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Jobs Act, vecchi e nuovi contratti: cosa cambia per i lavoratori

Con l’arrivo del contratto a tutele crescenti, va in soffitta l’articolo 18 per i rapporti di lavoro stipulati a partire dal primo marzo – Ma il vecchio regime continuerà a valere per tutti i lavoratori che ad oggi hanno un contratto a tempo indeterminato. Si verrà così a determinare un sistema “duale” con sfasature anche sui licenziamenti collettivi

Jobs Act, vecchi e nuovi contratti: cosa cambia per i lavoratori

Il contratto a tutele crescenti, previsto dal relativo decreto legislativo approvato definitivamente dal Consiglio dei Ministri di venerdì scorso 20 febbraio, non è una nuova tipologia di contratto a tempo indeterminato per operai, impiegati e quadri, ma è il nuovo sistema sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi per i contratti a tempo indeterminato stipulati dal prossimo 1° marzo o per i contratti di lavoro a termine o di apprendistato che siano trasformati in contratti a tempo indeterminato, compresi quelli stipulati prima dell’entrata in vigore del decreto delegato.

Matteo Renzi ha dichiarato che con questo provvedimento è stato “rottamato” l’ art. 18 : affermazione senz’altro vera per le nuove assunzioni, ma bisogna ricordare che l’art. 18, come riformato dalla Legge Fornero, continua a valere per tutti i lavoratori che oggi hanno un contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Ciò comporterà, per un periodo transitorio piuttosto prolungato (minimo 10/15 anni prima che si esaurisca il bacino degli attuali contratti a tempo indeterminato, se ipotizziamo un tasso medio di turn over nelle aziende, a voler largheggiare,  dell’8-10%) un sistema sanzionatorio “duale”: la  tutela reale con la reintegra per i lavoratori assunti “ante-decreto”, e, per i lavoratori assunti “post- decreto”, la tutela obbligatoria con l’ indennità risarcitoria, salvo i licenziamenti nulli o discriminatori e i limitati casi di licenziamenti disciplinari, per i quali permane la tutela reale.

Se il contratto a tutele crescenti sarà ovviamente l’unica forma di contratto a tempo indeterminato del nostro sistema per tutti gli assumendi dal 1° marzo prossimo, proprio il sistema sanzionatorio “duale” potrebbe comportare delle criticità nell’ambito della mobilità professionale interaziendale, con il rischio di frenare il mercato del lavoro dei cosidetti “esperienziati”, quadri e professional amministrativi, tecnici e commerciali, ma anche, ad esempio, operai megaspecialisti nella conduzione degli impianti ad alta tecnologia.

Tali lavoratori infatti, dopo il 1° marzo, sarebbero assunti dal nuovo datore di lavoro con il contratto a tutele crescenti, e quindi potrebbe esserci da parte loro una remora ad abbandonare il vecchio contratto che aveva un sistema di protezione più vincolistico rispetto al nuovo che contempla solo un sistema risarcitorio, ovviamente sempre nel caso di licenziamento illegittimo, non solo disciplinare ma anche economico.

Facciamo un caso: un professional, con 10 anni di anzianità aziendale, in caso di licenziamento per “giustificato motivo oggettivo” (licenziamento economico) dichiarato illegittimo dal giudice, avrebbe oggi diritto, a seconda dei casi, o alla reintegra o ad una indennità economica tra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità. Lo stesso professional, se domani accettasse una offerta di lavoro da parte di un’altra azienda, verrebbe assunto con un contratto a tempo indeterminato che prevede, ad esempio, la possibilità di licenziarlo, dopo solo un anno, per “giustificato motivo oggettivo”, anche se non ne ricorrono i motivi, con il pagamento di una indennità pari al minimo di 4 mensilità. 

E’ chiaro che in questi casi, se c’è un interesse reciproco tra azienda e lavoratore a perfezionare l’assunzione, si dovranno individuare le opportune soluzioni nella stipula del contratto individuale di lavoro, come aumentare la soglia minima della indennità risarcitoria o riconoscere l’anzianità pregressa ai fini del calcolo dell’indennità stessa o, al limite,  mantenere  ad personam e senza soluzione di continuità la tutela reale.

Il periodo transitorio, in cui convivranno la tutela reale per i contratti di lavoro ante decreto e la tutela obbligatoria per i nuovi contratti, comporterà anche problematiche non indifferenti nella gestione dei licenziamenti collettivi per riduzione di personale.

Va innanzitutto sottolineato positivamente che il decreto delegato rimedia, nonostante il pressing posto in essere dalla Cgil e dalla sinistra di opposizione e di governo, alla decisione presa dalla Legge Fornero di continuare a prevedere la reintegrazione per la violazione dei criteri di scelta nella individuazione dei lavoratori da licenziare per riduzione di personale.

