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Il nuovo libro di Riccardo Varaldo: “La nuova partita dell’innovazione” e il futuro dell’industria

ESTRATTO DELL’INTRODUZIONE di Riccardo Varaldo al suo nuovo libro “La nuova partita dell’innovazione” e il futuro dell’industria in Italia pubblicato nei giorni scorsi da “il Mulino” – “Solo i Paesi e le imprese capaci di reinventarsi innovando sono in grado di sfruttare la crisi come leva di cambiamento” – Riforme e politiche creino fiducia nel futuro

Il nuovo libro di Riccardo Varaldo: “La nuova partita dell’innovazione” e il futuro dell’industria

IL DILEMMA DELL’INNOVAZIONE 

Gli investimenti in R&S e in formazione costituiscono sempre più la base della capacità di sviluppo di un Paese e a livello microeconomico gli asset che fanno la differenza e qualificano le imprese che sanno guardare avanti e sostenere il proprio vantaggio competitivo nel contesto globale. Su questi fronti l’Italia accusa un preoccupante divario strutturale, in una fase della vita economica in cui la questione dell’innovazione tecnologica si pone in forma amplificata, mentre le risorse che abbiamo per affrontarla dopo la grande crisi sono notevolmente ridotte. La conseguenza è che l’economia italiana si trova di fronte a una sorta di dilemma dell’innovazione che impone di «far meglio con meno risorse», intervenendo innanzitutto sull’efficientamento dei meccanismi di allocazione e gestione della spesa in R&S.

L’impossibilità di adeguare la capacità di innovazione rende problematico uscire dalla crisi perché condiziona in vari modi i meccanismi, i tempi e i ritmi di crescita dell’economia, rendendo persistente il divario con gli altri paesi avanzati. Certo, uscire dalla crisi, pensando di rimanere come prima, sarebbe una lezione persa! L’effetto discontinuità impresso dalla grande crisi sulle istituzioni, sulla società, sull’economia e sui mercati è tale per cui solo i Paesi e le imprese capaci di reinventarsi sono in grado di sfruttare la crisi come leva di cambiamento politico-culturale e per un reset del modello di sviluppo dell’economia e del sistema delle imprese. La dinamica della competizione globale ha assunto ritmi e forme di evoluzione così veloci e imprevedibili che nessun paese, nessuna regione, nessuna impresa può contare su vantaggi comparati stabili. 

Per giocare la partita dell’innovazione, con nuova forza, tenuto conto delle specificità e dei vincoli del contesto italiano, ma anche con la ferma convinzione che i tempi richiedono di andare oltre e che esistono concrete possibilità di vincere la scommessa di un auspicabile, possibile «Rinascimento industriale» occorrono riforme e politiche che creino fiducia nel futuro e attivino il potenziale di energie, talenti ed eccellenze manifatturiere, di cui l’Italia è ricca, tramite uno sforzo collettivo di costruzione dell’ambiente istituzionale e socioeconomico adatto per un nuovo capitalismo imprenditoriale, capace di sfruttare le opportunità dell’era della conoscenza e della globalizzazione.

Sono quindi evidenti e diversi i motivi che concorrono a dare alla questione dell’innovazione tecnologica i tratti di una nuova partita dell’innovazione sia per il mutato, sfidante scenario competitivo entro cui va giocata, sia per le diverse modalità con cui oggi i processi innovativi si generano e si diffondono negli ecosistemi socioeconomici più dinamici. Queste novità comportano l’esigenza di cambiare le politiche della ricerca e dell’innovazione e di mettere in campo nuove energie imprenditoriali, tra cui quelle espresse dalle start-up innovative, una realtà finalmente in promettente sviluppo anche in Italia. 

L’AUMENTATA ESIGENZA DI INNOVAZIONE

Il problema dell’efficienza competitiva e dinamica dell’economia e dell’industria – che con la crisi si è imposto all’attenzione 15 generale come una priorità assoluta – oggi dipende più di prima dalla capacità di innovazione tecnologica che un paese e le sue imprese riescono a esprimere e mettere a frutto. A livello dell’economia globale, siamo in presenza di un eccesso di capacità produttiva dell’industria manifatturiera, che spinge le imprese ad aggregarsi e che è destinato ad essere riassorbito tramite una combinazione di prezzi in calo e di eliminazione della capacità meno efficiente, con la prospettiva che potranno sopravvivere soltanto i più rispondenti asset industriali che già esistono e i nuovi che saranno creati, investendo in R&S. La conseguenza è un processo di selezione darwiniana nel sistema delle imprese che è destinato a eliminare le meno efficienti e a far progredire quelle che hanno l’attitudine e le risorse umane e finanziarie per essere imprese innovative, capaci di reinventarsi e di attrarre e rendere creativi e produttivi talenti con elevate skill.

