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Industria 4.0, Taisch (Polimi): “La tecnologia non farà sparire il lavoro”

INTERVISTA DEL WEEKEND a Marco Taisch, docente del Politecnico di Milano e co-responsabile scientifico dell’Osservatorio Industria 4.0, che commenta il piano lanciato un anno fa dal Governo e appena aggiornato: “La tecnologia non farà scomparire lavoro ma ne creerà altro: già nel 2020 saldo sarà positivo” – “Sulla formazione delle imprese le università sono pronte ma manca il bando”.

Industria 4.0, Taisch (Polimi): “La tecnologia non farà sparire il lavoro”

“L’iperammortamento è costato 13 miliardi di agevolazioni fiscali in quattro anni, ma secondo le stime libererà 10 miliardi l’anno di investimenti in tecnologia da parte delle imprese: è anche grazie a questo che abbiamo il Pil in crescita e la disoccupazione in calo. E infatti Macron di fatto ci sta copiando col suo fondo da 10 miliardi per l’innovazione”. Marco Taisch, docente della School of Management del Politecnico di Milano e co-responsabile scientifico dell’Osservatorio Industria 4.0, commenta così il bilancio del primo anno dal lancio del piano Industria 4.0, dopo la presentazione delle linee guida 2018 da parte del Governo: “Il bonus ha già riscosso notevole successo tra le imprese, ora la sfida è quella della formazione, per la quale il Politecnico di Milano è già pronto, ma è la burocrazia romana a rallentare tutto”. Ecco l’intervista che ha rilasciato a FIRSTonline.

Professor Taisch, se dovesse spiegarlo in parole semplici, come definirebbe il piano Industria 4.0?

“Si parla di Industria 4.0 quando una serie di tecnologie, dall’automazione all’Internet delle cose, dal cloud ai Big Data, dalla sensoristica all’intelligenza artificiale, vengono usate nei processi produttivi, ossia nelle fabbriche, per raccogliere dati in tempo reale e renderli immediatamente disponibili a chi deve prendere decisioni, che le prenderà dunque più velocemente e anche meglio”.

Perché anche meglio?

“Perché ad esempio l’intelligenza artificiale consente di fare simulazioni che permettano di avere soluzioni già pronte al problema. E’ come con le previsioni del tempo: posso avere i dati in tempo reale sul meteo, ma anche elaborare sofisticati modelli previsionali”.

Questo permetterà di produrre di più, ottimizzando risorse e tempo?

“Certo, ed è quello che il mercato chiede adesso. Il mercato oggi vuole soprattutto due cose: prodotti sempre più personalizzati, basti pensare che una Mercedes Classe C conta 7mila-8mila varianti dal colore a tutti gli optional, e anche una scarpa della Nike ne ha a centinaia; e tempi di consegna veloci. Nell’era Amazon non funziona più la produzione di massa lontana dai mercati di sbocco. Non va più bene la grande fabbrica in Cina, perché i prodotti dovrebbero viaggiare troppo. Industria 4.0 può, approfittando di questo fenomeno, diventare opportunità di rilocalizzazione delle imprese in Italia: anche perché una macchina o un robot costano lo stesso in Italia o in Cina”.

Però se la manodopera avrà meno impatto sul costo di produzione, significa anche che ce ne sarà di meno e che sarà sostituita – almeno in parte – dalla tecnologia?

“Sulla singola impresa la conseguenza può essere questa, ma se un’impresa produce di più guadagna anche di più e avrà più opportunità di crescere e dunque di creare lavoro. Senza contare che se rilocalizzo, ci saranno comunque più imprese in Italia e le imprese, anche quelle più automatizzate, non possono prescindere dal personale umano: basti pensare a tutto il lavoro di lettura dei dati, delle informazioni, alla progettazione. Serviranno competenze nuove, ma di lavoro ce ne sarà eccome”.

I sindacati sono però divisi tra “tecnofobici” e “tecnottimisti”.

“Io sono d’accordo con Marco Bentivogli di Fim Cisl, quando dice che la tecnologia in realtà salva i posti di lavoro, perchè permette il rientro delle produzioni dall’estero o ne evita la fuga”.

Come si suol dire, si perderanno posti di lavoro ma se ne creeranno di nuovi. Ma entro quando il saldo potrà essere positivo, secondo lei?

“Sì, è proprio così. Nel breve termine rischiamo il saldo negativo, anche perché la rilocalizzazione potrebbe non essere così rapida, ma secondo me già dal 2020 il saldo sarà positivo”.

