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La Silicon Valley riscopre la Scuola economica austriaca

Un’inchiesta condotta dalla Stanford University nella Silicon Valley rivela come l’elite imprenditoriale dell’high tech e delle start up californiane sogna la “Stato minimo” e fa della meritocrazia, dell’individuo e del mercato le sue bussole

La Silicon Valley riscopre la Scuola economica austriaca

Il mood della Valle 

Se la Silicon Valley avesse una sua Costituzione il primo articolo suonerebbe così “La Silicon Valley è una comunità fondata sulla meritocrazia individuale e il mercato”. La meritocrazia, l’individuo e il mercato sono i fondamenti di una scuola di pensiero che sta prendendo sempre più campo con l’autunno del keynesianesimo e l’inverno del socialismo. Questa scuola di pensiero è la Scuola Austriaca di economia, a lungo marginalizzata, ma oggi in piena fioritura. Avviene proprio tra i giovani disrupter che, con la tecnologia e una forte cultura imprenditoriale, stanno mettendo a soqquadro la società contemporanea, spesso, ahime! inconsapevoli o indifferenti alle conseguenze sociali delle loro azioni.

Gli appartenenti alla Scuola Austriaca sono per la maggior parte favorevoli a uno “stato minimo” che deve intervenire solo per garantire le condizioni di un corretto svolgimento dell’economia di mercato e per proteggere i diritti individuali che sono considerati alla stregua di diritti naturali, come aveva postulato di John Locke, il padre nobile del liberalismo.

Ed è proprio questo il mood dei giovani fondatori di imprese tecnologiche negli Stati Uniti. A dircelo, adesso in modo attendibile, è una inchiesta sulle opinioni politiche della élite imprenditoriale dell’hi-tech riportata dal New York Times. Si tratta di un’inchiesta condotta da un gruppo di ricercatori politici della Stanford University che hanno raggiunto un campione di 600 imprenditori inclusi nel database di TechCrunch come fondatori di start-up. Un terzo di questi operano nella Silicon Valley. I risultati dell’indagine sono stati raccolti in un paper di 100 pagine molto interessante, disponibile anche in rete.

Libertari sui generis

Il 24% degli intervistati dai ricercatori di Stanford dichiara di considerarsi d’accordo con la filosofia dei libertari, l’espressione più genuinamente politica della Scuola Austriaca. Un quarto degli intervistati ha infatti risposto affermativamente alla seguente dichiarazione: “Mi piacerebbe vivere in una società in cui lo Stato non fa altro che provvedere alla difesa nazionale e alla protezione degli individui, lasciando le persone libere di arricchirsi come desiderano”. Sembra una sentenza uscita dalla penna di Robert Nozick, uno dei maggiori pensatori dell’ala libertaria di derivazione austriaca. L’aspetto singolare è che il 44% degli imprenditori che dicono di accettare questa dichiarazione è un elettore del Partito democratico (l’82% per cento ha votato per la Clinton) contro il 63% del campo repubblicano. Un dato che mostra della trasversalità delle tesi della Scuola Austriaca, in genere etichettate come patrimonio della destra politica.

Un altro risultato curioso dell’inchiesta è che l’80% degli intervistati si dice sì contrario a ogni forma di regolazione pubblica dell’attività economica, ma il 62% si dice favorevole a tassare i ricchi per ottenere le risorse necessarie per una più equa redistribuzione della ricchezza. Non è un caso che uno dei fondatori di Facebook, Chris Hughes, si dica favorevole al reddito di base e abbia scritto un libro per promuoverlo. Quella di tassare i ricchi (con reddito superiore a 250mila dollari annui) è una posizione da tempo caldeggiata da Warren Buffett e Bill Gates, costantemente sul podio delle persone più ricche del pianeta.

La tassazione e la redistribuzione del reddito, sono però, qualcosa di estraneo al pensiero degli austriaci, anzi sono una sorta di anatema. E mal si conciliano con l’idea originaria di stato minimo. Si tratta di un cocktail oggi piuttosto imbevibile per qualsiasi forza politica. Per questo, nel commentare l’inchiesta, The Economist scrive che i disrupter della Silicon Valley sono più “globalist” che “libertarian” o, almeno, hanno attuato una sintesi inattuale che potremmo definire social-libertaria. Chi sa, però, che non possa essere la formula vincente del rilancio del liberalismo che arretra ovunque nel mondo.

