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Lavoro e formazione cambiano: il “Lessico del nuovo mondo” di Marini

“Lessico del nuovo mondo. Una lettura dei mutamenti sociali ed economici” è il nuovo libro, edito da Marsilio, di Daniele Marini, brillante sociologo veneto che ci racconta come stanno cambiando, e non solo nel Nordest, lavoro e formazione nella società dell’incertezza e perchè, alla fine, le competenze tornano ad affermarsi come la stessa premiership di Mario Draghi testimonia

Lavoro e formazione cambiano: il “Lessico del nuovo mondo” di Marini

Daniele Marini, sociologo dell’Università di Padova, è uno dei conoscitori più profondi delle trasformazioni della società e dell’economia nordestina. Dai tanti suoi osservatori privilegiati, dalle ricerche accademiche passando per la Fondazione Nordest fino alla divisione ricerche di Community Group, analizza da anni i cambiamenti che sottotraccia si muovono nella pancia dei distretti industriali ed economici del Nordest. Nel suo ultimo libro, “Lessico del nuovo mondo. Una lettura dei mutamenti sociali ed economici” (Marsilio), mette in ordine una serie riflessioni per orientarsi in questa fase storica di straordinari cambiamenti. Con una particolare attenzione alle evoluzioni che stanno stravolgendo la fisionomia del mondo del lavoro e delle prospettive occupazionali dei più giovani.

Professor Marini, il suo ultimo lavoro inizia con una provocazione che è in grado di far inceppare gli ingranaggi della società occidentale. «L’incertezza è l’unica certezza di cui disponiamo»: noi italiani, noi europei, dove possiamo appigliarci per trovare qualche punto fermo e non farci soverchiare dalla pandemia?

«Erano profetiche le analisi di Ulrich Beck quando teorizzava la nuova società globale del rischio. Rispetto al passato per ogni decisione che viene presa, individuale o collettiva, oggi è sempre più difficile individuarne effetti e conseguenze. Un’ancora di salvezza la possiamo trovare solo nella formazione, ovviamente non solo quella scolastica o universitaria. Se il paesaggio intorno a noi muta continuamente, l’unico modo per avere più chiavi di lettura possibili è aumentare la propria formazione. Ecco che come diceva Hans Jonas, la formazione assume un valore etico, una dimensione determinante per stare nella società».

La formazione, trasversale e continua, diventa anche una sorta di passepartout per stare in linea con un mondo del lavoro sempre più sfuggente.

«Assisteremo a processi radicali di cambiamento del mondo dell’apprendimento, a tutti i livelli. Con l’obiettivo di formare dei profili adatti ad una certa “occupabilità” e non più solo per arrivare ad uno specifico posto di lavoro. Le tecnicalità lavorative, in ogni ambito, diventano obsolete e si aggiornano a ritmi vertiginosi, mentre le cosiddette “soft skills” rimangono nel tempo e nei diversi lavori».

Un capitolo del libro è dedicato alla rivoluzione organizzativa delle nostre nuove vite. Dall’”ora et labora” al timbro novecentesco del cartellino, arrivando al “lavoro liquido” spalmabile in tutta la giornata. Questi cambiamenti sembrano tuttavia adeguarsi meglio alle classi più istruite, forse più benestanti, certamente più inserite nelle opportunità del mondo globalizzato. Il Covid farà da “super polarizzatore” delle condizioni tra le diverse classi sociali?

«Il rischio è molto forte. Tutte le classifiche economiche ci raccontano le storie di chi ce la fa e di chi rimane schiacciato dal cambiamento. Sappiamo che è così ma non è detto comunque che sia un percorso irreversibile. Ecco che il ragionamento si sposta sul piano politico, perché solo le politiche pubbliche possono mitigare questo rischio. Per non lasciare nessuno indietro bisogna cambiare, e lo scrivo nel libro, anche il concetto di solidarietà, ovvero di come redistribuire le risorse e le opportunità in una società dove c’è chi ha moltissimo e chi non ha niente. La moderna solidarietà deve però andare oltre al semplice e vecchio concetto redistributivo».

Ne abbiamo un esempio recente con il reddito di cittadinanza, ma non penso si limiti a questo la sua analisi.

