari mesi intorno a via Ghibellina. Ma di Leonardo a Firenze è rimasto poco. Jobs ha visitato saltuariamente anche Milano e più continuativamente Londra e Parigi. Probabilmente sarà andato al Louvre o alla National Gallery, più difficilmente a Windsor.

Il legame che potrebbe legare Jobs a Leonardo ha però una fonte meno indiziaria. E verificabile.

Robert Palladino

Il legame potrebbe essere Robert Palladino, frate trappista di origini italiane e docente di calligrafia al Reed College di Portland. Per un anno Steve Jobs, che aveva lasciato i corsi curricolari del Reed, si era “imbucato” alle lezioni del professor Palladino. Quell’esperienza è stata una pietra miliare nella formazione di Jobs. Più volte lo stesso Jobs ha parlato della sua importanza non solo per la sua storia, ma per quella dell’intero personal computing.

Bene, Uno dei libri di riferimento di quel corso era il De Divina proportione del frate e matematico toscano Luca Pacioli che lavorò a Milano alla corte di Ludovico il Moro. Il manoscritto è ora conservato nella Biblioteca di Ginevra. Una copia a stampa in ottimo stato è alla Biblioteca Ambrosiana di Milano.

Che Palladino conoscesse a fondo il lavoro di Pacioli è fuori discussione; l’arte della calligrafia moderna (cioè quella basata sui vettori matematici, che sono alla base dello stesso linguaggio Postscript e dei suoi surrogati) non può prescindere dall’opera di Pacioli.

Il frate di Sansepolcro, proprio nel capitolo XI del De Divina proportione, dal titolo De lorigine dele lettere deogninatione, scrive un capitolo decisivo sulla calligrafia e sulla tipografia. In questo capitolo costruisce geometricamente le lettere dell’alfabeto elaborando il giusto equilibrio delle proporzioni nella costruzione delle lettere capitali. A ogni lettera appone una didascalia che ne descrive le caratteristiche geometriche.

Uno studio importantissimo anche per la futura arte della stampa che nasceva in contemporanea nella città di Magonza, per incentrarsi a Venezia. Qui nel 1509 il Pacioli pubblicò il De Divina proportione per i tipi di Paganino Paganini. Il Paganini aveva già pubblicato nel 1494 l’altra opera del Pacioli, il Summa de arithmetica.

L’alfabeto di Pacioli

Due studiose del Laboratorio FDS del Dipartimento di Matematica del Politecnico di Milano, Paola Magnaghi-Delfino e Tullia Norando hanno pubblicato un paper sullo studio delle lettere capitali del Pacioli. Riportiamo volentieri questo passo del loro lavoro che spiega bene il metodo del matematico toscano, trasferitosi alla corte di Ludovico il Moro nel 1496 per restarvi fino al 1499:

Pacioli inserisce nell’opera 24 tavole, di cui la prima rappresenta il profilo laterale della testa dell’uomo, mentre le altre 23 comprendono le lettere dalla A alla Y, comprese la K, la X e due diversi disegni per la O; non compare la U, sostituita dalla V, ed è assente la Z in quanto l’autore probabilmente considerava tale lettera un carattere greco. Le lettere sono intagliate in legno e misurano 9,5 cm, tutte in neretto pieno. A differenza dei trattati precedenti, ogni lettera è accompagnata da una breve didascalia, che funge da commento.

Le lettere di Pacioli segnano uno stacco decisivo rispetto ai caratteri che derivano dalle scritture manuali, infatti dal quadrato di base fuoriescono l’apice e i tratti terminali della O, le curve esterne del primo disegno della O, quelle della Q, i tratti terminali della V e della X (pag. 5 del paper). Nello stesso documento si possono visionare alcune lettere progettate da Pacioli. Qui si può vedere l’intero alfabeto con le relative didascalie di pugno dello stesso autore. Nell’edizione a stampa del 1509 sono alle pagine 137-184.

Pacioli e Leonardo

Luca Pacioli era amico di Leonardo e ne ammirava e anche ispirava la visione. Lo stesso Leonardo realizzò 60 illustrazioni di solidi geometrici per il De Divina proportione (lo dichiara lo stesso Pacioli, nell’edizione a stampa alla pag. 29). Pacioli e Leonardo erano quasi coetanei (il primo nacque nel 1445 e il secondo nel 1452) e si incrociarono per tre anni, dal 1496 al 1499, alla corte d Ludovico il Moro a Milano. La loro frequentazione fu assidua, preceduta dalla fama di entrambi e dalla reciproca stima.

Argante Ciocci, uno studioso di storia della scienza e un cultore dell’opera di Pacioli a cui ha dedicato vari libri, in Ritratto di Luca Pacioli (pubblicazione edita dal Consiglio regionale della Toscana) ha spiegato molto bene il rapporto tra Leonardo e Pacioli che va al di là dell’amicizia. Scrive Ciocci:

Il rapporto che lega il matematico di Sansepolcro e l’artista vinciano costituisce senza dubbio uno dei casi di studio più illuminanti per la comprensione del nesso fra dotti e tecnici che si venne a instaurare durante il Rinascimento. Il frate matematico, autore della Summa, e l’artista universale simbolo del Rinascimento costituiscono del resto una coppia culturalmente complementare. Leonardo cerca nel matematico i fondamenti della geometria euclidea e un necessario ausilio didattico per l’accesso linguistico alla matematica classica, visto che per l’“omo sanza lettere” l’ostacolo del latino era pressoché insormontabile.

Luca Pacioli, da parte sua, vede nella “ineffabile sinistra mano” di Leonardo la migliore soluzione al problema di rappresentare i poliedri regolari e “dipendenti” nelle 60 tavole che costituiscono il necessario corredo visuale alla sua Divina proportione. La mutua attrazione fra questi due grandi personaggi del Rinascimento comincia ancora prima della loro relazione di amicizia. Leonardo, infatti, prima di incontrare il frate ha già acquistato la Summa de arithmetica geometria, proportioni et proportionalita, per 119 soldi, visto che quel testo, scritto in volgare, compendiava tutto lo scibile matematico da Leonardo Fibonacci in poi e costituiva la porta di accesso alla matematica degli antichi”.

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