La possibilità dei vari Paesi europei di agganciare la ripresa, dopo la grave crisi dell’economia mondiale, è influenzata da come si è operato nel passato. Dai dossier Ue emerge in modo eloquente che i paesi in maggiore difficoltà, tra cui l’Italia, hanno investito meno in R&S e alte tecnologie, mentre hanno visto crescere relativamente di più nel tempo il capitale prodotto dalle industrie e dai settori meno avanzati, per cui hanno fatto registrare un minor tasso medio di crescita del Pil durante il periodo 1995-2007 che ha preceduto la crisi. Il calo del Total Factor Productivity (Tfp) è stato il motivo che ha maggiormente spinto l’Italia a divergere dalle altre nazioni europee.

Nel nuovo scenario economico globale appare in chiara evidenza la debolezza dell’economia italiana, che non è più competitiva per il costo del lavoro e nel contempo stenta a diventarlo sul fronte dell’innovazione. E dimostrano di essere improduttivi i tentativi e gli artifici per difendere situazioni di non competitività che, da un lato, non possono evitare la perdita di pezzi dell’industria manifatturiera tradizionale, dove la produttività totale non cresce, e dall’altro ritardano gli sforzi per accrescere la specializzazione in settori innovativi, a più alto tasso di sviluppo. Stiamo pagando il retaggio di una fase esaltante del made in Italy, incentrata sul manufacturing, che fa persistere l’opinione secondo cui produrre beni vale più che investire in invenzioni, brevetti, marketing e reti commerciali.

Così facendo si disconoscono i nuovi paradigmi dell’organizzazione industriale globale che vedono i paesi avanzati specializzarsi sugli asset immateriali delle filiere, a monte e a valle della fabbrica, che hanno assunto un ruolo chiave nel processo di creazione e appropriazione del valore aggiunto complessivo. Essendo in ritardo nell’attuare queste innovazioni di business model, con cui fronteggiare con successo la competitività di costo dei Paesi emergenti, molte imprese italiane sono sulla difensiva, con scarse possibilità di uscire dal cul-de-sac in cui sono bloccate. Questa sorta di «decadenza competitiva» comporta, a livello macro, l’impossibilità di attivare i meccanismi per rompere e superare il circolo vizioso della non crescita, che è da tempo il vero male dell’economia italiana.

LIMITI DEL CAPITALISMO ITALIANO

Le imprese italiane risentono della grande crisi, di cui non sono responsabili, ma stanno soffrendo anche di ritardi e negligenze – nell’adeguare strutture proprietarie e finanziarie, modelli operativi e assetti organizzativi – che di fatto operano da vincolo nel compiere investimenti per potenziare e rendere sostenibile nel tempo la capacità di innovazione. Nella rilettura della storia contemporanea dell’industria italiana non si può che essere desolati anche della lunga serie di politiche mancate o sbagliate che hanno concorso alla conservazione passiva più che al cambiamento.

La grande crisi ha evidenziato alcune anomalie sostanziali del nostro capitalismo industriale, nel quale il peso delle piccole imprese sovrasta nettamente quello dei grandi gruppi. Atteso che le dimensioni aziendali hanno visto accrescere la loro importanza – di pari passo con l’innalzamento del livello delle risorse finanziarie e organizzative necessarie per innovare e inserirsi nei mercati internazionali –, la tenuta competitiva si presenta alquanto problematica per l’industria italiana, data la carenza di player globali e un’elevata presenza di imprese sottodimensionate. Il confronto Italia-Germania, in fatto di struttura dimensionale delle imprese manifatturiere, è particolarmente eloquente se si considera che gli occupati nelle imprese fino a 49 addetti 17 in Italia incidono, nel 2010, per il 56,4% sul totale e in Germania solo per il 21,7%; e che gli occupati in imprese con 250 addetti e oltre in quest’ultimo paese pesano per il 55% e in Italia soltanto per il 23%.