Sui diritti civili, invece gli imprenditori della tecnologia, appaiono incontrovertibilmente liberal: sono favorevoli all’aborto, caldeggiano i diritti dei gay (Bezos e la moglie hanno donato un milione di dollari per sostenere questa causa), sono per il controllo delle armi e si oppongono ferocemente alla pena di morte e a qualsiasi misura che limiti la libertà di scelta e la responsabilità dell’individuo. Non vogliono però i sindacati nelle loro imprese e aborrono qualsiasi forma di regolazione del mercato e delle condizioni di lavoro.

La rimediazione di Ayn Rand e la sua influenza

La visione e le tesi della Scuola Austriaca hanno avuto, nella più grande democrazia del mondo, una sorta di efficacissima rimediazione narrativa da parte Ayn Rand le cui opere e il cui esempio sono confluiti, ingrossandola, nella impetuosa corrente libertaria della società americana che risale fin ai suoi colonizzatori. Se la Rand non ha avuto molto fortuna presso l’intellettualità mainstream di formazione europea dell’east cost, ha penetrato profondamente in alcuni comparti della società americana forgiandone la mentalità e gli atteggiamenti pubblici e privati. Secondo uno studio della Library of Congress, Atlas Shrugged (1957, 1200 pagine), l’opera maggiore della Rand, è il libro più influente in America dopo la  Bibbia.

E uno di questi luoghi è proprio la Silicon Valley dove l’oggettivismo della Rand è andato a fondersi con la controcultura degli hippies, dell’LSD e della renitenza alla leva degli anni sessanta/settanta. Per esempio uno dei figli della controcultura, Steve Wozniak co-fondatore di Apple, considera Atlas Shrugged  “una delle guide della vita”, riferendosi anche all’amico e socio Steve Jobs, che potrebbe essere veramente il protagonista di un romanzo oggettivista della Rand. L’avvento del web ha quindi portato alla fusione tra controcultura e libertarismo come mostra un manifesto che ha avuto una grande fortuna tra i tecnologi e non solo, La dichiarazione d’indipendenza del Ciberspazio di John Perry Barlow.

I libertari della Valle

Nick Bolton, uno degli osservatori più sagaci del ciberspazio, opinionista del New York Times e saggista di levatura, si è preso la briga di andare a scovare i libertari della Silicon Valley e “smascherarli” su “Vanity Fair”. In molti avranno sentito parlare di Peter Thiel, consigliere prediletto di Trump fino al recente raffreddamento nei rapporti con il Presidente, che non ha mai celato le sue inclinazioni libertarie, anche estreme, che lo hanno condotto anche ad azioni eccentriche come quelle di farsi dare la cittadinanza della Nuova Zelanda (uno scandalo che ha quasi travolto il governo di Bill English), il pezzo di terra che richiama maggiormente il suo ideale di isola sovrana galleggiante e artificiale. Thiel, uno dei fondatori di PayPal e tra i primi finanziatori di Facebook nel cui board siede tutt’oggi, è stato forse il maggiore influencer della Valle fino al suo attivo e controverso endorsement a Trump.

Chi sono gli altri “austriaci randiani” della Valle? C’è Kevin Systrom, fondatore di Instagram parte di Facebook; Travis Kalanick, co-fondatore di Uber recentemente estromesso dalla compagnia, Evan Spiegel, co-fondatore di Snapchat, Jack Dorsey, co-fondatore di Twitter e attuale CEO del microblogging nonché fondatore e CEO di Square, una società di pagamenti elettronici. Complessivamente la capitalizzazione di queste società che libertari hanno fondato o controllano ammonta a 250 miliardi di dollari. Una bella cifra!

A questo punto viene la curiosità di saperne di più della Scuola economica Austriaca anche perché in Italia fino ad oggi è stata confinata in una sorta riserva indiana dall’imperante keynesimo e marxismo. Recentemente è uscito un libro che espone con chiarezza e sinteticità i punti cruciali del pensiero della Scuola Austriaca. Abbiamo chiesto a uno dei suoi autori di spiegarci quali sono le peculiarità di questa scuola e il motivo della sua importanza per il tempo in cui viviamo. Di seguito riportiamo l’intervento di Guglielmo Piombini che con Giuseppe Gagliano è autore di Riscoprire la Scuola Austriaca di economia La sfida di Mises, Hayek e Rothbard a Marx e Keynes. Buon proseguimento di lettura.

