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Il caso Floyd e la centralità della scuola nella questione razziale

Lucy Kellaway, firma di prima grandezza del Financial Times, ha lasciato 3 anni fa il giornalismo per dedicarsi all’insegnamento e ora racconta come nella scuola nasca il razzismo più o meno strisciante ed è lì che bisogna cominciare ad estirparlo

Il caso Floyd e la centralità della scuola nella questione razziale

Il dopo Floyd 

Se dovessimo calcolare in libri-equivalente il numero di pagine che sono state scritte dopo la morte George Floyd a Minneapolis, non ci basterebbero nove cifre. C’è stato un’eruzione in stile-Pompei del vulcano razziale, non solo in America, ma in tutto il mondo. Molti sono rimasti inceneriti dalla sorpresa. Ma il magma ribolliva da tempo nelle viscere della società. 

Sotto la calma apparente, sotto la cenere delle vecchie eruzioni crepitava materiale esplosivo che la scintilla Floyd ha fatto detonare con l’impeto che si è visto nel porto di Beirut poche settimane dopo. È incoscienza o strategia deliberata lasciare tanto potenziale esplosivo nel corpo sociale e civile di una comunità? Sarà la storia a dire quale delle due era in azione a Minneapolis e a Beirut. 

Tra le cose che abbiamo letto, o semplicemente scorso, il contributo della giornalista di lungo corso del “Financial Times”, Lucy Kellaway, è parsa la lettura migliore sulla questione della cultura della razza. Migliore per tanti ragioni che vanno oltre lo spessore intellettuale e la consolidata esperienza della nota giornalista. 

Migliore, soprattutto per la sua ottica, quella della istruzione, questione centrale in tutta la faccenda razziale e non solo in quella. 

Migliore per la sua veridicità, poiché riferisce in modo candido il suo sentirsi in una storia di quotidiana ordinarietà vissuta in prima persona, come insegnante, in una scuola in un quartiere di Londra etnicamente diversificato. 

Migliore per sua la sincerità, non c’è alcuna ipocrisia nel suo racconto, nessun iato tra pensiero e comportamento come invece succede a molta sinistra progressista politicamente corretta, ma giustamente screditata per la sua doppiezza comportamentale. 

Una contraddizione che lacera 

A proposito di doppiezza. Poi ci meravigliamo della deriva populista!, come succede alla Anne Applebaum nel suo ultimo interessante libro, The Twilight of democracy. Per capire la deriva della polarizzazione delle coscienze, non bisogna guardare nel campo populista, come fa la Applebaum, ma in quello opposto. È lì che è successo il disastro che ha alimentato il populismo. 

Come può pensare di diventare presidente degli Stati Uniti, con un programma progressista, chi viaggia in limousine e in elicottero e consegna la metro card per un tour di propaganda nella metropolitana di New York alla sua guardia del corpo perché non sa in quale fessura dei tornelli inserirla!

Come possono gli ex-presidenti o vicepresidenti progressisti ricevere parcelle a 6 cifre per discorsetti banali di mezz’ora davanti ai potenti del mondo? I presidenti conservatori lo hanno sempre fatto senza alcuna necessità di nascondersi o di giustificarsi, in modo coerente con la loro visione della società. Gente che non ha bisogno di giustificarsi per quello che fa.

Ma per i progressisti queste parcelle sono delle vere e proprie bustarelle, sono vetriolo in faccia alla loro gente, che non è sprovveduta perché vive nella società vera, non quella dei club, delle accademie o delle fondazioni che vogliono cambiare il mondo, ma per ora gli va bene quello che c’è. 

Il discorso sarebbe ampio e si può chiudere con una citazione da “The Economist”, il più avanzato think-tank liberale del mondo: “Il liberalismo ha cambiato il mondo, ma il mondo si è rivoltato contro di esso”. L’enorme forza di Greta Thunberg è la grande coerenza tra le idee, le azioni personali e il programma politico. Qualcosa che è andato smarrito in tutto nel mondo progressista a tutti i livelli. Abbiamo veramente bisogno di un Savonarola? 