Inoltre, nel decennio 2000-10 questo divario è aumentato di alcuni punti. È difficile mettere a fuoco e far percepire nei giusti termini il problema del «divario dimensionale» delle imprese, perché ci siamo assuefatti all’idea che l’Italia sia il paese emblema delle piccole imprese e che nel contempo manchi delle condizioni di contesto politico-istituzionale e di business environment necessarie per rendere vitali e far progredire le realtà di maggiori dimensioni. Ancora oggi si nutrono speranze che la ripresa dell’economia possa miracolosamente manifestarsi grazie alle nostre piccole imprese più dinamiche che esportano, trascurando la complessità dei problemi che condizionano la ripresa di un cammino di crescita del nostro sistema industriale.

Non è più possibile disconoscere che “mentre prima si poteva accettare, anche se con riserva, l’idea assai radicata in Italia che le piccole imprese – a causa della rilevanza assunta dalla flessibilità e dalle economie esterne agglomerative – avrebbero potuto ricoprire un ruolo di rilievo, oggi questo punto di vista non è accettabile né sotto l’aspetto analitico né sotto quello della politica economica” [Rey e Varaldo 2011].

Nel sistema manifatturiero tradizionale c’è molto sapere tacito, embedded nel personale e nell’organizzazione – condensato in una peculiare cultura del prodotto –, che troppo di frequente è utilizzato a un livello che è proprio di un artigianato evoluto piuttosto che di una vera e propria organizzazione industriale che punta all’efficienza e allo sviluppo. Questo comporta che l’Italia industriale perde molte opportunità nell’appropriazione e nella piena valorizzazione del suo patrimonio intangibile di conoscenza, esperienza e creatività, lasciando aperta la porta a concorrenti stranieri di maggiori dimensioni che difettano sotto questi profili, ma hanno elevate capacità di imitazione e di sfruttamento in senso produttivo e commerciale di idee innovative. Pertanto, se è indiscutibile che l’industria manifatturiera italiana dispone ancora di molte energie e risorse, la verità è che altri crescono di più e più rapidamente. 

OLTRE LA PRODUZIONE DI CONOSCENZE SCIENTIFICHE

 La questione dell’innovazione tecnologica non è riconducibile solo alla ridotta spesa in R&S e alla sua limitata incidenza sul prodotto interno lordo (Pil). È opportuno rimarcare che la R&S è l’anello iniziale della «catena di montaggio» dell’innovazione e come tale deve essere considerata per evitare di nutrire false credenze su un presunto predominio elitario della ricerca di base nei processi innovativi, in isolamento dalle restanti parti della filiera. Nel caso dell’Italia, il problema non è la produzione di nuove conoscenze scientifiche, dove contiamo su un buon posizionamento nella graduatoria internazionale. Il vero problema è la rapidità con cui le conoscenze si trasformano in brevetti e quindi in innovazione, e come si è in grado di disporre di tutto ciò che occorre, in termini di competenze, capacità e venture capital, per andare verso il mercato.

Solo così le conoscenze – l’outcome della ricerca – possono contribuire ad attivare i processi innovativi con cui si generano nuovi prodotti, nuovi processi, nuove soluzioni e nuovi servizi. Si tratta di un quadro di concatenazioni di fattori, investimenti e soggetti che l’Italia non sa comporre con efficienza. Ciò che appare chiaro è che la filiera ricerca-innovazione in Italia si presenta da un lato strutturalmente debole nel suo insieme, da un altro molto disomogenea, disarticolata e disallineata al suo interno. Pertanto, mentre ci sono punte di eccellenza nella ricerca di base che rimangono sottoutilizzate, esistono imprese tecnologiche che hanno difficoltà a trovare partner scientifici adatti per co-creare innovazione. Per non parlare, poi, della miriade di piccole imprese che sono fuori dai circuiti della ricerca.

Cercare di rimediare a questa serie di disallineamenti è ciò su cui puntare per mettersi in grado di giocare la nuova partita dell’innovazione con prospettive di successo. Il divario tra produzione scientifica e capacità brevettuale e innovativa, di cui l’Italia soffre, suggerisce l’esigenza di superare una situazione in cui la ricerca pubblica, di tipo universitario, vive sovente in una sorta di «torre d’avorio» e l’industria, a sua volta, non riesce a collaborare con centri di ricerca di eccellenza per qualificare e far avanzare il livello della piattaforma tecnologica. La situazione di crisi in cui versa l’economia italiana deve indurre a rafforzare e qualificare le azioni di sostegno all’innovazione tecnologica, con uno sforzo generale al quale non può mancare l’apporto del sistema pubblico della ricerca, in cui l’università riveste un ruolo chiave. 