Infatti la scelta dei lavoratori da licenziare con l’applicazione dei criteri generici previsti dalla legge 223/91 espressamente in concorso tra loro (carichi di famiglia, anzianità, esigenze tecnico-produttive ) si è spesso dimostrata pericolosa di fronte all’esame della magistratura, che ha sempre interpretato tali criteri con estremo rigore, a scapito delle reali esigenze aziendali, condannando alla reintegrazione nel posto di lavoro, ormai soppresso, i lavoratori estromessi.

Il risultato di questa giurisprudenza è stata l’ estrema incertezza nei costi dei piani di dismissioni del personale, che è incomprensibile per un investitore estero come ben sanno coloro che sono in rapporti di lavoro con i manager delle multinazionali,  e, per converso, il ricorso, in alternativa ai licenziamenti “secchi”, a tutta una strumentazione di sostegno, anche nei casi di imprese decotte, come i prepensionamenti, la mobilità corta e lunga, la cassa integrazione a zero ore pluriennale o quella in deroga.

L’ estensione, oggi operata dal decreto, delle sanzioni monetarie anche nella ipotesi di violazione dei criteri di scelta nella procedura dei licenziamenti collettivi non solo appare coerente con tutto l’ impianto del nuovo sistema sanzionatorio, ma soprattutto può dare certezza di costi alle imprese, in particolare a quelle in crisi.

Peraltro, dato che ai lavoratori assunti precedentemente all’entrata in vigore del decreto legislativo si continua ad applicare la tutela reale, anche nell’ ipotesi di licenziamenti collettivi, mentre non si applica ai nuovi assunti, avremo un sistema in forza del quale, a fronte dello stesso licenziamento collettivo dichiarato illegittimo per violazione dei criteri di scelta, i lavoratori “ante-decreto” saranno reintegrati, mentre quelli “post-decreto” avranno solo un risarcimento.  

Tutto questo potrebbe indurre qualcuno a sollevare una questione di legittimità costituzionale sulla base della diversità di trattamento per fattispecie analoghe, ma bisogna ricordare che la Corte Costituzionale, in passato, ha respinto simili questioni, ad esempio al riguardo dei lavoratori dipendenti con meno di 15 addetti, affermando che spetta al legislatore decidere il campo di applicazione delle regole, purchè ciò non avvenga in modo arbitrario ed irragionevole.

Ulteriori possibili attacchi al Jobs Act, ed in particolare al “contratto a tutele crescenti”, potrebbero arrivare dal ricorso al referendum abrogativo, come preannunciato da Maurizio Landini, o dal ricorso alla contrattazione aziendale  per sterilizzare la nuova normativa, come richiesto oggi dalla Fiom della Ducati e dalla Fiom della Lamborghini, in forza dell’articolo 8 del D.L. 13 agosto 2011 n. 138 (convertito nella legge 14 settembre 2011 n.148) che ha conferito alla contrattazione di secondo livello la facoltà di derogare ad una serie di precetti legali, tra cui “le conseguenze del recesso del rapporto di lavoro”.

Nell’ agosto 2011, in risposta alla famosa lettera della BCE che chiedeva all’ Italia l’avvio di riforme strutturali, compresa la liberalizzazione del mercato del lavoro, veniva emanata dal Governo Berlusconi la c.d. “manovra di agosto” che nella parte destinata a sostenere la contrattazione aziendale e territoriale, quali strumenti di incremento della competitività del sistema produttivo, ne disciplinava la capacità derogatoria sia nei confronti della normativa legale che della contrattazione nazionale.

In particolare veniva data alla contrattazione di secondo livello il potere di derogare alle disposizioni di legge in materia di controllo dell’attività lavorativa (art. 4 Stat. Lav.), di demansionamento (art. 13 Stat. Lav.) e licenziamento (art. 18 Stat. Lav.).

Come noto, questa norma è stata, sino ad oggi, praticamente disdegnata  dal sindacato che l’ha vissuta come un tentativo di ledere la propria autonoma determinazione nelle materie delle relazioni industriali e della contrattazione, mentre ora, al contrario, si penserebbe di utilizzarla, soprattutto in certe aree territoriali dove i rapporti di forza sono a favore della Fiom, come il grimaldello per “disinnescare”, con accordi aziendali derogatori, il piano governativo di riforme del lavoro.

Un consiglio a Matteo Renzi: far abrogare il più velocemente possibile la norma in questione, prima che arrivino i cedimenti di qualche azienda emiliana, come già avvenuto una decina di anni fa con la stagione dei “pre-contratti” della Fiom stipulati in alternativa al CCNL metalmeccanico firmato solo da Fim-Cisl e Uilm-Uil.   

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