Chi è Lucy Kalloway 

Ma torniamo a Lucy Kalloway, che è ben lontana dall’ipocrisia di tanto pensiero progressista. 

Lucy Kellaway, una giornalista di primo rango del Financial Times, con un salario probabilmente a sei cifre, ha lasciato il quotidiano nel 2017, dopo 32 anni, per dedicarsi all’insegnamento in una scuola superiore di Hackney. 

Nota per il suo stile salace e satirico nel mettere in mora le limitazioni della cultura corporate, sì è dedicata anche alla narrativa scrivendo un primo romanzo parodistico-epistolare (in forma di email) dal titolo Martin Lukes: Who Moved My BlackBerry. Il secondo romanzo Office Hours del 2010 mette in luce anche il talento propriamente narrativo della Kellaway che il taglio satirico del suo precedente lavoro di “satira divertente, veritiera e sferzante” — per usare le parole del Sunday Times — aveva lasciato in ombra. 

Un bell’esempio e una bella lettura. Ecco che cosa scrive la Kellaway

Amarcord 

La foto fu scattata in una giornata di sole nel 1968 nel parco giochi della scuola elementare Gospel Oak nella parte nord di Londra. Sono seduta a gambe incrociate in prima fila, con indosso un grembiule a fiori rosa e arancione. Siamo in 35 e, a parte la ragazza seduta a pochi metri da me che aveva un genitore asiatico, siamo tutti bianchi. 

Da Gospel Oak sono andata alla Camden School for Girls, un liceo statale a un chilometro e mezzo da dove vivevo allora. Ho in mano una foto della scuola del 1976. Sono in ultima fila, visto che ormai stavo finendo il liceo. Tra 700 studenti, vedo solo due facce di colore. 

Successivamente, nella Lady Margaret Hall, Oxford, ecco la stessa scena, solo in un ambiente più ricercato. Dopo aver rovistato un po’, ho trovato la foto dell’immatricolazione e mi rivedo lì, con il copricapo accademico indossato in modo ridicolmente strano, cercando (e non riuscendo) di ostentare la mia diversità dalle ragazze, per lo più istruite in scuole private, che mi stavano intorno. Eravamo tutti bianchi. 

Stesso scenario 

Non ho una foto di gruppo del mio anno alla JPMorgan, la banca d’investimento a cui ho lavorato dopo essere uscita da Oxford. Ma non ne ho bisogno. Ricordo bene com’era fatto il gruppo. Nel mio programma di formazione eravamo in nove. Tutti oxfordiani, tutti bianchi. 

Io ero quella diversa, non per via della razza o della estrazione sociale, ma perché ero l’unica donna. Quando, qualche anno dopo, sono entrata al “Financial Times” ho scoperto che il giornalismo è sempre stato un po’ più femminile del settore bancario, ma non più diversificato sul piano etnico. 

Quando ho lasciato il FT avevo trascorso gran parte della mia vita quasi esclusivamente con persone che erano state nelle migliori università, facevano lavori d’élite ed erano tutte di razza bianca. 

A volte mi sono sentita in imbarazzo per questa scarsa diversità sul luogo di lavoro ma non ho mai pensato che fosse colpa mia. 

Ero solo il prodotto della classe, della generazione, dell’istruzione e della professione che stavo facendo. 

Dopo Minneapolis 

L’uccisione di George Floyd da parte della polizia, e le proteste che ne sono seguite, hanno fatto riflettere tutti noi sulla questione della razza. I liberali bianchi hanno iniziato ovunque un esame di coscienza del proprio comportamento alla ricerca di tracce di razzismo. 

Per me, questa scomoda verifica è iniziata non con l’uccisione di una persona di colore nel Minnesota, ma tre anni prima, quando ho iniziato a insegnare in una scuola di Hackney. 

All’età di 58 anni sono passata da un mondo in cui tutti erano come me in un mondo in cui grande parte della gente era diversa da me. Le famiglie dei miei alunni venivano da ogni parte del mondo. Erano immigrati di prima, seconda, e talvolta terza generazione, dalla Nigeria e dal Ghana, dai Caraibi, dalla Turchia, dal Bangladesh e dal Vietnam. 