Nella nuova partita dell’innovazione gli inventori raramente possono vincere da soli. I processi innovativi sono pertanto sistemici a livello sia settoriale che territoriale, e distribuiti: viviamo l’era dell’open innovation; le imprese non innovano in isolamento, ma traggono linfa vitale dalla complessa, dinamica interazione con altri attori economici, sociali e istituzionali. L’effetto della mutata natura – sistemica e distribuita – dei processi innovativi è amplificato dalla globalizzazione, che insuffla competizione anche sull’uso limitato delle risorse. Questo richiede di saper fare meglio con risorse limitate (less is more!). L’innovazione – intesa come outcome del processo inventivo-innovativo e di ingegnerizzazione – include, oltre a nuovi prodotti e nuovi processi, nuovi materiali e componenti, e soprattutto nuovi servizi, sempre più integrati con i prodotti. L’innovazione, inoltre, sta sempre più diventando uno stile culturale e organizzativo, un modo di pensare e di operare aperto e creativo delle imprese progressive, prendendo a modello le nuove imprese knowledge-driven, che sono mentalmente e strutturalmente centrate sull’innovazione. Il capitalismo di mercato dell’era della conoscenza è un modello economico in cui contano le grandi aziende, ma dove la competizione e la distruzione creatrice sono assicurate da tante piccole imprese – le start-up – che rischiano e scommettono sul futuro e sull’innovazione.

CAMBIARE LE POLITICHE
Se si vuole giocare la nuova partita dell’innovazione, evitando il rischio di perdere «a tavolino», l’Italia deve voltare pagina. La politica economica, troppo condizionata dalla crisi, deve cambiare spostando l’attenzione dalla finanza all’economia reale, dalla domanda all’offerta, dal macro al micro. Il passaggio a una policy dell’economia reale, orientata all’innovazione e alla crescita, è il vero terreno di sfida cui ci troviamo di fronte. La ripresa avrà tempi lunghi e comporterà necessariamente riforme strutturali e una politica economica e industriale, solida e multiforme, per poter accompagnare processi di aggiustamento e di innovazione, rispondenti a una varietà di esigenze e obiettivi. Non ci sono esperienze in fatto di strumentazioni di policy così impegnative. E questo è un fattore di incertezza nell’affrontare una fase molto delicata nella vita sociale ed economica del Paese. La nuova partita dell’innovazione impone essenziali sforzi di aggiornamento delle basi culturali e scientifiche delle politiche, dato che i temi dell’innovazione e dell’imprenditorialità, cari a Schumpeter, in Italia finora sono rimasti ai margini del pensiero dominante.  

La crisi deve offrire l’occasione per una svolta dell’innovazione, intesa come un più generale sforzo di rinnovamento e potenziamento delle basi del modello di sviluppo del Paese, dove l’industria manifatturiera e i servizi innovativi, ad alto valore aggiunto, devono essere messi in condizione di giocare un ruolo trainante, ai fini della crescita. Non si può invocare genericamente una politica industriale; occorre cambiare visioni e strumentazioni per poter parlare di una politica industriale in senso proprio. Solo se si è capaci di un cambio netto di paradigma della politica industriale, di una discontinuità, si può sperare di contrastare il trend del declino. 

È illusorio credere che sia possibile una risposta unica e sicura al problema dell’innovazione tecnologica che affligge da tempo nomia italiana. C’è bisogno di un insieme organico di riforme e di misure tra di loro coordinate, condotte secondo una logica di trial and error, da definire sulla scorta di una visione strategica di medio-lungo periodo, attivando le migliori energie imprenditoriali – vecchie e nuove – e le risorse finanziarie necessarie, da rendere disponibili in joint tra pubblico e privato. I sistemi economici innovativi, figli dell’era della conoscenza, si caratterizzano per un mix virtuoso di industrie e servizi avanzati, di capitale umano specializzato, di grandi, medie e piccole imprese, di università eccellenti e di istituzioni finanziarie e del venture capital. Sono questi gli ingredienti e gli attori che compongono e rendono vitali i poli territoriali con le caratteristiche e l’humus per diventare hub dell’innovazione, capaci di generare quell’insieme di esternalità aggregative che alimentano localmente i processi innovativi e il loro continuo rinnovamento, e che sono utili ad attrarre nuove idee, talenti imprenditoriali e capitali dall’esterno. Se non si fa un salto politico-culturale e istituzionale di questo genere è difficile pensare di poter giocare la nuova partita dell’innovazione. 

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