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Infrastrutture, il conto salatissimo dei Costi del Non Fare: 530 miliardi

L’Agici del professor Gilardoni ha presentato a Roma lo studio sui Costi del Non Fare nel campo delle infrastrutture: l’Italia rischia di pagare un conto salatissimo, pari a 530 miliardi in 18 anni, se non realizza le opere pubbliche già programmate – Ma serve una nuova policy

Infrastrutture, il conto salatissimo dei Costi del Non Fare: 530 miliardi

E’ un conto salato quello che l’Italia rischia di dover pagare nei prossimi anni per la mancata realizzazione delle infrastrutture messe in cantiere ma ancora da realizzare. Gli oneri potrebbero infatti arrivare a 530 miliardi di € nei prossimi diciotto anni, ripartiti tra settore delle Tlc (293 miliardi), trasporti (119 miliardi), energia (82 miliardi) e ambiente (37 miliardi). Un costo che il nostro Paese non si può certo permettere, non solo alla luce delle tragiche conseguenze della carente manutenzione di opere realizzate da decenni, come nel caso del ponte Morandi di Genova, ma anche per il gap di crescita e di produttività che lo separano dal resto d’Europa. Se realizzare nuove infrastrutture costa, rischia di costare di più non farle, come emerge dall’ultima edizione dello Studio sui Costi del Non Fare, realizzato dalla InfrastructureResearch&Advisory Unit di Agici.

Lo studio è stato presentato a Roma nel corso del seminario “Innovazione e Analisi Costi Benefici: gli strumenti per le infrastrutture del futuro” che ha visto la partecipazione di esponenti delle imprese presenti in un ampio spettro di settori economici, di esperti, di esponenti del mondo politico e di governo. Un supporto imprescindibile per una nuova stagione di investimenti infrastrutturali ‐ ha ricordato, aprendo i lavori del seminario, il presidente di Agici, Andrea Giardoni – può venire dall’Analisi Costi Benefici (ACB) che, se effettuata in modo indipendente, può offrire utilissimi elementi di giudizio per decisioni che, alla fine, spettano in ogni caso ai policy makers. “Qualità, innovazione, sostenibilità devono essere i pilastri delle nuove politiche infrastrutturali” ha sostenuto Stefano Clerici, coordinatore della Infrastructure Unit di Agici, nell’illustrare lo Studio. “Nella definizione delle priorità future e per un rilancio infrastrutturale del Paese – ha aggiunto – occorreranno nuovi approcci più attenti alla pianificazione, all’innovazione e al miglioramento dell’esistente”. E un contributo fondamentale al superamento dei Costi del Non Fare, secondo Clerici,  verrà da un lato dall’impiego delle metodologie dell’ACB e dall’altro dagli sviluppi della digitalizzazione offerti dall’Internet of Things (IoT).

Sulla necessità di un ammodernamento delle politiche per le infrastrutture, tanto più dopo la tragedia di Genova, ha insistito Edoardo Rixi, sottosegretario del Ministero Infrastrutture e Trasporti. “Bisogna superare l’arretratezza attuale nel campo della digitalizzazione dei dati. Infatti, una gestione intelligente delle infrastrutture e della relativa mole di dati che richiedono un aggiornamento continuo, garantirebbe un sistema infrastrutturale molto più efficiente e sicuro” ha dichiarato Rixi. Una maggiore integrazione tra il sistema pubblico e quello privato, inoltre, permetterebbe di superare quei limiti che spesso non consentono di dare risposte veloci ai problemi. “In questo modo il pubblico non avrà solo oneri ma anche la possibilità di dialogare e interagire con il privato e ottenere buoni risultati” ha concluso il sottosegretario del MIT.  Ma come contemperare il finanziamento delle infrastrutture e nuovi investimenti pubblici con i margini  ristretti del bilancio statale? Per Massimo Garavaglia, viceministro dell’Economia e delle Finanze, “il problema non sono le risorse, ma la capacità di spesa”.