La difficoltà delle diversità 

La mia ignoranza riguardo a queste comunità è emersa in modo umiliante fin dalla prima volta che ho cercato di fare l’appello. Sullo schermo del computer davanti a me c’erano 32 nomi. Di questi ne potevo pronunciare senza sforzo almeno 10. Riuscivo quasi a dir bene Yusuf. Ma Kujoe, Igbekoyi o Djimon? 

Erano nomi che pronunciavo male. Mi sembrava di portare un grande cartello in testa che diceva: «questa donna è completamente idiota». E quasi certamente, aggiungerei, anche razzista. 

Col passare del tempo, sono diventata più brava con i nomi (e ora non mi ricordo più perché li trovavo così difficili), ma ho fatto altri, anche peggiori sbagli. 

Al secondo anno insegnavo in un corso di economia e stavo parlando dell’etica nelle imprese. “Le aziende”, spiegai alla classe, “cercano disperatamente di dimostrare al mondo che sono più bianche del bianco”. 

La classe rimase con il fiato sospeso. Un paio di studenti si scambiarono delle occhiate. La frase, un po’ all’antica, li per lì mi era sembrata innocua. Invece era brutta e sbagliata nel momento stesso in cui usciva dalla mia bocca di fronte a quel tipo di classe. 

Nella frazione di secondo successiva ho fatto una riflessione. Mi sono chiesta, devo interrompere la lezione e scusarmi? O questo gesto potrebbe aprire un intero vaso di Pandora? 

Decisi di procedere come se non fosse successo niente. Siccome la scuola è molto severa, nessuno se l’è sentita di sfidarmi direttamente, ma sono rimasta comunque scossa. È una frase che non userò mai più. 

Perché il politicamente corretto è davvero corretto 

Quella sera stessa ho telefonato a un vecchio amico giornalista e gli ho detto della mia gaffe e di quanto mi sia sentito stupida nel farla. “Che ridicolo”, esclamò. “Più bianco del bianco non è razzista. È la pubblicità di un detersivo. Mi stupisce che tu, che sei la persona meno politicamente corretta che conosca, ti stia arrovellando per questo”. 

Non c’era stato nessun “arrovellarsi”, avevo perso semplicemente il controllo. Non si trattava di essere “politicamente corretti”. La questione è semplice: se sto dicendo qualcosa che reca un’offesa a qualcuno, devo smetterla subito. 

Alla base di tutto questo c’è una grande domanda della quale non conosco la risposta. Quando insegno, devo pensare costantemente alla faccenda della razza o non devo pensarci affatto? Fino a poco tempo fa avrei detto la seconda delle due. Quello per cui sono pagata è insegnare economia e convincere gli studenti che un’esternalità positiva è una cosa meravigliosa. 

Se lo faccio bene, aiuto tutti i miei studenti, sia il ragazzo che condivide un bilocale con la madre bangladese e cinque fratelli e sorelle, sia per la ragazza che vive in una grande casa a Victory Park con il padre che è un alto dirigente della BBC. 

La questione delle quote degli insegnanti etnici 

Nel mio primo anno di tirocinio come insegnante, mi sono offerta volontaria per dare una mano nei dibattiti del club del doposcuola. Pensavo di essere nel mio centro. Forse non sapevo ancora insegnare bene, ma sapevo bene come tenere un dibattitp. Il club era gestito da una giovane insegnante a cui piaceva scegliere temi di discussione piuttosto sensibili. 

Un giorno scelse questo tema di discussione: “In questa scuola dovrebbero esserci delle quote per gli insegnanti appartenenti a etnei diverse dalla bianca?”. Si trattava di un argomento particolarmente delicato dato che, nella scuola di Hackney, gli studenti di colore, asiatici e delle minoranze etniche costituivano circa il 75 per cento del totale, mentre la stragrande maggioranza degli insegnanti era bianca. 

