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“La via del Nord – Dal miracolo economico alla stagnazione”, il nuovo libro di Giuseppe Berta

PUBBLICHIAMO LA PREMESSA DI GIUSEPPE BERTA, storico dell’economia, al suo nuovo libro “La via del Nord – Dal miracolo economico alla stagnazione”, edito da “il Mulino” (pagg. 290, 18 euro) che è un’acuta ma amara riflessione sull’abdicazione del Settentrione e delle sue classi dirigenti, economiche e politiche, dal ruolo di locomotiva e bussola del Paese

“La via del Nord – Dal miracolo economico alla stagnazione”, il nuovo libro di Giuseppe Berta

La via del Nord oggi è smarrita, al pari di quella dell’Italia (in un’Europa che forse non ne ha mai trovata una). La società settentrionale ha perso infatti il proprio carattere più esemplare, cioè l’essere il motore dello sviluppo del paese, capace non soltanto di additare un percorso di progresso, ma di convogliare lungo il cammino della crescita parti e componenti del resto d’Italia. Ora il più solido stereotipo del Nord – il pensare se stesso come area forte tra le aree forti d’Europa – semplicemenete non esiste più, dissolto come le virtuose pratiche civili di cui si credeva un tempo depositario. Il Nord appare adesso in larga misura omogeneo al resto di una nazione che, insieme col proprio punto d’equilibrio, stenta a trovare la sua collocazione nel mondo, mentre avverte la minaccia di una caduta irrimediabile.

Nell’autunno del 2014 non ha certo più modelli da proporre un Nord che non sa come reagire ai guasti ambientali generati da ondate di maltempo tutt’altro che eccezionali, che non riesce a sottrarsi alla trappola della corruzione per dare corso alle proprie opere pubbliche, che assiste al logoramento delle risorse con cui ha cercato di arginare una crisi inarrestabile. Che, soprattutto, è desolatamente povero di idee e di progetti tali da permettergli di disegnare un futuro possibile.

Non era questa la natura del territorio nel quale sono cresciuto e mi sono formato all’epoca in cui il suo cuore pulsante era l’imponente concentrazione di lavoratori, capitali e mezzi di produzione detta “triangolo industriale”, l’area strutturata attorno ai poli di Milano, Torino e Genova. Quello era il Nord per coloro che osservavano il movimento dello sviluppo economico fra gli anni Cinquanta e Sessanta, tanto più quando ne erano direttamente toccati o coinvolti. Certo non coincideva con l’intero Nord, ma ne costituiva il nucleo dinamico, che si distingueva grazie ai suoi indici di crescita dal resto dell’Italia e vi imprimeva il proprio stampo, mediante il ritmo di marcia della sua economia. Era un Nord industriale, dove le campagne andavano spopolandosi rapidamente, pur conservando ancora nelle forme del paesaggio e nel timbro dei rapporti sociali, la traccia rurale ereditata da un passato molto prossimo. Incombente era la presenza della grande città, che tuttavia non si era ancora dilatata proiettando la forma urbana sulle province.

La storia successiva non ha affatto rappresentato, come allora molti propendevano a credere, il successo incondizionato di uno schema di organizzazione dell’economia e del territorio che sembrava ineguagliabile per la sua potenza. Al contrario, superata la stagione in cui quel modello dettò il passo dell’espansione italiana, i decenni seguenti hanno visto offuscarsi e decadere la configurazione del Nord fissata dal canone del “triangolo industriale”. La dinamica della trasformazione ha preso una curvatura imprevista rispetto ai lineamenti che si erano imposti in modo così plasti­co quando l’Italia aveva incominciato a bruciare le tappe della crescita. La corsa verso la concentrazione industriale e spaziale della produzione si doveva interrompere, intanto che le grandi città cessavano di attirare i fattori dello sviluppo e questi ultimi prendevano a irradiarsi lungo assi territoriali più lunghi.
 
La campagna si urbanizzò in fretta, mentre la città assunse progressivamente un volto terziario, che finì poi per sostituirsi al precedente aspetto industriale. Diciture come “Nordest” e “Nordovest” si affermarono entro uno scenario che disconosceva gli assetti precedenti. Con gli ultimi due decenni del Novecento, il Nord diviene una realtà che si declina al plurale, mentre si vanno scomponendo anche i grandi aggregati economici e sociali.

