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Ilva, Area C a Milano, servizi pubblici locali, Acea: chi comanda in Italia? I politici o i giudici?

Le clamorose decisioni dei giudici sull’Ilva di Taranto, sull’area C di Milano, sull’Acea di Roma e sui servizi pubblici locali svelano tensioni e incomprensioni tra potere giudiziario e potere politico e sollevano una domanda di fondo: ma oggi chi comanda in Italia? E in Germania la Corte costituzionale, che tiene l’Europa sul filo, conta più della Merkel?

Ilva, Area C a Milano, servizi pubblici locali, Acea: chi comanda in Italia? I politici o i giudici?

La serie di provvedimenti con cui la magistratura, costituzionale, amministrativa e penale, ha messo in poche settimane in difficoltà la politica ha destato reazioni preoccupate: ultima è la notizia dei sigilli all’area a caldo dell’acciaieria di Taranto; ma il giorno prima era arrivato la decisione cautelare del Consiglio di Stato con cui è stata sospesa la delibera della giunta comunale milanese relativa all’Area C; e prima ancora quella della con cui lo stesso Consiglio ha riaperto la discussione sulla vendita di una quota della partecipazione del Comune di Roma nell’ACEA; ed è di venerdì la sentenza della Corte Costituzionale di annullare l’art. 4 della Finanziaria bis del 2011, viatico non incoraggiante per le previsioni relative ai servizi pubblici locali contenute nel Decreto Libera Italia del governo Monti, che quella previsione sostanzialmente riprendevano.

Allora, i giudici mettono i bastoni tra le ruote alla politica e ostacolano i processi di riforma economica? Dimostrano ancora una volta di essere un ostacolo alla modernizzazione del paese? E occorre allora ridurre la loro possibilità di intromettersi in scelte politiche (nazionali, locali) fondamentali?

Insomma…..i casi di cui si discute sono assai diversi tra loro, e alla fin fine testimoniano tanto di una certa insensibilità di alcuni giudici rispetto al contesto generale in cui le loro decisioni avvengono, quanto di una sordità della politica ai problemi alla radice delle questioni di cui i giudici alla fine vengono interessati.

Cominciamo dal caso della sentenza annunciata della Corte Costituzionale. Certo, da giugno 2011 ad oggi la percezione della situazione economica del paese è cambiata. Si percepisce che occorrono profonde riforme nelle modalità di gestione della cosa pubblica, razionalizzazioni, apertura al mercato anche dei servizi pubblici, concorrenza, privatizzazioni. E la sentenza della Corte può apparire un siluro a chi vuole riformare. Resta però il fatto che poco più di un anno fa’ l’elettorato, sia pure sotto l’onda emotiva causata dal disastro nucleare di Fukushima, pensando di votare sull’acqua e intervenendo invece su tutti i servizi pubblici locali e facendo di tutta l’erba un fascio, si pronunciò largamente per l’abolizione del famigerato articolo 23 bis del dl 112 del 2008. Il che, da un punto di vista normativo, non voleva però dire un no assoluto al mercato e alla concorrenza. Infatti, come notò la stessa Corte Costituzionale nel dare via libera al referendum, diventava di riferimento il quadro normativo comunitario, che comunque prevede limiti stringenti agli affidamenti diretti e il ricorso alla gara per le attività non “in house”.  Avrebbe potuto essere questo l’ancoraggio su cui avrebbe potuto basarsi il legislatore per  introdurre nuove norme, che magari tenessero conto del “patto di stabilità”. Ha ritenuto invece di riproporre la norma: la valutazione di incostituzionalità diveniva a questo punto inevitabile.

La questione ILVA è stata ampiamente commentata: al di là del merito, che appare materia complessissima, quello che immediatamente stupisce è un’ordinanza che non tenga conto della gravità delle sue conseguenze immediate, non tanto dal punto di vista economico, ma da quello sociale. Non si tratta solo della sorte dei dipendenti dell’ILVA, uno dei più grandi impianti d’Europa, ma dell’assetto economico e sociale di un’intera città che è in condizioni disperate: l’amministrazione comunale, bisogna ricordarlo, è andata in dissesto solo qualche anno fa. E’una questione di sensibilità del giudice: e qui l’addebito mosso alla magistratura di vivere in un universo alternativo, nel meta-mondo delle leggi, e non in quello della vita reale, sembra tutto sommato giustificato. Si può sperare che nel Tribunale del Riesame, a cui solo spetta rivalutare il provvedimento, si trovi qualche magistrato più saggio. E’ più probabile che lo si trovi, se il governo e le forze politiche mostreranno di stare facendo quello che avrebbero dovuto fare da tempo: prendere delle misure per rendere la situazione ambientale più tollerabile. Risulta dalle cronache che prima della ordinanza il procuratore abbia più volte sollecitato Governo nazionale e Regione a intervenire, ammonendo circa le inevitabili conseguenze. Apparentemente nulla è stato fatto fino all’imminenza della decisione del gip. Il problema però è anche quando il Tribunale del riesame si pronuncerà: in principio mercoledì cominciano le ferie giudiziarie, che durano fino al quindici settembre. Poi ci sono i tempi della procedura…..Al di là della forma in cui si esprime, il Ministro Clini ha ragione a preoccuparsi che la revisione avvenga in tempi brevi.

Infine, il giudice amministrativo: il Consiglio di Stato con le decisioni ACEA e Comune di Milano è entrato in materie delicatissime riguardanti il funzionamento di un’assemblea elettiva (ACEA) e il grado di compressione di un interesse privato (Comune di Milano). In quest’ultimo caso, per la verità, sembra che possa dirsi per il supremo organo di giustizia amministrativa quello che già si è detto per il gip di Taranto: con in più l’aggravante che le modalità di tutela dell’interesse privato leso appaiono  nello specifico del tutto sproporzionate rispetto alla lesione lamentata (specie considerando che in ogni caso il funzionamento dell’area C sarebbe stato in ogni caso sospeso in agosto).  Molto più prudente deve essere la valutazione nel caso ACEA, all’origine del quale è il comportamento assai poco responsabile di opposizione (che ha presentato migliaia di emendamenti alla delibera di cessione della partecipazione in ACEA) e di maggioranza, che in una seduta notturna tempestosa ha deciso di non discuterne. Ancora una volta il giudice (qui amministrativo) ha dovuto supplire alla incapacità della politica di comportarsi responsabilmente.

La conclusione? Che questi casi in nessun modo suggeriscono che l’ordine giudiziario abbia esorbitato dal suo campo d’azione. Ma certo ne vengono alcune considerazioni: in primo luogo, che in molti casi i giudici non appaiono applicare la legge con la saggezza che le condizioni di contorno richiederebbero e dimenticano la esigenza di proporzionalità tra le misure che impongono e gli effetti che provocano: il che è particolarmente rilevante quando si tratti di questioni di grande rilevanza sociale. E questo è un tema di cultura della magistratura di cui da sempre si discute  e su cui l’ordine giudiziario appare in grande ritardo (peraltro, non pare un problema solo italiano: si pensi alla Corte Costituzionale tedesca che ha posposto a settembre l’esame della compatibilità dell’ESM, meccanismo cruciale per la stabilità dell’Euro). In secondo luogo, però, che troppo spesso i giudici vengono investiti da questioni che avrebbero dovuto essere risolte prima, dalla politica o dai suoi comportamenti. Come in molti altri casi che occupano le pagine dei giornali, a Taranto come a Roma il giudice si è dovuto occupare anche di cose di cui la politica avrebbe dovuto darsi carico da tempo.

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