Mi era stato dato il compito di coach, ma non venne un grande contributo da parte mia. Senza il mio intervento, la mia squadra debuttò con tre argomentazioni forti. Uno: gli insegnanti etnici sono un modello migliore per gli studenti etnici. Due: gli studenti etnici si sentono più a loro agio a lavorare con gli insegnanti non bianchi, che hanno una maggiore probabilità di capire alcuni dei loro problemi. Tre: l’unico modo per ottenere più insegnanti etnici è attraverso le quote, altrimenti ci si mette di mezzo il razzismo. 

Il razzismo strisciante, appunto 

Ascoltai il dibattito (vinto a mani basse dalla mia squadra), con un senso di crescente disagio. Non è che mi sentissi in imbarazzo per essere bianca, ma mi interrogavo sul fatto di poter essere un insegnante utile in questa scuola, come speravo, invece, di essere. Più tardi chiesi a due amici insegnanti di colore cosa ne pensassero. 

Entrambi dissero che il razzismo — del tipo subdolo e non — li aveva ostacolati, ed entrambi mi riferirono che gli studenti di colore spesso andavano da loro per lamentarsi di avere più punizioni degli studenti bianchi. 

Questo mi metteva doppiamente a disagio. In primo luogo, dato che non ho mai avuto a che fare con il razzismo, tendo a sdrammatizzare i racconti degli altri sugli episodi di razzismo. In secondo luogo, mi è venuto in mente che i ragazzi che siedono nelle mie classi sono soprattutto ragazzi di etnia non bianca. 

Sono sicura che ogni ragazzo che ho messo in punizione ha infranto una delle tante regole della scuola. Ma ci sono anche ragazzi bianchi che hanno rotto quelle regole a cui io ho, in qualche modo, ho soprasseduto alla punizione? Spero di no, ma come posso esserne sicura? Ecco un’altra cosa che mi arrovella. 

I pregiudizi inconsci 

Sospetto che, come tutti sulla terra, io abbia un complesso di pregiudizi inconsci. So che il mio cuore è al posto giusto per la quanto riguarda la razza, ma so anche che il mio cuore è qualcosa irrilevante quando si tratta di attraversare questo campo minato. Ho bisogno di imparare. 

Mi sono resa conto di quanto le cose andassero male qualche mese fa, quando ero nella giuria in una gara pubblica di oratoria aperta a tutte le scuole secondarie di Hackney. 

Ogni scuola aveva schierato due quindicenni che tennero un discorso su un argomento di loro scelta. Mi sono seduta al tavolo della giuria in una sala riunioni pubblica e ho ascoltato due dozzine di adolescenti che parlavano a braccio. Avrebbe dovuto essere un’esperienza edificante, ma me ne sono andata sentendomi più demoralizzata di quando sono entrata. 

Tra le finaliste c’erano otto erano ragazze di colore. La prima ha fatto un discorso molto forte su come lei, da giovane donna di colore, si sentisse emarginata. La ragazza successiva ha tenuto un discorso su come gli ideali di bellezza femminile non includessero la bellezza non bianca. Sono seguiti altri sei discorsi con argomenti simili. Le performance variavano da così-così a elettrizzanti, ma l’argomento era sempre lo stesso: discriminazione 

Ciò che conta è ora e qui 

Il contest si è svolto a circa 200 metri da dove vivo, ma mi è sembrato di entrare in un altro mondo. Suppongo di aver dato per scontato che il razzismo a Londra fosse meno problematico di quanto lo era una generazione prima, quindi è stato uno shock scoprire che quello del razzismo era l’unico tema di cui le ragazze volevano parlare. 

Ora capisco che quello che è stato è qualcosa di irrilevante per queste giovani donne. Ciò che conta per loro è il presente — e il loro racconto del presente è sentito e angosciante. 

Non so quale sia la risposta in termini politici. Non so nemmeno cosa posso fare nella mia classe — a parte cercare di evitare di cadere in gaffe imbarazzanti. 

In assenza di idee migliori, tutto quello che penso di poter fare, per ora, è: 

Ascoltare i miei studenti che parlano del loro mondo, pur continuando io a parlare a loro del mio. 

Sto insegnando a loro e loro insegnano a me. 

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