«Con carriere lavorative sempre più lunghe, magari intermittenti, con frequenti interruzioni del lavoro anche in età avanzata, dovremo pensare a qualcosa di più di una semplice misura assistenzialistica. Per esempio, un reddito per riqualificarsi nel lavoro è una politica attiva che non è “solo” solidarietà pubblica ma è un sostegno della collettività per rimettere tutti, o gran parte, nelle condizioni di stare nel mercato del lavoro. La formazione continua, il concetto di “lifelong learning”, ovvero di un sistema scolastico in grado di formare per tutta la vita, è il grimaldello per non far rimanere nessuno indietro nel mondo che cambia».

Siamo già immersi nella società della conoscenza, il sapere è fruibile da tutti e ovunque. Ma nella società italiana gli ascensori sociali sono mal funzionanti: i figli dei notai fanno i notai, quelli dei giornalisti i giornalisti e i rentiers vivono da rentiers. La formazione serve davvero per abbattere i soffitti di cristallo in un Paese in cui, con o senza il titolo di studio, o un curriculum adeguato, si può arrivare a qualsiasi ruolo?

«Alla fine però siamo andati a cercare Mario Draghi, siamo andati a bussare a chi ha le competenze. La stessa pandemia ha rivalutato il ruolo centrale della scienza e della conoscenza. Quindi sì, la conoscenza e la formazione sono ancora l’asso nella manica per migliorare la propria classe sociale di partenza. Tutte le statistiche ci dicono che chi ha la laurea, al netto delle difficoltà iniziali per trovare un posto di lavoro, nel tempo guadagna stipendi più alti dei diplomati».

Un altro filone di analisi del libro riguarda la fragilità di molte filiere produttive. Da quelle più complesse, dove si producono beni ad alto valore aggiunto, a quelle più semplici (all’inizio della pandemia mancavano anche le mascherine di carta). Nel Nordest il tema è davvero sentito: come cambierà la geografia della produzione dopo il Covid?

«La ridislocazione geografica delle filiere è un processo iniziato nel 2008, ora si è aggiunta anche la pandemia. Ma la cornice è ben più ampia: c’è di fatto una guerra commerciale tra Usa e Cina, le due fabbriche del mondo. La sostenibilità ambientale e dei processi produttivi sta diventando un requisito basilare per chi produce beni e servizi. Da ultimo, assistiamo ad un poderoso processo di digitalizzazione che rende vicino e possibile ciò che fino a ieri non lo era. La domanda è semplice: conviene ancora alle imprese strutturarsi attraverso “filiere lunghe”? E’ più vantaggioso produrre in Cina o costa di più controllare e coordinare il lavoro in Cina? Non viene meno la globalizzazione, viene superata la logica della filiera lunga a tutti i costi: si parla infatti di “globalizzazione regionalizzata”. In soldoni: se prima le filiere si costruivano solo sulla logica del costo, ora si valutano sulla “resilienza”, sull’impatto ambientale, sulla sostenibilità dei processi».

Il cosiddetto “reshoring”, il ritorno a casa della produzione, è dettato in alcuni casi da considerazioni politiche e strategiche.

«Certamente, ma per restare sul lato economico, oggi tutte le grandi società di consulenza mondiali nei loro report parlano di necessità di trasparenza, cooperazione e condivisione tra gli attori economici attivi nelle filiere. Una sorta di rivincita della logica cooperativa».

Lei parla di lavori “imprenditivi”, come antidoto al lavoro che manca o mancherà. Ma è pur vero che non possiamo essere tutti startupper californiani.  Nel mercato del lavoro non vengono spazzati via più solo i lavori seriali, ripetitivi, burocratici, ma anche quelli legati ai servizi di medio alto livello. Negli Usa, per fare un esempio, i pareri legali e le arringhe vengono redatte da “macchine” con intelligenza artificiale.

«La dicitura corretta è “lavoratori imprenditivi”, ma non nel senso che tutti diventeremo lavoratori autonomi. Nel lavoro di oggi, le tecnologie e il digitale stanno aumentando l’autonomia organizzativa dei singoli lavoratori. E questo genera aspettative di sempre maggiori gradi di autonomia. Inoltre, nelle fabbriche e negli uffici, si stanno riducendo le professioni generaliste, o comunque schiacciate dalla logica fordista e taylorista. I lavoratori fanno più ruoli in azienda, diventano intercambiabili per esigenze produttive e si attua a catena la cosiddetta “job rotation”. Gli operai partecipano ormai a tutte le fasi del processo produttivo, migliorando anche gli aspetti di “serialità” dei lavori più monotoni».

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