Non è dunque d’accordo con lo studio presentato al Forum Ambrosetti di Cernobbio, secondo il quale la quota di lavoratori italiani a rischio automazione dei prossimi 15 anni è pari al 14,9%, con una perdita di posti di lavoro stimata tra 1,6 milioni e 4,3 milioni da qui al 2033, e una decisa impennata a partire dal 2024.

“No, perché riguarda solo le professioni ripetitive. Le professione intellettive invece ne trarranno persino beneficio, visto che ad esempio un medico sarà meno impegnato in alcune attività se sostituito da una macchina, e potrà dedicarsi meglio ad altro come l’assistenza al paziente o la ricerca. Il salario sarà sempre lo stesso, ma aumenterà la sua produttività. Alcune attività ripetitive invece scompariranno o diminuiranno, questo è vero, ma alla fine tutte le rivoluzioni industriali hanno sempre prodotto valore aggiunto in termini di occupazione. E la quarta rivoluzione è ormai inesorabile”.

Perché?

“Perché a differenza della prima, che avvenne prima nelle fabbriche e poi tra le persone, in questo caso sta accadendo esattamente il contrario. Tutti noi usiamo Internet già da 15-20 anni, è già nella nostra vita quotidiana prima ancora di entrare nei processi industriali, ed è dunque ovvio e inevitabile che lo faccia”.

Bisogna però accompagnarla questa rivoluzione, anche perché l’Italia ha un tessuto produttivo fatto soprattutto di Pmi e imprese familiari, talvolta poco propense all’innovazione.

“Questo lo sappiamo e infatti la grande sfida è quella della formazione. Quello che è già stato fatto, come gli ammortamenti, sta funzionando ed è anche grazie a quello che vediamo dati macroeconomici migliori. Ma c’è da pensare alla formazione di nuove competenze tecniche che serviranno ad accompagnare la nuova industria e a sostituire i lavori che scompariranno, e in questo è importante puntare sugli Istituti tecnici superiori; alla formazione per i lavoratori over 50 o comunque non nativi digitali, e per questo va bene la soluzione del credito d’imposta sulla formazione; e alla formazione per le imprese, attraverso i Competence Center, che però sono ancora fermi”.

Il Ministro Calenda ha detto che il bando da 20 milioni l’anno sarà sbloccato a breve, ma intanto ci spiega che cosa sono e come funzioneranno i Competence Center?

“Calenda ha ragione e la colpa non è del Mise: il decreto è pronto da mesi ma è bloccato dalla burocrazia romana. Anche il Politecnico di Milano e altre università sono pronte, aspettiamo solo il bando. Cosa saranno i centri di competenza? Immagini dei grandi showroom dove le aziende possano toccare con mano che cos’è una fabbrica connessa”.

Esclusa la parte sulla formazione e sulla consapevolezza dello strumento anche da parte delle imprese più piccole, pare che l’Italia sull’Industria 4.0 sia finalmente al passo con i big europei: è davvero così?

“E’ vero. La Germania ha iniziato nel 2011 e ha già 35 centri di competenza, che loro chiamano testbeds. Ma possiamo recuperare, anche grazie alla cooperazione trilaterale che su questo abbiamo avviato con Francia e Germania, e di cui il coordinatore sono io per conto del Politecnico. Le nostre imprese sono ancora indietro, ma il progetto per certi versi è anche migliore di quello di altri: la verità è che come spesso accade ci ferma la burocrazia”.

Il Ministro Calenda, oltre ai centri di competenza, ha individuato altre due criticità emerse in questo primo anno di lancio del piano Industria 4.0: la banda larga e il venture capital per le startup. Che cosa ne pensa?

“Sulla connessione ho poco da aggiungere: se andiamo sempre di più verso un’economia dei dati, dobbiamo costruire un’autostrada dei dati. Sulle startup invece sarei meno pessimista, nel senso che ci credo meno sul fatto che siano davvero in grado di avere un impatto sull’economia del Paese. L’Italia ha una vocazione manifatturiera: il manifatturiero produce il 50% del Pil e le banche ci dicono che la liquidità nelle aziende c’è, solo che non viene investita in innovazione. Adesso grazie agli ammortamenti non dovrebbe più essere così. Le startup sono anche un po’ una moda, non è di certo grazie a loro che stiamo risollevando occupazione e Pil: anzi, questa che definirei un’ossessione ha quasi rischiato di demotivare l’imprenditore tradizionale, facendolo sentire ormai fuori gioco. Si parla troppo di nerd che inventano Facebook negli scantinati, ma noi dobbiamo fare industria e creare lavoro”.

Più tecnologia a servizio delle imprese tradizionali e non tanto (o quanto meno non solo) imprese tecnologiche tout court: si può riassumere così?

“Ci vorrebbe una via di mezzo, ma diciamo di sì”.

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