L’attualità della Scuola Austriaca

La Scuola Austriaca sta suscitando un crescente interesse anche tra i giovani universitari, per reazione all’incapacità dell’economia insegnata nei corsi accademici di spiegare in maniera convincente i recenti avvenimenti economici. Al riguardo, un segnale interessante è la nascita in numerose università dell’Italia e del mondo di una rete di studenti, chiamata Rethinking Economics, che chiede l’ampliamento dello studio dell’economia ad altre tradizioni di pensiero trascurate dal corpo docente, tra cui la Scuola Austriaca. Questi studenti, che si definiscono “econoscettici”, accusano i propri professori di non avete previsto nessuna delle ultime crisi finanziarie, e organizzano conferenze con ospiti di idee eterodosse esterni alla loro facoltà.

L’attrazione per la Scuola Austriaca nasce anche dall’insoddisfazione per l’arido approccio statistico e matematico che prevale nelle lezioni e nei manuali di economia. Gli studiosi di tradizione austriaca ritengono invece che i metodi utilizzati nelle scienze naturali non siano adatti a una scienza sociale come l’economia, che studia non oggetti inanimati, ma esseri dotati di volontà, le cui scelte sono in larga misura imprevedibili. Due individui, infatti, possono reagire a un evento economico in maniera opposta. Ad esempio, un prezzo in crescita potrebbe convincere Tizio che sia giunto il momento di comprare per cavalcare il trend positivo, e spingere invece Caio a vendere per realizzare un guadagno.

Per questa ragione, gli enormi aggregati utilizzati nella macroeconomia (la domanda aggregata, la propensione al risparmio o al consumo, il prodotto interno lordo, il livello generale dei prezzi e così via) sono guardati con molto sospetto dagli economisti austriaci, perché nascondono dietro un numero una grande varietà di scelte individuali che hanno motivazioni spesso diversissime, e che quindi non si possono sommare tra loro. Non esistono delle leggi universali e costanti fra tali grandezze economiche, e quindi ha poco senso utilizzare gli aggregati macroeconomici come basi per formulare delle teorie scientifiche o delle politiche economiche. Questo spiega i pessimi risultati previsionali della “scienza” economica che va per la maggiore nelle università e nei media.

I punti di forza del modello della Scuola Austriaca

I grandi economisti austriaci Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek furono tra i pochi a presagire l’arrivo della crisi del 1929, mentre i più celebrati economisti del tempo, Irving Fischer e John Maynard Keynes, vi caddero dentro in pieno, rovinandosi finanziariamente. Quasi tutti gli economisti occidentali furono colti di sorpresa dal collasso dei regimi comunisti, mentre gli economisti austriaci avevano spiegato fin dagli anni Venti le ragioni teoriche per cui un’economia pianificata dal centro non avrebbe mai potuto funzionare, e che prima o poi i sistemi collettivisti sarebbero crollati. Può sembrare incredibile, ma ancora nel 1989, poco prima della caduta del Muro di Berlino, sul manuale di studio più adottato nelle università americane, quello di Paul Samuelson, si poteva leggere che «L’economia sovietica è la prova che, contrariamente a quello che pensavano molti scettici, un’economia socialista di comando può funzionare e perfino prosperare»: una frase imbarazzante che è stata eliminata nelle edizioni successive.

La Scuola Austriaca ha sempre difeso con coerenza la proprietà privata e la libera iniziativa economica, oggi conculcate dall’invadenza degli Stati fiscalisti e burocratici in molte parti del mondo. È inoltre l’unica scuola che applica la regola generale “non esistono pasti gratis” alla sfera monetaria. È convinta infatti che il governo non possa creare una genuina prosperità nel lungo periodo stampando moneta o favorendo l’allargamento del credito bancario, perché i risultati dell’espansione monetaria sono opposti a quelli voluti: un ciclo di boom e di crisi che affligge in maniera durevole l’economia.

Non è un caso che negli ultimi anni diversi economisti, applicando la sofisticata austriaca teoria del ciclo economico, abbiano previsto le crisi finanziarie, avvertendo che le misure di stimolo monetario messe in atto dalla Federal Reserve, da Alan Greenspan in poi, avrebbero provocato delle bolle finanziarie destinate a scoppiare: ne fanno fede i loro articoli ancora presenti in rete. Anche oggi molti economisti di scuola austriaca sostengono che gli eccessivi debiti sovrani accumulati dai governi e le misure eccezionali di espansione monetaria messe in atto dalle banche centrali determineranno una crisi finanziaria peggiore delle precedenti. Purtroppo sono ancora pochi gli uomini politici e gli intellettuali alla moda disposti ascoltare gli scomodi avvertimenti della Scuola Austriaca di economia.

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