Lo scorso anno, ha rilevato, a fronte di nuovi stanziamenti pari a 1,9 miliardi di € per investimenti pubblici, la spesa effettivamente realizzata è stata pari a zero. E questo si deve a una serie di concause che, per Garavaglia, si chiamano regole contabili (ad esempio il fatto che, fino a una recente pronuncia della Corte Costituzionale, a Regioni e Comuni non fosse consentito di impiegare eventuali avanzi di amministrazione), approccio alle scelte di investimento, codice degli appalti, sistema delle concessioni, “sindrome da taglio del nastro”. “Se si superasse questa sindrome il Mezzogiorno scoprirebbe di essere seduto su una miniera d’oro a avrebbe una grande opportunità di rilancio” ha sostenuto l’esponente del MEF, augurandosi anche che nel campo degli investimenti pubblici la Cassa Depositi e  Prestiti giochi un ruolo attivo e proattivo. Numerosi gli spunti di riflessione venuti dagli interventi dei rappresentanti delle imprese impegnate nei settori più interessati da un rilancio degli investimenti infrastrutturali. Come, ad esempio, quello idrico. “Nel decennio 1999‐2009 gli investimenti per il settore idrico erano di appena 0,5 miliardi di €/anno” ha rilevato Giordano Colarullo, Direttore Generale di Utilitalia. “Con l’entrata in vigore del primo Metodo Tariffario, introdotto da AEEGSI, nel quadriennio 2012‐2015 sono passati a oltre 1 miliardo di €/anno e con i nuovi livelli tariffari per il quadriennio 2016 ‐ 2019, è già ipotizzabile un livello medio di oltre 2 miliardi di€/anno.

Appare evidente come la regolazione del settore abbia impresso un cambio di passo” ha proseguito, aggiungendo che la priorità nelle strategie future di investimento bisognerà puntare a “risolvere le emergenze e le inefficienze legate a vaste zone di arretratezza”. In quest’ottica, per Colarullo, un ruolo importante lo avranno le funzioni di indirizzo e controllo dell’intero comparto e l’ACB. Che, secondo Maurizio Gentile, AD e DG di Rete Ferroviaria Italiana, costituisce “un valido strumento per misurare il vantaggio degli effetti che il sistema ferroviario produce, soprattutto in termini di sicurezza e impatto ambientale. Assume pertanto un valore determinate all’interno del processo decisionale sui progetti d’investimento che devono essere considerati nell’ambito di una strategia dei trasporti  già condivisa”. Sono in molti a sottolineare come la parola d’ordine per le infrastrutture del futuro sarà meno acciaio e cemento, più intelligenza e qualità. “Le tendenze strettamente intrecciate della digitalizzazione e l’IoT hanno già oggi creato un “mondo connesso” di attrezzature, sensori e sistemi in grado di gestire l’elevata attenzione sui temi di manutenzione predittiva e continuità operativa utile ad assicurare livelli di servizio adeguati ed economicamente sostenibili” ha sostenuto Saul Fava VP Marketing Strategico & Digital Schneider Electric.

“Oggi tutto questo è già possibile in diversi settori ed in particolare nelle infrastrutture, caratterizzate da grandi reti distribuite sul territorio che sommano, alle tematiche tecniche, significative complessità gestionali”.Sullo stesso tema, Antonio De Bellis di ABB ritiene che “ il nostro Paese potrà essere davvero attrattivo attraverso gli smartpeople, in grado di avere competenze tecnologiche e capacità di utilizzare le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, e nuovi modelli di collaborazione come, ad esempio, un comitato nazionale di sviluppo”.
Francesco Bettoni, Presidente della BreBeMi, ha ricordato come dalle nuove tecnologie può venire un contributo essenziale alla mobilità sostenibile. “Lo sviluppo del nuovo progetto Smart Roads da parte di ANAS, oltre che l’idea di una mobilità sostenibile partendo dall’economia circolare, hanno incoraggiato sia noi che il nostro concedente, CAL Concessioni Autostradali Lombarde, a “guardare oltre” e presentare il progetto pilota di elettrificazione dell’autostrada A35 per il trasporto merci su strada” ha affermato. “Smart Road è un programma all’avanguardia a livello mondiale – secondo Bettoni – e attraverso il paradigma IoT permetterà di avere strade e autostrade sempre più sicure, interconnesse e capaci di interagire con l’utenza fornendo informazioni sul traffico e sullo stato dell’infrastruttura e il nuovo progetto di elettrificazione di A35 ben si inserisce in questo contesto”.

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