Si scoprono e s’inventano radici e appartenenze comunitarie, man mano che ci si distacca dai blocchi sociali di una volta e li si supera. Alla fine, sarà un Nord composito e insieme più integrato a emergere, nuovo per alcuni versi, ma impoverito rispetto alle dotazioni storiche.

Questo libro prova a raccontare il mutamento della società settentrionale nell’arco di oltre sei decenni, secondo una prospettiva che consiste, in un primo tempo, nel consolidamento del triangolo fra Milano, Torino e Genova e, in seguito, nella sua disarticolazione. E’ in questa fase più vicina che il Nord padano assume la forrna di una vastissima plaga urbana, dove i poli delle città maggiori non si pongono più come confini spaziali dislo­candosi invece come nodi organizzativi e centri attivi.

La via del Nord reca nel titolo un’assonanza con un lontano saggio di Riccardo Musatti, La via del Sud (1955), che mi colpì molto da giovane, anche per la densità della scrittura. Musatti era un lucido uomo di cultura della cerchia olivettiana, che per il Movimento Comunità era andato alla ricerca di una via di emancipazione per il Mezzogiorno tale da salvaguardarne alcuni caratteri originari senza pregiudicarne l’accesso alla modernità.

Come il mio precedente Nord (2008), anche questo libro ricapitola la storia della società settentrionale dagli anni Cinquanta a oggi attraverso gli assi dell’impresa, del mondo del lavoro, della città e della politica. Ho ripreso largamente quel testo lasciando campo alle parole dei protagonisti, consegnate ai documenti e agli atti ufficiali oppure evocate dalla memoria, pronunciate in occasioni formali o salvate come testimonianza privata, nella convinzione che il mestiere dello storico sia affidato alla capacità di connettere momenti e situazioni diverse saldando l’agire collettivo all’esperienza personale. In alcuni passaggi importanti, soprattutto del capitolo III, là dove più sfuggente è il tema della forma urbana, non ho esitato a ricorrere a testi letterari, sia per l’efficacia con cui sintetizzano questioni dai risvolti complessi, sia perché rivelano una sorprendente profondità di percezione.
 
Eppure, per molti aspetti, La via del Nord è un libro del tutto nuovo rispetto a quello che l’ha preceduto, non soltanto perché ogni capitolo è stato rivisto e non pochi paragrafi sono stati completamente riscritti o aggiunti. A essere cambiata è la prospettiva entro cui si cala il mio tentativo di ricostruzione storica. Oggi direi che a un periodo di sviluppo bruciante e convulso fa seguito una prolungata stagione in cui il Nord consuma e disperde le sue energie e le sue capacità.

Una fase che non è rettilinea, beninteso, punteggiata com’è di scarti e discontinuità; ma che da un determinato momento in avanti – la svolta degli anni Novanta del secolo scorso – assiste a un deterioramento più netto e progressivo, destinato a culminare con la grande crisi che esplode in Europa e nel mondo nell’autunno del 2008. Già allora il Nord italiano era in stallo, con un’economia orientata a un sostanziale ristagno e una società sempre meno permeata di impulsi vitali al mutamento. Una decina d’anni fa questo percorso non mi era stato così chiaro tanto che il mio giudizio sul declino dell’Italia e del suo Nord era stato cauto. Ritengo che il mio errore di prospettiva non sia dipeso soltanto dalla radicalità della crisi, che ha messo a nudo, spesso in forma perfino brutale, la fragilità della complessione dell’Italia contemporanea.

Gli elementi per cogliere in quale direzione stessero muovendo il paese e il suo Nord erano già visibili e dispiegati prima. Che cosa ha condizionato il mio punto di vista? Influiva probabilmente il fatto che allora fossi più contiguo a qualche spezzone dell’establishment e che io stesso fossi stato tratto nell’orbita amministrativa sul piano locale, sebbene da una posizione estremamente marginale. E’ bastato questo  probabilmente, per farmi abdicare, pur senza  averne la consapevolezza, all’attitudine al distacco critico che uno studioso dovrebbe salvaguardare in ogni circostanza. Se dunque ho appreso una lezione, è che l’indipendenza intellettuale è una condizione difficilissima da preservare, giacché ci vuole davvero poco per comprometterla. Rientrato nello spazio del cittadino comune, privo di rapporti privilegiati coi decisori istituzionali, mi accorgo del vantaggio che ne deriva per lo studioso, libero di impiegare appieno gli strumenti critici del proprio mestiere.

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